Il reggae mi annoia. Mi posso ascoltare un paio di canzoni ogni tanto, canticchiare qualche motivetto, ma quando metto su un intero album il latte straborda dalle mie ginocchia rischiando di farmi affogare già prima della quinta traccia. Detto ciò, il reggae e il ben più fumoso concetto di musica dub sono una delle influenze che più mi piace trovare dentro dischi di altri generi. Questo apprezzamento nasce un po’ dai Fugazi, che sono il primo gruppo in cui ho coscientemente riconosciuto come le bassline burrose e le atmosfere dub complementassero incredibilmente bene gli assalti punk, rendendo il sound generale molto più interessante e memorabile, e creando contemporaneamente due modi diversi di muovere la testa nella stessa canzone. Nel venire poi in contatto con tanti tipi diversi di espressione artistica durante gli anni – letteratura, cartoni animati, film e ovviamente musica – mi è diventato chiarissimo quanto alcuni elementi della cultura reggae fossero permeati profondamente dentro la collettività, e soprattutto quanto fossero efficaci nell’arricchire un certo tipo di panorama. Stavo dunque recensendo Machine di The Bug, una validissima collezione di brani usati da Kevin Martin nei suoi live set, quando ho pensato: “Perché limitarmi a scrivere solo un paio di righe sulle influenze dub? Questo aspetto è la base stessa del progetto The Bug, è interessante risalire a come le sonorità e cadenze reggae al suo interno siano così distanti da quello che normalmente si pensa”.
Dato che si parla di un processo relativamente recente, in questa sede non mi interessa granché trattare delle origini della musica reggae, per quanto sono sicuro che siano interessanti. Posso ben immaginare il ruolo che la diaspora africana abbia avuto nei secoli, e come da lì la floridissima tradizione musicale caraibica abbia metabolizzato il rock creando nuove sonorità, rivelatesi irresistibili. Come il reggae abbia poi raggiunto fama internazionale lo sanno quasi tutti, Bob Marley è ancora oggi una delle icone musicali più celebri in assoluto. Da questa grande popolarità deriva un naturale processo di commistione con altri generi, uno dei più fruttuosi operato dai Clash negli anni ‘70; tuttavia neanche questo è il punto del mio articoletto, in quanto queste prime influenze hanno partorito opere dove l’incorporazione del genere causa un rilassamento nella musica, che momentaneamente si assesta su ritmiche e cadenze più distese. Ciò che mi interessa è definire un processo ancora successivo, che ha preso piede dagli anni ‘80 in poi fino a diventare quasi onnipresente in una certa branca controculturale. Abbandoniamo quindi la musica per un poco e concentriamoci su Neuromante, romanzo dello scrittore americano William Gibson pubblicato nel 1984, e considerato come il grande genitore dell’immaginario cyberpunk. La storia parla della parabola frenetica del cowboy Case, un hacker dalle sinapsi fritte in preda a impulsi autodistruttivi, che accetta un lavoro tanto rischioso quanto losco nella speranza di riconquistare il suo legame col net, il cyberspazio. Per l’ossessione che ho con questi panorami ipertecnologici, non è un caso che Neuromante sia diventato subito uno dei miei libri preferiti: Gibson è stato capace di coniare uno dei grandi immaginari della nostra epoca come solo Tolkien e pochi altri erano riusciti a fare prima di lui, un mondo col suo codice e le sue regole da cui hanno poi preso pesante ispirazione innumerevoli altre storie, da Matrix a Ghost in the Shell. Ma che cazzo c’entra col reggae? In tutto questo pandemonio cibernetico troviamo inaspettatamente una colonia di rastafariani nello spazio chiamata Zion, alcuni dei quali aiutano il nostro eroe eccetera eccetera. Ovviamente, anche l’ultima città umana in Matrix si chiama Zion, anche se lì si perde un po’ l’elemento rasta. Di rastafariani spaziali in realtà se ne trovano vari: anche in Cowboy Bebop c’è una colonia su un asteroide con queste vibe. In tali immaginari la componente rasta rappresenta uno spiraglio di libertà teso a riconnettere l’uomo con uno stile di vita naturale; la tematica è chiave nella filosofia rastafariana, con Zion posta in antitesi a Babylon, un luogo concettuale simboleggiante l’oppressione istituzionale e la privazione delle libertà. È probabilmente questa pulsione liberatoria a fare della cultura rasta, che in musica si può identificare con il reggae, elemento amico per molti artisti alternativi; il suo ideale di autodeterminazione, di lotta al potere e di libera espressione va dopotutto a braccetto con la maggior parte delle sottoculture dagli anni ‘60 ad ora. C’è quindi una comune associazione tra reggae e calore, suoni organici e solari, un legame col mondo naturale capace di creare una dicotomia interessante quando inserita in contesti alieni.
In musica, molti progetti dagli anni ‘80 in poi hanno riproposto questo contrasto assimilando almeno in parte atmosfere derivanti dal reggae, a volte tenendolo come componente liberatoria, altre volte attingendo a una sua altra faccia che adesso andiamo a introdurre. Soprattutto in Inghilterra, i generi di musica elettronica che incorporano influenze dub sono infiniti, ma nessuno di essi si può considerare pacifico: dancehall e jungle come dirette discendenti, poi infinite ramificazioni come ragga, grime e le ormai popolarissime drum & bass e dubstep. Questa smisurata influenza nasce prevedibilmente dalla diaspora giamaicana dopo la Seconda Guerra Mondiale, che ha portato a un grande afflusso di immigrati caraibici nelle maggiori città britanniche e statunitensi, e il suo lato violento è facilmente riconducibile alla storia di questo popolo dopo gli anni ‘60. Con uno dei tassi di criminalità più alti al mondo e continua instabilità politica, la Jamaica non è certo considerabile un posticino tranquillo; l’alienazione sociale delle sue classi più povere, la ferocia delle gang e il venir meno della coscienza di classe tra i lavoratori sono alcune possibili spiegazioni per l’inizio di un cambiamento tematico che ha portato le evoluzioni del reggae a essere sempre più distanti dalle esortazioni alla giustizia e all’autodeterminazione degli albori. Seppur nato da tali problematiche, questo shift nei contenuti rappresenta in un certo senso un interessante e salvifico allargarsi di orizzonti per una musica altrimenti troppo monotematica per potersi adattare ai cambiamenti di interessi e mercato nei decenni. I figli e i nipoti del reggae, col loro eccesso di edonismo e tutto il kitsch che deriva da una musica totalmente popolare, costituiscono in realtà la chiave dell’incredibile potere culturale che l’immaginario rasta e jamaicano possiede ancora oggi, nonché la raison d’être di molti capolavori della musica moderna. Abbiamo quindi due filoni concettuali che si intersecano: la pulsione liberatoria del reggae – vestita peraltro di un’estetica particolare e pittoresca – che lo pone come logico elemento contraddittorio quando si costruiscono panorami distopici, e le sue diramazioni più trascinanti e aggressive, altrettanto iconiche per l’unicità dei riddim e delle metriche che adoperano. Chiunque sappia attingere a entrambe le attitudini si trova tra le mani un’arma espressiva potentissima, efficace tanto nella calma quanto nella tempesta: The Bug è appunto un ottimo esempio di tale capacità.
Manco a dirlo, Kevin Richard Martin è un mostro. Oltre trent’anni di assalti sonori gli hanno fatto conquistare un posto d’onore negli annali della musica industrial, del rock sperimentale, dell’hip hop e dell’elettronica. Dai numerosi progetti di qualità con Justin Broadrick (Techno Animal su tutti, ma anche God, Ice, Curse of the Golden Vampire) al più recente The Bug, Martin ha realizzato a colpi d’ascia un vero e proprio totem al rumore, effigie bella e terribile da venerare in mille modi diversi – dietro la console, al sassofono, al sintetizzatore o semplicemente urlando. Avevamo già parlato in termini entusiastici di lui inserendo Fire tra i nostri dischi preferiti del 2021, lodando come Martin avesse saputo trovare una perfetta simbiosi tra ragga ignorantissimo, UK Bass e quella produzione metallica industriale capace di lacerarci così gustosamente le orecchie. Le influenze reggae alla base del suo sound si concretizzano tanto negli impeti grime e ragga, affidati spesso a una miriade di vocalist diversi con timbri ultratombali e completati da bassi mastodontici, quanto nelle distensioni ambient dub che disperdono gli arrangiamenti in una nebbia stupefacente. I richiami naturali del reggae marciscono, cospargendo i clangori metallici industriali di melma e sinterizzando nuovi materiali tra l’organico e il sintetico. Ciò è vero principalmente nel bellissimo Fire, ma è un modus operandi che Martin utilizza ormai dagli anni ‘90, quando coi Techno Animal si lasciava andare ad aperture di bassi dub scarnificati, colonna sonora di chissà che incedere furtivo in chissà quali vicoli malfamati. È il caso di Hypertension in The Brotherhood of the Bomb, ma anche dei suoi pezzi nello split con Porter Ricks, Symbiotics. Anche nei suoi momenti più ignoranti, Martin non perde mai la finezza di autore elettronico con tutti i crismi, ed è quindi l’esempio migliore di quanta carne il reggae possa mettere al fuoco anche fuori dagli ambienti più festaioli. Perché, teniamolo sempre a mente, questi sono solo i tentacoli più particolari raggiunti da una musica il cui ascendente diventa incalcolabile se si considera il mainstream: il dancehall tamarro stile Sean Paul, l’onnipresente reggaeton, l’EDM coloratissima di Diplo/Major Lazer, per non parlare delle continue incursioni nell’R&B e nell’hip hop.
Un genere musicale finisce sempre per essere più pervasivo quando possiede elementi culturali ben definiti alle sue spalle: la cultura rasta alimenta il fuoco del reggae in quanto chiunque abbia in mente certe tematiche o atmosfere può utilizzare queste influenze per richiamarle, qualsiasi sia il medium di cui si sta parlando. Figurandosi gli abitanti di Zion in Neuromante ci si immagina subito musica reggae che si diffonde in quegli spazi affollati, connessione che non è altrettanto immediata per altri generi meno legati a uno specifico popolo. Questo meccanismo rimane poi quando si plasmano le influenze da cui si attinge, permettendo così agli artisti di creare lavori al contempo particolarissimi per le idee che ci stanno dentro ma di più facile fruizione per quanto è apparente il legame con la fonte di ispirazione. C’è dunque un qualcosa di assai intrigante nel riconoscere come il reggae, in origine abbastanza monocorde proprio perché identificato con un modo di vivere ben preciso, si sia saputo evolvere come forse nessun altro genere, assumendo le vesti più disparate e infestando tutti gli strati sociali; una musica che si è saputa fare opaca e colorata, dolce e aggressiva, edonistica e conscious, lenta e veloce. Che si cerchino le stratificate composizioni tribaleggianti degli African Head Charge, le cavalcate a 200 bpm dei mix di DJ Jeffee, i collage dinoccolati dei General Strike o, tutto il contrario, i classici di Bob Marley e Lee “Scratch” Perry, ci sarà sempre una versione della musica reggae che, inaspettatamente, finisce per ammaliare.