MELT-BANANA – 3+5
Nella primavera del 2014 ero a un concerto al Locomotiv, a Bologna, con quello che allora era uno dei miei due coinquilini e altre frequentazioni che non vedo più da anni (meglio così). Aprivano gli Zeus, un duo mathcore spuntato tra le pieghe della Fuzz Orchestra e dei Calibro 35. Dopo mezzora di discreti pestoni, però, ero pronto al vero show: i Melt-Banana stavano per salire sul palco. Ricordo che rimasi abbastanza frastornato dal vedere solo Yasuko e Agata sul palco, soprattutto perché la prima sembrava utilizzare qualcosa che assomigliava a un vecchio Blackberry per mandare i sample e controllare le drum machine. Fatto sta che in quei quaranta minuti scarsi di set i Melt-Banana suonarono almeno trenta canzoni, e dopo due di queste non avevo più idea di dove fossero finiti tutti gli altri: ma ero troppo impegnato a schivare calci ad altezza denti, pogare in un mare di gente esaltata quanto me, e a sudare e urlare in estasi ogni volta che i due attaccavano con un brano di Fetch, il disco che avevano pubblicato l’anno prima, per rendermene conto.
Da quella primavera sono passati dieci anni. Sono cambiate un sacco di cose, ovviamente: da studente ventenne sbarbato sono diventato un lavoratore baffuto, non vivo più a Bologna (purtroppo) e pogo molto meno ai concerti. Non vi nascondo che però quando ho visto su Bandcamp l’annuncio dell’uscita di 3+5 ho sorriso allo schermo come lo si fa a un vecchio amico.
Giusto un paio di settimane fa avevo parlato di come le aspettative mi avessero rovinato l’esperienza del primo ascolto del nuovo disco di Mabe Fratti: coi Melt-Banana è semplicemente impossibile. E questo non perché siano una band che non ha niente da dire, o perché i loro album cambino paradigma di volta in volta. I Melt-Banana proseguono, oramai da più di trent’anni, in una linea retta che tenta di espandere il dominio di lotta dell’hardcore punk più anfetaminico piegando al proprio volere le tendenze ipertecnologiche del pop elettronico contemporaneo. Quindi, sapete già che la voce J-pop di Yasuko trova la propria raison d’être nel contrasto con il soundscape granitico delle chitarre iper-effettate di Agata; se mettete su 3+5 da fan dei Melt-Banana sapete perfettamente di cosa sto parlando e a cosa andate incontro. Anche con qualche piccolo ritocco (più synth, batterie più feroci, una tendenza che qualche volta cede il passo ad armonie più “pop”) il sound Melt-Banana rimane irriducibilmente lo stesso del debutto Speak Squeak Creak: se volete leggere questa descrizione come un more of the same tralasciabile, capisco perfettamente il punto di vista. Io, dal mio canto, sentendo lo start-and-stop da montagna russa di brani come Seeds, Hex o Code non mi capacito di come una band che ha essenzialmente un solo asso nella propria manica riesca a far funzionare il proprio trucco così bene ogni volta.
Questa recensione esce in un momento complicato – ma d’altronde quando mai la vita non è complicata. La mia testa è quasi interamente dedicata al di là della musica, e sono convinto che se avessi dovuto scrivere una recensione di un altro disco (in redazione avevo optato per il nuovo di Lady Blackbird, che è mezzo inascoltabile) probabilmente non avrei avuto il focus giusto per parlarne. In un mondo come quello in cui navighiamo a vista, in cui ogni minima increspatura influisce significativamente sul giudizio che si fa di un disco, è confortante trovarsi davanti un pezzo di legno pieno di schegge come 3+5. Questo perché non sono i dettagli a rendere speciale i dischi dei Melt-Banana: la cosa importante è fare casino, urlare a pieni polmoni facendo headbanging, scatenarsi per mezz’ora. E a volte, in un anno in cui i particolari sono tutto, è proprio quello di cui si ha bisogno per salvarsi la vita.