Foto in copertina scattata da Dario, @superstanwoj su Instagram
Steve Albini ha lasciato questo mondo troppo presto. Una delle più grandi personalità della musica popolare è scomparsa con un disco degli Shellac in arrivo, tanti gruppi ancora da produrre e campionati mondiali di poker da vincere – rigorosamente con indosso maglie di misconosciute band rumorosissime dal nome impresentabile. Ovunque gli appassionati lo hanno compianto, ricordando i suoi rant più iconici o cercando in qualche modo di spiegare la sua incalcolabile influenza a chi magari non lo conosceva bene. È facile andare a trovare questa miriade di aneddoti, trarre conforto dai ricordi altrui; credo che ogni singolo membro della nostra redazione lo abbia fatto per almeno un paio di giorni, ciascuno su lidi diversi. Il contributo che però vogliamo dare a questa veglia collettiva è diverso: l’indole unica del gigante americano può insegnare tante cose a chi è ancora in vita, musicisti e non. Steve Albini incarnava infatti tutta una serie di caratteristiche preziosissime che in questo momento storico stiamo in larga parte trascurando. Ancor più che dalla sua musica, ancor più che dalla sua vasta conoscenza delle tecniche di registrazione analogica, è importante trarre significato dalle sue parole, perché corroborate dalle scelte che ha fatto.
L’esistenza di Steve Albini è stata segnata dal religioso aderire a un codice etico che non aveva bisogno di nessuna conferma o smentita da parte del mondo esterno. Il rigetto del compromesso sta forse alla base di tutto, e scandisce una vita passata a bilanciarsi sul filo di uno strano paradosso: Albini si è fatto artefice di una delle espressioni artistiche più incendiarie e rumorose della storia della musica, eppure era animato da un’industriosità silenziosa, un quieto amore per la tecnica e la logica che lo ha portato a divenire un vero e proprio luminare dell’ingegneria sonora – o almeno di un determinato modo di fare le cose. Voglio soffermarmi su una frase che avevo già internalizzato dai suoi ragionamenti espressi in numerose interviste e registrazioni trovate in giro, e che sono poi stato contento di trovare scandita esplicitamente nell’interessante post Facebook di Andrea Signorelli, fratello del critico Luca, a cui Albini produsse un disco negli anni ‘90: vivere di musica è immorale. Parole come queste possono sembrare strane o perfino irrispettose in un mondo abituato a sentire gli accorati appelli di artisti che non riescono ad arrivare a fine mese; siamo sommersi da storie di major malvagie con infinito potere, di algoritmi che crocifiggono chi non fa musica prodotta a puntino per essere consumata dal maggior numero di persone possibile. Tutte queste ingiustizie sono vere e cocenti. Analizzare il significato della frase poco sopra alla luce dell’operato di Albini rivela però una preziosissima verità: il suo stoicismo lo rendeva il nemico più acerrimo e – ancora meglio – più efficace di questa industria musicale incancrenita. Le sue azioni erano governate da una rigida morale fondata su rispetto e autosufficienza, un sistema di valori che lo ha portato a rinunciare a milioni di dollari in royalties pur di non togliere soldi dalle tasche degli artisti in una maniera che considerava indegna. Pagatemi come un idraulico, scrisse ai Nirvana: io faccio il lavoro e riscuoto un compenso appropriato. In un mondo fondato sempre più su beni inconsistenti, valore creato dal nulla e sempre più difficile da stimare accuratamente, Albini è rimasto coerente nel suo apprezzamento per il tangibile, per un percorso produttivo che fosse quanto più scarno e trasparente possibile. Ogni intermediario, pubblicitario, tuttofare dalle mansioni non immediatamente intellegibili rappresentava per lui nient’altro che un ostacolo da evitare nel perseguire un’idea di musica popolare nel senso più nobile della parola. Il suo “vivere di musica” era quello di un artigiano pagato per il proprio tempo e la propria abilità, incorruttibile e per questo completamente al di fuori dei canti di sirena dello star system, del mercato avvoltoio pronto a predare sull’ego e la fame di persone cresciute con un’idea distorta di cosa significhi avere successo. Steve Albini bastava a se stesso. Conoscere la propria natura, e non lasciare che essa venga piegata e plagiata dalle pressioni del mondo esterno, è forse il singolo consiglio più importante che molti giovani potrebbero ricevere ora come ora. “Il premio per il mio operato è la facoltà di poterlo fare anche domani”, soleva dire. Il bruciante senso di terrore esistenziale che attanaglia le generazioni moderne, incerte sul loro posto nel mondo e su come realizzarsi in una società dall’evoluzione sempre più rapida, può avere come risposta l’abnegazione; e ancor più che un ideale, qualcosa di fumoso che si è incerti su come raggiungere, la realizzazione personale attraverso il lavoro – non inteso come il calvario disumanizzante che spesso propone questo sistema economico, bensì il suo fulcro più nobile, il servizio alla comunità – può essere la cura che tante persone cercano. Trovare qualcosa che ci piace, dedicarcisi, diventare sempre più bravi giorno dopo giorno e farlo restando sempre fedeli alla propria etica. Esistere al di fuori della spirale di interessi personali che sembra governare ogni interazione umana. Offrire agli altri senza trucchi, senza schemi o sotterfugi, e ottenere quello che spetta. Non sto certo dicendo che una strada del genere debba essere perseguita con la dedizione quasi monastica di Albini: il mio vuole essere solo uno spunto di riflessione, al limite un invito a incorporare questa prospettiva nelle azioni che già si compiono. Purtroppo, una delle persone che poteva dire queste cose sapendo di poter tenere la testa alta se ne è andata. L’otto maggio del duemilaventiquattro, giorno che trentuno anni fa vide i miei natali, mi trovo quindi a salutare una mia grande fonte di ispirazione.
Ciao Steve. Che la terra non ti sia lieve: sia essa metallica e compatta, inscalfibile ed eterna, a simboleggiare chi eri anche quando tutto il resto scomparirà.