STEVE LEHMAN / ORCHESTRE NATIONAL DE JAZZ – EX MACHINA
Con i suoi dischi editi sotto la sigla Sélébéyone, che noi stessi non abbiamo mai mancato di esaltare, Steve Lehman è riuscito a infiltrarsi – almeno parzialmente – nella nicchia di pubblico alternativo grazie a una sintesi ultraterrena tra improvvisazione jazz, hip hop americano e senegalese, ed elettronica colta che è arrivata a sbancare perfino su Pitchfork. Ma prima ancora dell’esordio dei Sélébéyone la critica e l’audience più propriamente jazz avevano già riconosciuto ampiamente la sua statura artistica per via del lavoro realizzato con il suo ottetto, che ha diretto dal 2008 al 2015 e con cui ha inciso due dei dischi più importanti della nuova scena avant-garde newyorkese. Travail, Transformation and Flow (2009) e Mise en Abîme (2014) hanno coniato una nuova forma di jazz futuristico che ha aggiornato felicemente l’idioma afrologico dell’AACM e dell’M-base inglobando strategie compositive ed esecutive mutuate dallo spettralismo francese e – nel caso specifico di Mise en Abîme – anche dagli studi sull’elettronica interattiva che Lehman ha conseguito all’IRCAM di Parigi, nel 2014: al solito, per un’analisi più dettagliata su come questi elementi confluiscano organicamente nella sua musica, vi rimandiamo alla nostra retrospettiva sulla produzione Pi Recordings degli anni Dieci.
Entrambi questi lavori hanno delineato la figura di un artista non soltanto molto curioso verso i più disparati generi musicali (jazz, hip hop, elettronica, classica contemporanea), ma anche estremamente aperto alle possibilità di integrare nuovi sviluppi tecnologici all’interno di una cornice di jazz prevalentemente acustico. E l’avvento dello spauracchio dell’intelligenza artificiale, agitato da più parti come una sinistra minaccia destinata ad appiattire e livellare la proposta musicale seguendo algoritmi preimpostati, dissanguando l’arte di calore e umanità, non ha cambiato le cose: come dichiarato in una bellissima intervista a PostGenre, pur con gli ovvi rischi che l’IA comporta – non ultimo, l’utilizzo sui social media volto a diffondere disinformazione, che già abbiamo potuto imparare a conoscere – essa rimane uno strumento a disposizione dell’essere umano, e oltretutto uno dei più potenti e importanti che siamo riusciti a creare negli ultimi anni.
Ultimately, AI is a resource. It’s an incredibly powerful tool that some people may compare to fire, something that can be used for great good but can be very damaging in the wrong hands.
Steve Lehman
But I’ve long been in a place where I’ve been comfortable looking at new technologies, and I put artificial intelligence into that larger umbrella of new technologies as a resource tool. It’s opened up possibilities for me.
Questo nuovo Ex Machina, uscito per la sempre eccellente Pi Recordings a metà settembre, nasce proprio da questa prospettiva squisitamente techno-friendly. È il frutto di una collaborazione tra Steve Lehman e l’Orchestre National de Jazz (d’ora in avanti: ONJ) che va avanti da ormai diverso tempo – ovvero da quando Frédéric Maurin, fresco di nomina come direttore della ONJ dopo una dozzina d’anni di gavetta maturati come leader dei Ping Machine, ha contattato Lehman per avviare un rapporto di lavoro, in virtù di una profonda affinità artistica ed estetica. Nonostante dell’ensemble che suonava su Mise en Abîme siano rimasti soltanto il trombettista Jonathan Finlayson e il vibrafonista Chris Dingman – oltre a Lehman stesso, s’intende – è comunque evidente il fil rouge che collega la proposta di quel lavoro a questo Ex Machina, che di fatto ne è un potenziamento sotto molti punti di vista. I dodici strumentisti della ONJ conferiscono alle partiture di Lehman la densità di volume degna di una big band: flauti, clarinetti e sintetizzatori arricchiscono la gamma timbrica a disposizione di Lehman, mentre le voci di sassofoni, trombe e tromboni che già si apprezzavano sui dischi del suo ottetto vengono raddoppiate o triplicate. Questa rinnovata dimensione orchestrale finisce per potenziare la natura spettralista della musica di Lehman, che nel corso della sua discografia ha sempre sfruttato a proprio vantaggio la dimensione psicoacustica e liminale data dalla sovrapposizione di diverse voci che suonano simultaneamente note appartenenti allo stesso spettro armonico, in quanto i vari strumenti mantengono la loro definita identità timbrica e al contempo la relazione tra le loro frequenze li amalgama in un unico miraggio sonoro. Di conseguenza, il fatto di poter sfruttare il gran numero di elementi dell’ONJ gli permette di stratificare ulteriormente le texture armoniche, rendendo i suoi arrangiamenti ancora più ricchi e sofisticati – almeno dal punto di vista della disposizione verticale dei suoni – di quanto non fossero mai stati in passato.
Visti gli stretti rapporti che legano Lehman al panorama spettralista francese, un titolo come Ex Machina indurrebbe nella tentazione di inferire l’influenza diretta da parte della Tempus ex machina composta da Gérard Grisey nel 1983, ma si cadrebbe in errore: come giustamente appuntato dal critico e musicologo Gianni Morelenbaum Gualberto, la poetica di Lehman risente prevalentemente l’interpretazione dello spettralismo fornita da Tristan Murail, e pertanto la somiglianza tra i due titoli va letta soltanto come un giocondo innuendo. Piuttosto, il vero significato del nome Ex Machina è immediatamente spiegato traducendo alla lettera dal latino: per comporre questo lavoro, sia Lehman che Maurin si sono avvalsi in maniera cruciale del contributo delle macchine – i.e., delle intelligenze artificiali, e nella fattispecie di DICY2. Si tratta di un software realizzato all’IRCAM per la produzione indipendente di suoni capaci di interagire in tempo reale con il materiale suonato dai musicisti; il suo creatore, Jérôme Nika, è anche colui che ha contribuito a sviluppare il programma per venire incontro alle necessità di Lehman e Maurin, mentre è stato Dionysios Papanikolaou ad assolvere al ruolo attivo di supervisione per evitare che l’IA evadesse dalle richieste dei due compositori.
Come spiegato nell’articolo Composing Structured Music Generation Processes with Creative Agents, scritto dallo stesso Nika insieme a Jean Bresson, il DICY2 ha una memoria composta di tante registrazioni (scenarios) da cui può attingere liberamente per produrre una propria risposta al materiale eseguito dall’orchestra, imparando i pattern (subliminali o meno) che ne governano il processo di scrittura e improvvisazione. Chi gestisce il software ha quindi totale libertà nella gestione del processo di elaborazione di tali scenari: si può alterare la lunghezza delle frasi sviluppate da DICY2, o modificare la sensibilità alla ripetizione all’interno di tali frasi, o si possono filtrare le registrazioni a disposizione del software per un certo insieme di parametri (altezza, timbro, spettro armonico, ritmo…), o ancora si può imporre che esso interagisca in presa diretta con un musicista, analizzando la dinamica di esecuzione, il tipo di note suonate, i vuoti e i pieni lasciati dal suo operato e quindi rispondere in maniera creativa a tali stimoli. Su Chimera, il dialogo soprannaturale tra il vibrafono di Dingman e la sua ombre double realizzata simultaneamente dall’elettronica mostra come il software possa rappresentare un ulteriore improvvisatore dell’orchestra; su Alchimie, invece, DICY2 scandaglia un database di suoni compilato da Lehman e sceglie – seguendo strategie proprie, estranee al normale modus operandi del sassofonista – quelli che meglio si integrano con la musica dell’ensemble, nel tentativo di intarsiare una piccola Désintegrations in un lasso temporale di soli tre minuti. Il fatto che l’IA venga adoperata tanto come individualità autonoma quanto come strumento sotto il pieno controllo della creatività umana è sintomatico del positivismo tecnologico alla base del pensiero di Lehman e Maurin: in questo, è evidente l’insegnamento del George Lewis di Rainbow Family, una delle composizioni antesignane del connubio tra improvvisazione acustica e live electronics, realizzata proprio all’IRCAM nel 1984.
Per via di questa sua duplice natura – algida e hi-tech grazie agli interventi di DICY2, ma comunque ricca di colori e di timbri grazie alla mole di strumenti della ONJ – Ex Machina getta un ponte tra il linguaggio jazz brillante e lussureggiante di illustri direttori d’orchestra del passato come Thad Jones e Mel Lewis (riferimenti riconosciuti esplicitamente da Lehman stesso) e i paesaggi traslucidi dell’elettronica iper-moderna. I groove propellenti e gli arrangiamenti bandistici luminosi – qua e là, addirittura swinganti – della tradizione big band vengono incrinati e deformati da misure poliritmiche, sincopi, contrappunti, voicing spregiudicati, perturbazioni elettroniche, per poi sfumare e confondersi con il suono degli altri strumenti in armonie sospese nel vuoto. È una collisione di idiomi che si può apprezzare nell’andamento ritmico ondivago e negli spigolosi unisono dei fiati di Jeux d’anches; o nella splendida Les treize soleils che, da elucubrazione per flauto solo e live electronics sulla falsariga della Noa Noa di Kaija Saariaho, deflagra nella seconda metà in un’incalzante performance bandistica aliena, con i call & response tra front line e sezione ritmica che sembrano scagliare la tradizione improvvisativa afro-americana nel futuro; o ancora in Los Angeles Imaginary, in cui l’andamento piuttosto quadrato, segnato dalla stessa figura ritmica singhiozzante esposta dal batterista Rafaël Koerner in apertura al pezzo e riproposta quasi senza variazioni per tutta la sua durata, viene camuffato dal misterioso framework spettralista realizzato dal pianoforte acustico, dal sintetizzatore, e dalle increspature elettroniche di DICY2 che gli fanno eco. In questa continua sovrapposizione tra classicismo e post-modernismo emerge anche l’influenza chiave di certe registrazioni per formazioni allargate della scuola AACM: il modo in cui le trame di fiati si addensano sopra i forsennati ritmi polimetrici scanditi dalla base ritmica sull’iniziale 39 richiama alcune incisioni orchestrali di Anthony Braxton come Creative Orchestra Music 1976, mentre la scrittura umbratile di Maurin nei due movimenti di Speed-Freeze – più subliminale e notturna nella prima parte, più esplosiva nella seconda – rievoca, anche melodicamente, l’afflato colto delle composizioni di Anthony Davis per i suoi dischi Gramavision anni Ottanta.
L’enorme varietà di soluzioni sperimentate e il modo in cui ogni brano affronta da una diversa prospettiva le possibilità offerte da DICY2 in un contesto improvvisativo fanno sì che la musica di Ex Machina stupisca e diverta per tutta la sua durata – che non è un risultato da poco, contando che si parla di oltre 70 minuti di musica cervellotica, complessissima a livello ritmico quanto armonico. Lo sguardo estremamente moderno e acuto che Lehman, Maurin e la ONJ rivolgono simultaneamente all’improvvisazione elettroacustica e alla scrittura per big band è una ventata di energia creativa talmente fresca e nuova che fa passare in secondo piano l’altrettanto notevole achievement di aver, per una volta, messo a tacere gli allarmismi pessimistici che fioccano sempre quando si parla di musica e intelligenze artificiale. Ex Machina ha squarciato la cupa nube di retorica intorno alle IA come morte dell’umanità nell’arte e al di là di questa fenditura ci ha offerto uno scorcio di futuro radioso, straripante di creatività e possibilità ancora da esplorare: semplicemente, un album imperdibile.