MARINA HERLOP – NEKKUJA
Anche se il nome della catalana Marina Herlop è apparso diverse volte su questo sito, tra namedropping in interviste e menzioni d’onore in classifiche individuali, l’anno scorso fummo tra i pochissimi a non spendere qualche parola su Pripyat, l’esordio per PAN che l’ha tirata fuori dall’anonimato dei suoi primi due dischi. In un periodo di incontrovertibile declino per tale etichetta, piegata com’è dal peso di una paccottiglia di pubblicazioni fatte di art pop stucchevole adagiato su riduzioni elettroniche hi tech, Pripyat si ascriveva a quella sparuta manciata di due–tre dischi all’anno che la PAN riesce ancora ad azzeccare. Il cantautorato profondamente intriso di spirito accademico che si poteva ascoltare su Babasha veniva arricchito dal contributo di un’elettronica di derivazione post-club che ne avvicinava la proposta all’art pop iper-moderno delle varie Arca e Holly Herndon. Tuttavia, da questi modelli Pripyat si distaccava per un approccio leggermente meno futuristico e più autoriale, che ricollocava la loro proposta in un contesto di folktronica sfilacciata e astratta dai riflessi atavici, che ricordava la Juana Molina di Un día. Era un originalissimo aggiornamento di quella poetica contesa tra folk ed elettronica che era già stata attuata da Eartheater su RIP Chrysalis, ma privata di tutta la sua dimensione più tamarra che poi sarebbe deragliata completamente su Phoenix nel 2020. Riascoltato a un anno di distanza, ora che il bisogno di parlarne per essere à la page a tutti i costi si è finalmente quietato, Pripyat appare ancora più interessante di quanto già non fosse al momento della sua uscita.
Confermando il sodalizio con la PAN, Herlop ha cominciato a scrivere il seguito di Pripyat prima ancora che questo venisse pubblicato ufficialmente; non sorprende quindi che questo nuovo Nekkuja, uscito a fine ottobre, prosegua con grande continuità il discorso musicale ed estetico approntato sul suo predecessore.
Come nel caso di Pripyat, la musica di Nekkuja si situa in un’intercapedine che separa le nuove forme dell’art pop elettronico da una forma immaginaria di folk ancestrale, anche se in questo caso l’ispirazione folk è ben più pronunciata – già a partire dal concept di ispirazione naturalista, in cui la coltivazione e la preservazione di piante, giardini e foreste sono viste come metafora della cura della propria psiche. Quando Herlop adotta la lingua catalana, il tema boschivo di Nekkuja è molto esplicito: Busa si apre con una citazione a una canzone del pianista catalano Federico Mompou («Damunt de tu només les flors» – «sopra di te soltanto i fiori»), mentre il testo di La alhambra si dipana per libere associazioni di immagini bucoliche pervase da un profondo sentimento animista. Il più delle volte, però, l’immaginario concettuale del disco si confonde con il lavoro di ricerca sulle possibilità della voce umana e soprattutto con l’indagine sul potere evocativo più primordiale della parola – tant’è che spesso, come sulla seconda parte di Busa o per l’interezza di Karada e Reina mora, Herlop si diletta con un linguaggio inventato che tenta di convogliare sinesteticamente i colori e le immagini della vegetazione. A questo scopo, il canto di Herlop si fa ancora più versatile di quanto già non fosse su Pripyat: può cimentarsi in arzigogolati gorgheggi björkeschi per poi finire verso direzioni più pop che possono far pensare anche a Katie Gately; può ergersi solenne declamando ostinatamente formule degne di un mantra, venire distorto da sfarfallii digitali e decadere quindi in uno schiamazzo infantile; può, ovviamente, venire raddoppiato o triplicato dagli overdub elettronici che forniscono da controcanto alla linea vocale principale.
La differenza chiave con quanto fatto su Pripyat va ricercata però nell’umore generale di Nekkuja, che in virtù del suo concept suona ancora più lontano dalle accelerazioni hi tech della maggior parte degli artisti art/glitch pop contemporanei. Al confronto con Pripyat, Nekkuja appare estremamente più luminoso e rigoglioso, ma la sua più spiccata sensibilità pop viene smorzata da una peculiare dimensione esotica e austera, ereditata direttamente dal folk e dalla musica di ispirazione accademica – il che finisce per evocare all’ascolto suggestioni simili a quelle di un altro grande lavoro di art pop elettronico catalano, vale a dire Kondaira erde hura di Verde Prato. Nonostante i rombi tonanti di elettronica distorta su Busa, il tiro drum & bass della ritmica di Cosset, o ancora gli sfarfallii di sintetizzatore su Reina mora e su Interlude, la musica di Herlop mantiene sempre un distinto fascino selvatico e antico, che si riflette nel peculiare processo di sound design del disco e nella scelta dei campionamenti e degli strumenti che affiorano lungo tutto l’album: leggiadri arpeggi di arpa, delicate linee di flauto traverso, loop di pianoforte impressionista, echi silvani di risate gioconde. È un approccio alla folktronica tanto raro quanto prezioso, e per questo non possiamo che salutare Nekkuja come uno dei grandi dischi di questo 2023 ormai agli sgoccioli.