BLOOD INCANTATION – ABSOLUTE ELSEWHERE
Avevamo lasciato i Blood Incantation alle prese con la loro narcolettica interpretazione della space ambient, ormai un paio di anni fa. Da allora, l’unica notizia arrivataci era quella del singolo Luminescent Bridge, pubblicato a settembre 2023, che sembrava aver offerto una discreta sintesi di quanto sperimentato su Timewave Zero e quanto invece perfezionato nel piccolo classico moderno di Hidden History of the Human Race: due lunghi brani, per una media di nove minuti a testa, dove la musica cosmica diveniva nuovamente soltanto un ingrediente per speziare il loro caratteristico sound death metal progressivo e siderale. Nulla di imperdibile, ovviamente, ma un’ulteriore prova delle qualità dei Blood Incantation e soprattutto un bel sospiro di sollievo dopo l’infelice parentesi dell’album precedente.
Sfortunatamente, non è andato tutto come speravamo. Pochi giorni fa i Blood Incantation sono tornati con Absolute Elsewhere, disco che traspira tragedia fin dal minimo dettaglio più superficiale: lo show tenutosi nel giorno della pubblicazione dell’album li ha visti accompagnati da un grande fan del gruppo – vale a dire: Steve Roach – mentre Thorsten Quaeschning, l’attuale leader dei Tangerine Dream, presta i propri sintetizzatori su una delle tracce dell’album. Non solo: il titolo è un esplicito omaggio alla band omonima messa in piedi da Bill Bruford verso metà anni Settanta di cui, giustamente, si ricordano in cinque (me non compreso); e se la copertina di Steve R. Dodd, degna di una locandina di qualche b-movie horror/sci-fi dimenticato da dio, non fosse abbastanza esemplificativa di cosa vi potete aspettare all’ascolto, leggete la descrizione terrificante che ne dà – evidentemente compiaciuto: poverino – il chitarrista e cantante Paul Riedl.
Absolute Elsewhere is our most potent audial extract/musical trip yet; like the soundtrack to a Herzog-style sci-fi epic about the history of/battle for human consciousness itself, via a ’70s prog album played by a ’90s death metal band from the future.
Come molti dei dischi più chiacchierati di quest’anno, anche Absolute Elsewhere si macchia di una colpa imperdonabile, ovvero essere pressoché insignificante – non è l’instant classic di cui si parla in giro (qui, qui, qui), ma non è nemmeno un lavoro orribile o capace di accendere particolare acredine all’ascolto. Certo, si può guardare con malcelata sufficienza le sbrodolate pubblicitarie sui “due brani di venti minuti, uno per lato del vinile!” quando entrambi sono divisi in tre tracce ciascuno, e perdipiù ognuna di queste tracce è indistinguibile da un pezzo completamente autonomo, collegato agli altri due frammenti più per affinità concettuale che non musicale; e a seconda di quanto ci si è innamorati di Starspawn e Hidden History of the Human Race la delusione può risultare più o meno cocente. Ma si tratta, alla base, di un lavoro tremendamente innocuo. Altrove si sono spesi fiumi di parole su quanto i Blood Incantation siano un gruppo lungimirante, coraggioso, inclassificabile, che va per la propria strada contro tutto e tutti. E quest’ultima affermazione è a suo modo vera; l’unico problema è che la strada perseguita dai Blood Incantation è tutt’altro che impervia o poco battuta. Il che non è manco un crimine di per sé, visto che nemmeno Hidden History of the Human Race si muoveva su binari mai sentiti prima: tra gli ascoltatori più puri dei puri non si è mai mancato di rimarcare – comunque piuttosto giustamente – quanto l’approccio del gruppo sia sempre stato profondamente radicato in certe emanazioni del death metal old school, dai soliti Morbid Angel passando per fenomeni cult come Demilich e Timeghoul. Ciò che ha sempre contraddistinto i Blood Incantation, e che ne ha determinato la grandezza sui primi due full-length, è stata la capacità di rielaborare la lezione di tali maestri esaltandone il gusto melodico obliquo, l’atmosfera ultraterrena, l’aura surreale e le allusioni più psichedeliche, mantenendo comunque un impianto essenzialmente estremo. Pezzi come Vitrification of Blood (Part 1), The Giza Power Plant e Awakening from the Dream of Existence to the Multidimensional Nature of Our Reality (Mirror of the Soul) erano innanzitutto grandiosi numeri di death metal, per quanto evoluto nella struttura e stratificato a livello di soluzioni timbriche: la compenetrazione tra la matrice death metal e le ambizioni progressive avveniva in maniera naturale, liscia, impeccabile.
Su Absolute Elsewhere, invece, i Blood Incantation commettono un errore tristemente troppo comune tanto tra i gruppi quanto tra gli ascoltatori – ovvero quello di pensare che la maturità si raggiunga allontanandosi dal tessuto metal primigenio, e che avvicinarsi a sonorità più morbide e ariose sia intrinsecamente più nobilitante a prescindere dalla professionalità con cui queste si affrontano. Proseguendo nel solco tracciato da Luminescent Bridge, il quartetto alleggerisce il sound levigando le asperità delle parti strumentali (in particolar modo quelle di chitarra e batteria, più mansuete tanto a livello timbrico quanto a livello di complessità), lasciando più spazio a tastiere, organi e sintetizzatori (che qua e là imitano anche il timbro dei flauti progressive), ampliando i richiami a Klaus Schulze, ai Genesis e ai Gong, conferendo più minutaggio a sezioni distese con chitarre in clean e voce senza growl. Di nuovo, questa strada non è per forza fallimentare se perseguita con intelligenza – la svolta dei Voivod su Angel Rat e The Outer Limits è un eccellente esempio in questo senso – ma quella dei Blood Incantation trova un miglior termine di paragone nel cambio di rotta degli Opeth dopo l’incontro con Steven Wilson: l’amore per il progressive rock e la kosmische Musik è palpabile e genuino, ma il gruppo è evidentemente poco preparato a cimentarsi in questi generi e li rimastica in maniera molto artificiosa. La prospettiva da cui i Blood Incantation approcciano queste musiche è vetusta, per non dire museale; i riferimenti sono ovvi quando non posticci. Pure l’assemblaggio di tutte le diverse influenze nella scrittura dei brani non perviene a una commistione omogenea e nuova di sensibilità molto distanti tra loro, bensì a un Frankenstein sonoro iper-citazionista e fatto di segmenti che faticano a comunicare l’uno con l’altro. È triste notare quanto un gruppo dotato come i Blood Incantation si incarti negli stessi errori di metodo che abbiamo rimproverato ai Tomb Mold l’anno scorso.
Prendiamo per esempio in esame The Stargate: Tablet I parte in quarta come un brano di technical death metal piuttosto tradizionale, si arena ex abrupto in un pantano di cliché progressive rock con ovvi richiami a Rush e Pink Floyd (con tanto di ridicolo e tronfio assolo in stile Gilmour), e poi non curante di tutto si chiude con un altro paio di minuti di death metal schuldineriano, prima di sfociare su Tablet II in tre minuti di progressive electronic à la Ashra (ricordate che, anche se su due tracce diverse, in teoria dovrebbe essere una sola composizione) e quindi preludere all’ultima Tablet III tramite un raccordo di progressive metal scuola Opeth. È solo qui, dopo quasi quindici minuti dall’inizio dell’album, che i Blood Incantation mostrano di nuovo la brillantezza di Hidden History of the Human Race, adagiandosi su terreni più propriamente death metal – pur con una parentesi per mellotron che rifà ovviamente il verso ai King Crimson del primo periodo – e riesumando pure la scala frigia già utilizzata per The Giza Power Plant.
La seconda parte The Message crolla ancora più rovinosamente sotto il peso della visione anziana dei Blood Incantation. A parte la Tablet I, che si muove su coordinate sospese tra i Death di The Sound of Perseverance e i Cynic di Focus, abbiamo di nuovo una Tablet II dominata dai pesanti rimandi a Wish You Were Here e agli Eloy, per finire con un lunghissimo movimento di oltre undici minuti dove il pensiero di questi nuovi Blood Incantation viene messo a nudo in tutta la sua pochezza: riff che sembrano presi di peso da Symbolic, parentesi bucoliche per flauto, percussioni e canto pulito tratte direttamente dai dischi dei Camel, luminosi bridge progressive metal che conducono a nervosi tremolo picking di stampo blackened death, per poi lasciare spazio a un ennesimo tronfio assolo di chitarra e quindi a una coda di sintetizzatori new age. Tutto sembra accadere soltanto perché questa è la musica che i Blood Incantation ascoltano e quindi questo è ciò che loro vogliono farci ascoltare: non c’è lucidità o criterio nel modo in cui i vari pezzi vengono saldati tra di loro, non c’è concetto se non l’intenzione di suonare magniloquenti.
Su Metalitalia si è azzardato un accostamento con gli Edge of Sanity di Crimson, e per quanto sia un debito stilistico riconosciuto dallo stesso batterista Isaac Faulk questo paragone offre soprattutto un comodo assist per spiegare ciò che i Blood Incantation non riescono a fare. Il punto di forza di Dan Swanö sta proprio nella sua capacità di integrare la catchiness leggera dell’AOR e del neo-prog con il senso della melodia della scuola svedese, senza soluzione di continuità o attriti estetici, dando così vita a una poetica inconfondibile che tuttora viene (giustamente) percepita come uno dei vertici autoriali del death metal. I Blood Incantation, al contrario, se non avessero mantenuto il growl e qualche stantìo tappeto di doppia cassa su questo disco sarebbero indistinguibili da una qualunque band messa in piedi da un qualche utente di ProgArchives. Essere vecchi è sempre una colpa.