OR BEST OFFER – CENTER
Ogni persona che si addentra in quella giungla che può diventare l’esplorazione musicale deve partire necessariamente da qualcosa. Una predilezione, un’affinità, un’ossessione… Quale sia il grado di intensità che caratterizzi il complesso rapporto tra un ascoltatore ed una certa sonorità, poco importa: a conti fatti, ciò che rimane è un’impronta sulle preferenze personali che difficilmente si potrà cancellare del tutto. Nel mio caso, la parabola discendente verso la condizione patologica che mi costringe all’ascolto di almeno un nuovo disco al giorno iniziò con la scoperta del post-rock – quello sbagliato.
La disgrazia infame che ci ha portato all’identificare collettivamente questo genere con grandi crescendo melensi e “cinematici” è una amara eredità di inizio millennio che continua ancora oggi a far danni, ma dopo circa vent’anni sembra che l’idea di un post-rock svincolato dai suoi tropi e più affine alle sue variegate origini stia iniziando a serpeggiare in esperimenti più o meno interessanti. Gruppi come gli Springtime, gli Still House Plants, o i Prizes Roses Rosa stanno dimostrando che è possibile recuperare ispirazioni ed approcci dalla creatività che aleggiava negli anni ’90 senza cadere in una mera operazione di revival fine a sé stessa, o nel kitsch condito con melassa.
È in questo recente filone che si infilano gli Or Best Offer, duo di Chicago nato nel 2018 che solo quest’anno si è impegnato a rilasciare la sua prima fatica in studio. Center nasce come “un documento e al tempo stesso un’estrapolazione del suono dal vivo del gruppo”, e non a caso è pubblicato da Ba Da Bing! Records, etichetta che tra fine anni ’90 e inizio anni 2000 fu dietro a numerosi dischi post-rock particolarmente interessanti, nonché ascoltati dai soliti quattro stronzi – penso a Juneau, o a Monitor Interference. La ricca descrizione su Bandcamp non si preoccupa particolarmente nel tirare fuori nomi grossi: Gastr del Sol, (i primi) Godspeed You! Black Emperor, Fennesz, Tim Hecker e Cat Power sono citati come punti di riferimento, e sebbene nell’album si ritrovino tracce più o meno pesanti di ognuno di essi, è bene anticipare già ora che Center è più della somma delle sue parti.
Solo formalmente divisi in sette brani, questi 37 minuti di musica scorrono senza soluzione di continuità, lasciando l’ascoltatore in balìa di una indistinta massa in cui chitarre distorte e baritone si alternano ad episodi acustici, in una generale sensazione di oppressione. Se è vero che i Gastr del Sol di Upgrade & Afterlife si percepiscono in più di un episodio, i rimandi post-rock del disco sono molteplici, e tutti legati al panorama di fine anni ’90: si intravedono le allucinazioni psichedeliche dei Jessamine, il magma dei Bardo Pond ed il folk avant dei Crescent, con una densità ed una gestione dei timbri che mostrano l’affinità verso un certo tipo di ambient; il tutto è sapientemente coniugato alla voce femminile della chitarrista Grace Schmidhauser, a volte accennata, a volte sofferta, dallo stampo quasi cantautoriale. È poi scavando nei dettagli che l’abbondante strumentazione che appare nei credits dell’album riesce a brillare, specialmente nei momenti in cui le radio “suonate” dal batterista Brian Culligan emergono a sparpagliare le carte in tavola.
La fluidità dell’impianto strutturale viene gestita alternando momentanei tentativi di ordine – l’accenno di crescendo sporco in Crawl Up, i suoni simil-Rhodes di Sand Slipped Through, l’arpeggio di chitarra in Jacket – ad episodi in cui le briglie vengono rilasciate, specialmente grazie all’instabilità del lavoro percussivo di Culligan. È verso la fine del disco che troviamo gli episodi più interessanti e carichi, come From Which Center, in cui la matrice folk, sempre presente, viene corrosa dai rumori di fondo, con il pezzo che finisce per scarnificare sul finale la sua stessa chitarra nell’introdurre la già citata Sand Slipped Through.
Quest’ultima traccia è senza dubbio il punto più emotivamente carico di questo lavoro, con la voce di Schmidhauser che finalmente si erge con maggiore convinzione, consumandosi infine in una litania toccante che fa pensare di essere ormai giunti a destinazione. Fa però ancora capolino Jacket, riprendendo le dissonanze già sentite in Light Pockets, e riagganciandosi al post-rock in quella che è però solo un’ombra (nell’accezione più positiva possibile) del tipico crescendo, sempre spezzato, instabile; quando una chitarra dissonante porta sull’attenti la batteria è ormai troppo tardi, poiché il tutto sfuma com’era arrivato, in un tappeto informe sul quale si muovono campanellini e rumori indistinti.
Il problema di Center è anche il suo punto di forza: l’omogeneità, la grande massa, il fatto che il disco sia evidentemente concepito per essere fruito tutto d’un fiato, riflettendo l’approccio dell’esibizione dal vivo. Da questo punto di vista, è probabile che coloro che non sono mai stati particolarmente affini all’ambient o alle “masse sonore” possano non stringere con questo lavoro un legame particolare, ma va comunque riconosciuto agli Or Best Offer il merito di aver tirato fuori dal cappello un disco post-rock non solo non intriso di cattivo gusto (già questo varrebbe l’ascolto), ma anche genuinamente bello. Tenetevi pure il crescendocore o i sogni bagnati su Charli XCX, noi ci teniamo volentieri il malessere.