CHELSEA WOLFE – SHE REACHES OUT TO SHE REACHES OUT TO SHE
Devo confessarvelo, sono in difficoltà. È quasi mezz’ora che guardo la pagina bianca del documento che ho appena aperto per scrivere questa recensione del nuovo disco di Chelsea Wolfe, She Reaches Out to She Reaches Out to She: nonostante tutto, non riesco a trovare un qualsiasi appiglio che mi permetta di spiegare perché, se abbiate mai voglia di mettere su questo disco, vi ritroverete ad aver perso quaranta minuti della vostra vita. Il problema sta nel fatto che She Reaches Out… ha veramente pochissimo d’interessante, e nonostante ciò sta già venendo salutato da tutt* (Fantano, Allmusic, Pitchfork, da noi OR) come uno dei Grandi Dischi dell’Anno (vabbè che siamo a febbraio, per dio, però potreste parlare di Acelero invece). Forse c’entra il fatto che Chelsea Wolfe si sia data una ripulita dall’alcolismo che, a suo dire, la perseguita da una vita, ma francamente non mi sembra una spiegazione valida dato che il disco non parla manco di quello.
D’altronde, sarebbe già un punto importante se She Reaches Out… volesse effettivamente parlare di qualcosa: la verità è che i dieci pezzi che lo compongono borbottano di argomenti casuali ma molto misteriosi perché è on brand col fatto che Wolfe si professa strega, e a quanto si sente nel disco non è manco una di quelle streghe che fanno cose fighe tipo rapire e mangiare i bambini. Purtroppo non posso dedicare il resto di questo pezzo a parlare del fascino della stregoneria perché c’è un album da recensire: discutiamo per un secondo, allora, della musica di She Reaches Out….
La musica di questo disco non esiste: ma non nel senso che è solo Chelsea Wolfe che canta a cappella, che magari sarebbe stata una mossa azzardata e ridicola ma perlomeno riconoscibile; quando dico che la musica “non esiste” è soltanto perché l’intero apparato che costituisce questo disco ha la sola e unica funzione di portare la voce di Wolfe fino alla fine del pezzo. Prendete brani come Everything Turns Blue, Eyes Like Nightshade, Salt, Dusk, e provate a metterli uno accanto all’altro: vi renderete conto che tra di essi non c’è nessuna differenza. Magari in un brano c’è un suonino – un pianoforte, dei piatti – che in un altro non c’è; è possibile che una volta il bridge del pezzo sia inserito prima del secondo ritornello; per qualche secondo Wolfe può smettere di cantare; ma vi assicuro che il risultato è sempre lo stesso. Le scelte di produzione e di composizione della Loma Vista su She Reaches Out… hanno appiattito in maniera indescrivibile un’artista – già non proprio poliedrica di suo – riducendo l’intera collezione di pezzi che è questo album a quello che è effettivamente un disco di pop con i suoni darkettoni pensati per il Dolby Surround: più volte, mentre le bordate elettroniche di Whispers in the Echo Chamber o le schitarrate sulla coda di Unseen World continuavano a passarmi da un orecchio all’altro, l’unica sensazione che riuscivo a ricavarne era l’inesorabile scorrere del tempo, preferibilmente nella direzione in cui She Reaches Out… finisce. L’effetto che ne risulta è veramente fastidioso, soprattutto perché si percepisce con quanta facilità sarebbe possibile replicare lo stesso umore di ogni brano. Alessandro, quando aveva recensito Weyes Blood due anni fa, si chiedeva come mai dovesse essere proprio lei a spuntarla su tutte le altre concorrenti della stessa nicchia di musica “alternativa”: Chelsea Wolfe campa grazie a quella stessa aurea mediocritas che sembra disperatamente sorreggere un certo midstream degli ultimi anni, solo che non c’è nessun altro moniker ugualmente inutile che possa far capire che la sua musica è profonda quanto una pozzanghera.