In copertina: Il Boeing della Jeju Air schiantatosi a Muan, Corea del Sud, in prossimità della fine dell’anno.
Nuovo anno, nuova classificona. Questo 2024 ci ha visti impegnatissimi dal punto di vista lavorativo e personale, costretti dunque a fare equilibrismo tra mole e frequenza di contenuti pubblicati. Nonostante ciò, quello che abbiamo trovato scavando nei meandri di aggregatori, etichette e opinionisti vari ci soddisfa: musica densa di input, sempre più globale per come gli artisti raccolgono e declinano le loro influenze. La forza di un pianeta continuamente e istantaneamente connesso dovrebbe essere questa, al netto di tutti gli ostacoli che l’organizzazione del primo mondo pone davanti all’espressione e alla divulgazione artistica. Troppo materiale, poco interesse, pochi luoghi di aggregazione dove il suddetto interesse potrebbe venir sviluppato. Troppi trabocchetti sonori, colorati e dalla fruizione così immediata che diventa difficile trovare posto per qualcos’altro.
Noi, dal basso della nostra misera influenza e del poco tempo a disposizione, stiamo cominciando a muoverci, dialogando un pochetto di più col territorio quando ci viene data occasione, interfacciandoci con nuove persone e cercando di prendere qualche palla al balzo in più rispetto alle tante che ci facciamo scappare – così speriamo di continuare anche l’anno venturo. L’aver trovato una nuova penna, valida e appassionata, aiuta non poco. Le proposte che portiamo in questo compendio dell’anno passato sono come sempre piuttosto allineate tra i singoli redattori, ma radicalmente diverse da quelle che gli altri nostri colleghi vi propongono; questo perché l’apprezzamento di Livore per i dischi dell’anno non nasce dall’urgenza sociale, dal bisogno economico o dal desiderio di far parte di determinate cerchie. Non nasce neanche dalla necessità di andare contro. Ci piace quello che ci piace, per i motivi che, se facciamo bene il nostro lavoro, comunichiamo con chiarezza nelle righe che scriviamo. Per il resto, ormai esplorare e parlare di ciò che accade nel panorama musicale contemporaneo è per noi quasi un’esigenza, e sicuramente uno dei modi con cui interpretiamo la realtà che ci circonda: non abbiamo alcuna voglia di smettere.
Crizin da Z.O. – Acelero (QTV)
I clangori metallici dell’hip hop industriale incontrano la rarefazione del silicio, assumendo toni freddi e cibernetici che si vanno poi a scontrare col vitalismo del funk carioca: Acelero dei Crizin da Z.O. è perfetta unione tra corpo e cervello. Nell’investigare quale ruolo abbia ancora la nostra umanità mentre ci addentriamo sempre più nel nuovo millennio, il baritono ultratombale di Cris Onofre sprona e condanna, guardando il progresso con occhio critico e una sana dose di pessimismo. A squarciare queste vignette ciniche soltanto il ritmo, elevato così a unica ancora di salvezza del genere umano: percussioni totalizzanti infestano la maggior parte dei brani, cercando comunione con l’ascoltatore e fornendo un’idea di partecipazione catartica che ricorda i rave di qualche decennio fa. Acelero possiede un’anima da outsider, scegliendo sempre la strada meno battuta nel far coalescere culture musicali distanti e giocando sull’incomunicabilità che spesso deriva dall’incontro col diverso. Prendete la tridimensionalità dei Techno Animal e il vigore degli Atari Teenage Riot, inseritele nel contesto della scena rave brasiliana e filtrate il risultato attraverso la distopia cibernetica dei Voivod: otterrete un disco capace di rompere gli schemi, un prodotto avanguardistico e lungimirante.
Patricia Brennan Septet – Breaking Stretch (Pyroclastic)
Breaking Stretch è un lavoro ricchissimo e rigoglioso, capace di elargire una varietà di umori e stili impressionante: nell’arco di meno di un’ora, le composizioni di Patricia Brennan spaziano da esplosivi numeri di avant–jazz moderno che tradiscono l’apprendistato alla corte di pensatori visionari come Matt Mitchell, ballate più sentimentali, escursioni in una sorta di latin jazz decostruito, e infine pezzi astratti che sembrano sospesi tra tutti questi filoni estetici. Nonostante la sua indubbia complessità, Breaking Stretch rivela non soltanto una compositrice che ha finalmente cominciato a trovare la propria voce, ma anche una musica di qualità eccellente che, potenzialmente, può parlare e arricchire gli ascoltatori più assortiti e dalla provenienza più disparata. In altre parole: Breaking Stretch è la nostra scelta per il titolo di album jazz dell’anno.
Dos Monos – Dos Atomos (Deathbomb Arc)
Dopo un debutto straripante di swag e boom bap jazzato, i Dos Monos pestano il piede sull’acceleratore partorendo Dos Atomos, grandioso collage che al loro particolare blend di hip hop mescola avant-prog, metal, industrial, elettronica e jazz d’avanguardia. Ispirati dalla schizofrenia sonora di Otomo Yoshihide (presente pure sul disco), il trio giapponese incanala la weirdness tipica di molti sperimentatori giapponesi in un trionfo di cambi di tempo, cadenze, timbriche e arrangiamenti, a formare una gloriosa cacofonia in cui è assolutamente impossibile prevedere cosa succederà entro pochi secondi. Eppure, ciò che ne risulta suona incredibilmente puntuale, un dovuto aggiornamento del lessico hip hop spesso troppo stagnante nelle stesse attitudini e costruzioni. La stupidità timbrica, la scoordinazione dei passaggi melodici, gli arrangiamenti che si pestano i piedi da soli – tutte caratteristiche da valutare sotto l’ottica di una concezione musicale che vuole sbalordire e divertire, tirar via l’ascoltatore dai soliti lidi sonori e metterlo seduto alla tavolata del cappellaio matto. Dischi come Dos Atomos vivono sul filo di un rasoio: è facile ascoltarli nel momento sbagliato e venirne infastiditi, o sentirli distrattamente e non capire dove vogliono andare a parare. Se fanno click regalano tuttavia un’esperienza fantastica, un ascolto che ti rimane in testa per tanto tempo e ti fa sentire un po’ più libero di prima.
Jlin – Akoma (Planet Mu)
Akoma è il disco che consacra le ambizioni di Jlin come compositrice, il cui vocabolario si è esteso ormai ben oltre i confini della footwork che già le stavano molto stretti diversi anni fa. Jlin assorbe la lezione di decenni di musica elettronica, scolpendo un soundscape scintillante e proteiforme in cui baluginano – tra accelerazioni, rallentamenti, breakdown, sfasamenti temporali e metrici di ogni tipo – le incisioni Warp anni Novanta, le sonorità più aspre e acide della techno da rave, il groove della house di Chicago, la manipolazione timbrica della nuova musica post–club. È una interpretazione quasi cubista della footwork e della IDM che testimonia la nuova maturità acquisita da Jlin, e al contempo rappresenta uno dei vertici della frangia più intellettuale della musica elettronica a suo modo “ballabile” degli ultimi tempi. Potremmo sbilanciarci nel definire Akoma il miglior lavoro di Jlin finora dato alle stampe – sicuramente se la gioca soltanto con Black Origami – ma non sbagliamo nel definirlo uno degli eventi discografici cardine di 2024.
Nicolás Jaar – Archivos de Radio Piedras (Other People)
Che Nicolás Jaar cerchi nuovi mezzi espressivi non è motivo di stupore, eppure l’ascolto di Archivos de Radio Piedras rivela una formula con cui sembra essere riuscito a unire tutte le proprie anime artistiche. La sperimentazione elettronica viene sviluppata in un caleidoscopio che unisce elettroacustica e sound collage, dilatate ambientazioni sintetiche e freeform percussivi; le scelte di produzione creano un miscuglio di alienazione e fascino che si incastra perfettamente con il racconto di una tecno–distopia. Il corrispettivo della sostanza sonora è quella narrativa, che mantiene un magnetismo straniante dato dalla coesistenza di una dimensione fantascientifica ed esoterica con aspetti dolorosamente vicini alla nostra realtà. Infine, nei pezzi attribuiti a Salinas Hasbùn, molte delle tendenze attuali dell’elettronica latinoamericana vengono innestate su una solida impalcatura art pop generando alcune delle produzioni più graffianti della discografia di Jaar. Con un’ambizione artistica solida, uno sguardo attento sul mondo e un’ampia mostra di talento, state pur certə che Archivos de Radio Piedras merita pienamente la vostra attenzione.
Avalanche Kaito – Talitakum (Glitterbeat)
Talitakum è denso, un prodotto da studio che sfrutta tutte le possibilità di sovraincisione, effettistica ed elettronica, riuscendo a combinarle con poliritmi, canti tradizionali campionati, texture aliene e chitarre angolari senza che nessun accostamento suoni artificioso. Nonostante la frenesia a tratti infernale, un penetrante senso di umanità permea sempre e comunque questo disco, rendendolo un ascolto entusiasmante, in cui gran parte delle promesse che gli Avalanche Kaito ci avevano implicitamente fatto sembrano finalmente essere state mantenute. La personalità di questo gruppo è infine venuta alla luce, e noi non potremmo essere più contenti.
ØKSE – ØKSE (Backwoodz)
L’omonimo debutto degli ØKSE presenta un jazz scuro e texturato, efficace mistura di strumenti acustici ed elettronica. Ci troviamo esattamente a metà tra il mondo jazz e quello hip hop, ma il connubio suona ben più vivido dei soliti campionamenti inscatolati in beat rigidi con sopra rime su quanto è bello improvvisare. Il sound complessivo richiama la ruvidità sbilenca degli Spring Heel Jack di Amassed, dove angolarità di basso e batteria diventano terreno fertile per manipolazioni e scratching, su cui poi crescono cervellotiche parti di sax; le composizioni risultanti si prestano tanto a brani standalone quanto a far da base al rapping rauco dei vari MC ospiti, da woods a ELUCID a Cavalier. Ulteriore tridimensionalità è data dal sottofondo: lungo tutto il disco si avvertono distintamente i rumori di diteggiatura su fiati e basso, a cui viene lasciato intenzionalmente un posto di rilievo nel mix – uno skittering continuo che rende ancor più sfuggente questa musica già di per sé in continuo cambiamento. Nonostante sia un debutto, ØKSE contiene già un’idea musicale ben precisa al suo interno, e la band possiede la visione e l’abilità per tirarla fuori. In un oceano di jazz rap compito e noiosissimo, sono questi i dischi che dimostrano davvero la grande compatibilità dei due generi, e spiegano il perché da quasi quarant’anni continuano a viaggiare insieme.
Oranssi Pazuzu – Muuntautuja (Nuclear Blast)
È impossibile ascoltare Muuntautuja e non chiedersi se si è ancora davanti a un disco metal di una band metal. Il titolo del nuovo album degli Oranssi Pazuzu, a quanto pare, si traduce in “mutaforma”. E più si scava dentro al disco, più appare ovvio che l’intento dichiarato viene rispettato in pieno: quando la “zona di comfort” di una band metal può essere rappresentata da una doppietta micidiale come la jam mutante e psichedelica di Ikikäärme e dai titoli di coda carpenteriani di Vierivä Usva, il sentimento provato da un ascoltatore è tanto ambiguo quanto eccitante. È bello vedere che la passione, la devozione e la creatività degli Oranssi hanno quasi sempre avuto la meglio sulle pacchianerie passatiste a cui siamo stati abituati in quest’anno, e che siano state le intuizioni geniali al di là degli stilemi in cui, troppo spesso, il metal si confina ad averci regalato ancora una volta uno dei dischi più belli di quest’anno.
Pollution Opera – Pollution Opera (Danse Noire)
Poche volte in vita mia ho avuto a che fare con un uso così poco catartico del noise e così tanto positivo come in Pollution Opera. Il due propone un refurbishing dell’inquinamento acustico come pezzo di prefabbricato, allo stesso tempo consapevole dei suoi limiti (e da qui un certo carattere sdrucciolevole) ma teso alla realizzazione di un’opera che non può limitarsi a quella sciatta EAI da paper di ricerca che esprime tutto e il contrario di tutto. Basta ascoltare Cairo???, CRÎ Me A River, Attention!, per rendersi conto che siamo davanti alle urla e alle pressioni soniche più caratteristiche e tissutali che siano esplose nella storia della musica elettronica, per una volta una versione digitalizzata di quello che cerchiamo nelle band capostipiti del noise rock americano. Questo bizzarro riciclo del rumore ha un doppio effetto: ci avvicina (quantitativamente) e allontana (qualitativamente) da quello che a livello biologico è di solito un segnale di allarme. Le urla e i sample noise vivono in questo stato sovrapposto di insopportabile e orecchiabile, ma questo dà troppo valore al risultato finale. Come per tutti i dischi ingombranti, a un certo punto è meglio smettere di capire.
Arooj Aftab – Night Reign (Verve)
Night Reign di Arooj Aftab si muove in una direzione che suona come molto più acuminata e meno accogliente del precedente disco Vulture Prince; la compositrice pakistana si diverte ad aggiungere un dettaglio dopo l’altro fino a trasfigurare completamente la natura di questo o quel brano utilizzando un arsenale mai banale di inflessioni jazzistiche del suo timbro vellutato o di insiemi di suoni soffusi che contribuiscono a creare un’atmosfera fumosa e seducente, in barba al minimalismo che la stessa Aftab confessa di avere sempre al centro delle proprie attenzioni durante il processo compositivo. L’effetto è lo stesso di un vino corposo che, al primo sorso, stordisce i sensi: serve degustarlo piano per scoprirne le note più delicate, per apprezzarne le sfumature; e quando arriverete alla fine della bottiglia, rimpiangerete che sia finita così presto.
Takkak Takkak – Takkak Takkak (Nyege Nyege)
La musica dei Takkak Takkak è violenta, acuminata e cerca di appropriarsi dell’estetica del male in tutte le sue dimensioni: si può trattare di un rovesciamento diabolico della gamelan, dei diversi skronk ai fiati focosi e a pie’ sospinto, del lavoro da macellaio di Scotch Rolex che sembra tagliare ogni tentativo di induzione in trance riconducendo continuamente le ritmiche nel campo di quei pezzi club ballabili da una persona con una gamba e mezzo, o magari cinque gambe. La struttura dei brani è a singhiozzo, con persistenti soluzioni di continuità, ma l’ensemble simulato dai due inscena un componimento complesso e stratificato: tanti canali, tante idee che schizzano qui e lì senza alcun perno centrale. La prova di Mo’ong Santoso Pribadi è particolarmente sconvolgente, con la sua batteria artigianale dedicata a dei pattern molto più brevi del solito, molto più vicini al breakbeat vero e proprio che all’ostinato della musica rituale giavanese. Takkak Takkak è incastrato in una terra di nessuno, ma tornare sull’assioma tutto il mondo è paese ci permette di apprezzare questo non-luogo come se fosse il nostro sottocasa.
Matt Mitchell – Illimitable (Obliquity)
Illimitable rappresenta il culmine della ricerca in solo di Matt Mitchell – ambito in cui, a dire il vero, l’avevamo potuto apprezzare poche volte in passato: quasi due ore di elucubrazioni in solitaria del pianoforte, «100% improvised», registrate in una singola sessione senza alcun edit in fase di post–produzione. Ognuna delle quattro tracce di Illimitable è un flusso di coscienza torrenziale capace di attraversare un’incredibile varietà di umori e linguaggi – non solo afferenti all’ambito improvvisativo – offrendo così un eccellente compendio della poetica di Mitchell come strumentista e di tutte le anime che hanno formato il suo stile pianistico. Non solo tutti i brani di Illimitable sono eseguiti in maniera semplicemente eccezionale, ma sembrano anche perseguire un filo logico e narrativo degni di una composizione vera e propria, gestendo con intelligenza la varietà degli idiomi da cui attingere durante il loro sviluppo. Insieme, queste improvvisazioni formano una delle più belle pagine di composizione spontanea per solo piano che abbiamo avuto il piacere di ascoltare negli ultimi anni.
Pyrrhon – Exhaust (Willowtip)
Il quinto album della discografia dei Pyrrhon è, a suo modo, simultaneamente più essenziale e più dinamico dei lavori che l’hanno preceduto. Complessivamente, si tratta del disco più breve della loro carriera; eppure, in un formato così più contratto nella durata, la scrittura dei Pyrrhon non perde la sua sofisticazione, ma anzi si fa più varia e proteiforme. Soprattutto, però, per la prima volta nella loro carriera le sonorità astruse dei Pyrrhon sembrano necessarie al fine di comunicare il senso di burnout cui è votato tutto il lavoro e di descrivere il processo di «things – machines or humans – being ground down and never recovering». È un senso di disfacimento e deterioramento che si percepisce in ogni aspetto della musica di Exhaust: nel passo ritmico fratturato dettato da basso e batteria, nelle disarmonie della chitarra, nelle urla disperate di Doug Moore, nel flusso labirintico e serpentino in cui sembra intrappolato ogni brano. Su Exhaust, tutto funziona come mai prima nella musica dei Pyrrhon: è probabilmente il migliore album che abbiano mai registrato.
The Narcotix – Dying (autoprodotto)
Seppur emerso dalla scena underground newyorkese, il quintetto The Narcotix è in realtà un affare del tutto panculturale, profondamente legato alle musiche e alle tradizioni dell’Africa centrale fin dalle stesse origini di diversi suoi elementi. La musica di Dying abita un’intercapedine poco bazzicata, situata da qualche parte tra l’art rock americano e le espressioni più creative e moderne della musica popolare africana: quella dei Narcotix non è soltanto musica occidentale suonata da immigrati di seconda generazione; piuttosto, è un’espressione artistica in cui la rumba congolese e la chimurenga zimbabwiana sono parte integrante dell’identità stilistica del gruppo tanto quanto il pop e rock statunitensi. Ed è proprio questo patrimonio di atmosfere, sonorità, idee il più grande pregio dei Narcotix: il loro Dying è, semplicemente, una ulteriore dimostrazione della ricchezza che le culture musicali ai confini dell’impero anglofono possono portare al discorso musicale odierno.
Cime – The Cime Interdisciplinary Music Ensemble (Syzygy)
The Cime Interdisciplinary Music Ensemble, generalizzando un attimo, si esprime in un blend di scrittura scoppiettante avant-prog, soundkit della primissima epoca del post-punk più artistoide/No Wave e attitudine urlatrice e outsider di Monty Cime ai microfoni. Questo impasto di base viene spesso lavorato con delle devianze dalla formula che variano verso l’avant-jazz di qua, il noise rock di là, il rock latinoamericano in entrambe le direzioni. Il mucchio di diversi riferimenti rende veramente classificare questo nuovo sforzo di Cime, o associarlo a qualche altro grande nome della storia della musica recente, se non provando ad attaccarsi ai Mothers o ai Debonairs. Questa difficoltà nel dare un nome alla musica dell’Ensemble fa chiaramente parte del fascino che si prova ad ascoltare e riascoltare quest’uscita, ma non è certo tutto: del resto viviamo in un’epoca in cui simili tentativi massimalisti sono all’ordine del giorno. Ecco, laddove l’attuale cultura dell’avanguardia rock sembra fissata sulla raffica di hook slegati e squillanti, un punto chiave della poetica di Monty Cime è la sua disposizione a indugiare su di un punto, su di un giro di basso, su di una free improv di flauto, su di una ripetizione al microfono, che spesso suona anche imbarazzante. Questo mastodonte di narrazione e creatività è capace di suonare outsider, post-punk, free jazz, progressive, kraut, psichedelico, accademico, noise, bachata, riesce a stonare e scivolare ogni venti secondi pur rimanendo right on the money per tutta la sua durata, tratteggia una grossa storia di disperazione e disillusione, combatte, perde e vince. Ad ogni ascolto cresce. Monty Cime ha registrato uno dei dischi più belli e forti di tutto questo 2024, e noi non possiamo ignorarla.
The Three Hands of Doom – The Three Hands of Doom (Nyege Nyege)
Gli ultimi due anni sono stati eccezionalmente prolifici per Shackleton, che ha rinnovato le proprie credenziali di artista ancora desideroso di esplorare tutte le possibilità del proprio suono e di ampliarne gli orizzonti. In particolare dalla sua prima uscita per Nyege Nyege Tapes, insieme ancora una volta a Scotch Rolex e con la collaborazione del percussionista ugandese Omutaba, era proprio il caso di aspettarsi che il fuoco fosse mantenuto vivo: ma l’esordio a nome The Three Hands of Doom fa di più, alza le fiamme. I tre agiscono con una prospettiva ampia ed originale, a partire dalla fusione tra patrimoni ritmici africani e centro–/sud–americani ricreata tra le mani di Omutaba: i pezzi sono poi parassitati dal talento di Scotch Rolex nel disseminare il terreno dell’album con un campionario di mine sonore ad alto impatto. Per Shackleton è un toccasana avere dei collaboratori così influenti, che gli permettono di concentrarsi sugli aspetti più intangibili e preziosi della propria musica: dare dimensionalità al ritmo e disegnare atmosfere profonde nell’arazzo elettronico. Per farla breve, The Three Hands of Doom è uno di quei rari dischi che sanno colpire alla pancia, stimolare il cervello e far muovere il culo: serve altro?
Olivia Block – The Mountains Pass (Black Truffle)
The Mountains Pass è un disco organico, in cui l’elettroacustica di Olivia Block non è mai stata così viva. Il gioco tra le dinamiche, la ricchezza timbrica, la struttura fluida dei pezzi lo rendono un lavoro poco prevedibile, in grado di destare sorprese continue nel suo sviscerarsi. Come in un guardia e ladri tra stasi e mutamento, tra vocoder gelidi su tappeti di organo e marce post-minimaliste, queste cinque tracce si rincorrono e si compenetrano con eleganza e profonda emotività, grazie anche al contributo dei musicisti chiamati a collaborare – la batteria di Jon Mueller che confonde improvvisamente le carte per poi riordinarle, le ombre dei Talk Talk di Laughing Stock nei delicati innesti di tromba di Thomas Madeja. The Mountains Pass è dunque un altro vivace pezzo nel puzzle della proposta musicale dell’artista texana, nonché uno dei dischi che col tempo ha saputo insinuarsi ostinatamente negli ascolti del nostro 2024.
Caxtrinho – Queda livre (QTV)
L’approccio musicale di Caxtrinho è onnivoro e poliglotta, in linea con quanto fatto in ambito rock sperimentale da altri importanti esponenti della scena brasiliana contemporanea. Queda livre si muove con agilità tra la samba, la MPB più ammaliante, e addirittura l’avant–folk forastico di Lula Côrtes e Zé Ramalho; al contempo, però, il gusto scapestrato per gli arrangiamenti e la ricchezza tridimensionale dell’impasto sonoro proiettano la musica in territori più sgangherati e inconfondibilmente psichedelici. Entrambe le facce del sound di Caxtrinho coesistono organicamente nello stesso spazio e tempo sonori, restituendo all’ascolto l’impressione di star osservando l’immagine della tradizione brasiliana attraverso la superficie increspata dell’acqua. Il miglior correlativo oggettivo della poetica di Caxtrinho la offre la copertina a opera del pittore Arjan Martins – che condivide con Castro la scelta di mettere al centro del proprio lavoro gli sfruttati e gli oppressi: un mare burrascoso, vivo e pulsante, che si erge al di là delle divisioni rappresentate da due fili rossi e un remo posto di traverso.
Ana Lua Caiano – Vou ficar neste quadrado (Glitterbeat)
Nel suo debutto, Ana Lua Caiano applica a un atteggiamento di free clubbing la polifonia del cante portoghese, le armonie gravi che si possono trovare nella canzone di rivolta di Godinho, gli strumenti tipici della danza popolare transmontana (il bombo criollo) e insulare (il brinquinho de madeira). Con poche eccezioni, tutti i brani di Caiano seguono lo stesso canovaccio, stessi elementi: impatti brutali alle percussioni, che tendono a nascere con cassa in quattro e ad evolversi nei ritmi tipici delle danze portoghesi nel corso del brano; coro artificiale delle multiple voci della musicista costruito stratificando i sample, armonie oblique e irriverente protagonismo sulle strumentali; mix con l’elettronica, early stopping dei ritmi quando i versi arrivano ai loro apici, cambio di rotta in coda e nei bridge – a dimostrare che, se volesse, potrebbe aggiungere molto altro. Caiano ha già trovato la sua dimensione, ma è facile immaginare che, adesso che la sua club music ha avuto qualche attenzione, il progetto esploderà in tutte queste direzioni che Vou ficar neste quadrado lascia solo intravedere. A noi rimane come residuato, poco male, uno dei dischi più forti di questo 2024.
Mary Halvorson – Cloudward (Nonesuch)
Cloudward vede il ritorno della chitarrista Mary Halvorson con il suo sestetto Amaryllis: si tratta di un ambiente congeniale a Halvorson, in cui non solo risplendono le linee oblique delle sue composizioni, ma dove ogni musicista riesce a emergere organicamente dalle complicate figure armoniche e ritmiche che insidiano anche il più orecchiabile dei temi all’interno del disco. L’aspetto più interessante del disco, però, è quanto sfuggente sia diventata la figura di Halvorson chitarrista nella costruzione lirica e armonica dei propri brani, sfoderando una competenza e un gusto nell’uso di colori e idiomi del genere da far girare la testa. Questo offuscamento sembra continuare anche in Desiderata: una serie di intervalli di semitono pronunciati con un suono pulito e marcatamente jazzistico sono l’unico intervento della chitarra all’interno di un brano uptempo… almeno fino a quando il solo di Halvorson, uno dei momenti più belli del jazz del 2024, non discende come un fulmine. Cloudward riesce nella difficile impresa di far percepire la firma di una grande musicista anche quando la sua voce è limitata al minimo indispensabile.
Le nostre classifiche individuali
Alessandro
- Cime – The Cime Interdisciplinary Music Ensemble (Syzygy)
- Nicolás Jaar – Archivos de Radio Piedras (Other People)
- Crizin da Z.O. – Acelero (QTV)
- Pollution Opera – Pollution Opera (Danse Noire)
- Oranssi Pazuzu – Muuntautuja (Nuclear Blast)
- Moor Mother – The Great Bailout (Anti-)
- Ana Lua Caiano – Vou ficar neste quadrado (Glitterbeat)
- The Narcotix – Dying (n/a)
- ØKSE – ØKSE (Backwoodz)
- Califato ¾ – Êcclabô de libertá
- Dos Monos – Dos Atomos (Deathbomb Arc)
- Takkak Takkak – Takkak Takkak (Nyege Nyege)
- Kiran Leonard – Real Home (Memorials of Distinction)
- Still House Plants – If I Don’t Make It, I Love U (Bison)
- Jlin – Akoma (Planet Mu)
- Ches Smith – Laugh Ash (Pyroclastic)
- Machine Girl – MG Ultra (Future Classic)
- Angry Blackmen – The Legend of ABM (Deathbomb Arc)
- Avalanche Kaito – Talitakum (Glitterbeat)
- Lip Critic – Hex Dealer (Partisan/Universal)
David
- Crizin da Z.O. – Acelero (QTV)
- Matt Mitchell – Illimitable (Obliquity)
- Dos Monos – Dos Atomos (Deathbomb Arc)
- Jlin – Akoma (Planet Mu)
- Takkak Takkak – Takkak Takkak (Nyege Nyege)
- Pollution Opera – Pollution Opera (Danse Noire)
- ØKSE – ØKSE (Backwoodz)
- Caxtrinho – Queda livre (QTV)
- Adrianne Lenker – Bright Future (4AD)
- Arooj Aftab – Night Reign (Verve)
- Magdalena Bay – Imaginal Disk (Mom + Pop)
- Vijay Iyer, Linda Oh & Tyshawn Sorey – Compassion (ECM)
- The Three Hands of Doom – The Three Hands of Doom (Nyege Nyege Tapes)
- The Bug – Machine (Relapse)
- Angry Blackmen – The Legend of ABM (Deathbomb Arc)
- Taylor Deupree – Sti.ll (Nettwerk)
- John Surman – Words Unspoken (ECM)
- Ana Lua Caiano – Vou ficar neste quadrado (Glitterbeat)
- Avalanche Kaito – Talitakum (Glitterbeat)
- Cime – The Cime Interdisciplinary Music Ensemble (Syzygy)
Emanuele
- Crizin da Z.O. – Acelero (QTV)
- Patricia Brennan Septet – Breaking Stretch (Pyroclastic)
- Jlin – Akoma (Planet Mu)
- Dos Monos – Dos Atomos (Deathbomb Arc)
- Oranssi Pazuzu – Muuntautuja (Nuclear Blast)
- Pollution Opera – Pollution Opera (Danse Noire)
- Pyrrhon – Exhaust (Willowtip)
- Matt Mitchell – Illimitable (Obliquity)
- Avalanche Kaito – Talitakum (Glitterbeat)
- Caxtrinho – Queda livre (QTV)
- Ana Lua Caiano – Vou ficar neste quadrado (Glitterbeat)
- SANAM – Live at Cafe Oto (Mais Um)
- Michael Hersch – Poppaea (New Focus)
- The Narcotix – Dying (n/a)
- ØKSE – ØKSE (Backwoodz)
- Nicolás Jaar – Archivos de Radio Piedras (Other People)
- Takkak Takkak – Takkak Takkak (Nyege Nyege)
- Akhlys – House of the Black Geminus (Debemur Morti)
- Wendy Eisenberg – Viewfinder (American Dreams)
- Miguel Zenón – Golden City (Miel)
Jacopo
- Nicolás Jaar – Archivos de Radio Piedras (Other People)
- Oranssi Pazuzu – Muuntautuja (Nuclear Blast)
- Crizin da Z.O. – Acelero (QTV)
- The Sawtooth Grin – Jabberwocky (Wax Vessel)
- Arooj Aftab – Night Reign (Verve)
- Melt Banana – 3+5 (A-Zap)
- Patricia Brennan Septet – Breaking Stretch (Pyroclastic)
- Mary Halvorson – Cloudward (Nonesuch)
- Dos Monos – Dos Atomos (Deathbomb Arc)
- Takkak Takkak – Takkak Takkak (Nyege Nyege)
- Rafael Toral – Spectral Evolution (Drag City)
- Vijay Iyer, Linda Oh & Tyshawn Sorey – Compassion (ECM)
- Ana Lua Caiano – Vou ficar neste quadrado (Glitterbeat)
- Mabe Fratti – Sentir que no sabes (Unheard of Hope)
- The Narcotix – Dying (n/a)
- Jlin – Akoma (Planet Mu)
- Adrianne Lenker – Bright Future (4AD)
- Olivia Block – The Mountains Pass (Black Truffle)
- Cime – The Cime Interdisciplinary Music Ensemble (Syzygy)
- ØKSE – ØKSE (Backwoodz)
Lorenzo
- Avalanche Kaito – Talitakum (Glitterbeat)
- Olivia Block – The Mountain Pass (Black Truffle)
- Nicolás Jaar – Archivos de Radio Piedras (Other People)
- Or Best Offer – Center (Willowtip)
- Patricia Brennan Septet – Breaking Stretch (Pyroclastic)
- ØKSE – ØKSE (Backwoodz)
- Crizin da Z.O. – Acelero (QTV)
- Oranssi Pazuzu – Muuntautuja (Nuclear Blast)
- Vox Vulgaris – Early Music for Late Humanity (n/a)
- Dos Monos – Dos Atomos (Deathbomb Arc)
- Anton Friisgaard – Teratai Åkande (Stroom)
- Arooj Aftab – Night Reign (Verve)
- SANAM – Live at Cafe Oto (Mais Um)
- The Narcotix – Dying (Autoprodotto)
- Tarta Relena – És Pregunta (Latency)
- Samo Salamon, Vasil Hadzimanov & Ra-Kalam Bob Moses – Dances of Freedom (Samo)
- Cime – The Cime Interdisciplinary Music Ensemble (Syzygy)
- Takkak Takkak – Takkak Takkak (Nyege Nyege)
- Jlin – Akoma (Planet Mu)
- Still House Plants – If I Don’t Make It, I Love U (Bison)
Roberto
- Crizin da Z.O. – Acelero (QTV)
- Patricia Brennan Septet – Breaking Stretch (Pyroclastic)
- Jlin – Akoma (Planet Mu)
- Pyrrhon – Exhaust (Willowtip)
- The Three Hands of Doom – The Three Hands of Doom (Nyege Nyege)
- Avalanche Kaito – Talitakum (Glitterbeat)
- Nicolás Jaar – Archivos de Radio Piedras (Other People)
- ØKSE – ØKSE (Backwoodz)
- Phil Geraldi – AM / FM USA (Not Not Fun)
- Pollution Opera – Pollution Opera (Danse Noire)
- Daisy Ray – Buddies For Life (Heat Crimes)
- ShrapKnel & Controller 7 – Nobody Planning to Leave (Backwoodz)
- Mabe Fratti – Sentir que no sabes (Unheard of Hope)
- Mary Halvorson – Cloudward (Nonesuch)
- Rafael Toral – Spectral Evolution (Drag City)
- Daniel Majer – Time For No Memory (Vaagner)
- Dos Monos – Dos Atomos (Deathbomb Arc)
- Wendy Eisenberg – Viewfinder (American Dreams)
- Olivia Block – The Mountains Pass (Black Truffle)
- Takkak Takkak – Takkak Takkak (Nyege Nyege)
Menzioni onorevoli
- Alva Noto – Xerrox Vol. 5 (Noton) [scelto da Lorenzo]
- Amaro Freitas – Y’Y (Psychic Hotline) [scelto da Emanuele]
- Ansome – Knucklehead (Void+1) [scelto da Roberto]
- aya – Lip Flip (YCO) [scelto da Roberto]
- bela – Noise and Cries (Subtext) [scelto da Alessandro]
- Beth Gibbons – Lives Outgrown (Domino) [scelto da Alessandro]
- Big Yawn – NGBE (Research) [scelto da Lorenzo]
- Carme López – Quintela (Warm Winters Ltd.) [scelto da Roberto]
- Carrier – In Spectra (n/a) [scelto da Roberto]
- Cheetah – Freaks (n/a) [scelto da Roberto]
- Dafnis Prieto – 3 Sides of the Coin (Dafnison Music) [scelto da Emanuele]
- Daisy Rickman – Howl (n/a) [scelto da Lorenzo]
- Devenial Verdict – Blessing of Despair (Transcending Obscurity) [scelto da Emanuele]
- DJ Stingray – Industry 4.0 (Tresor) [scelto da Roberto]
- eL–Hortobāgyi Hortator – Thessalien Stoa Paradosi (Ελχελέλ) [scelto da Roberto]
- Ex-Easter Island Head – Norther (Rocket) [scelto da Lorenzo]
- Friko – Where We’ve Been, Where We Go From Here (ATO) [scelto da Alessandro]
- Gigan – Anomalous Abstractigate Infinitessimus (Willowtip) [scelto da Roberto]
- Half Empty Glasshouse – The Exit Is Over There! (n/a) [scelto da Emanuele]
- Hannah Frances – Keeper of the Shepherd (Ruination Record Co.) [scelto da Alessandro]
- Horacio Vaggione – Schall / Rechant (Recollection GRM) [scelto da Roberto]
- Ivän the Tølerable Trio – Infinite Peace (Stolen Body) [scelto da Lorenzo]
- Joey Valence & Brae – No Hands (n/a) [scelto da Alessandro]
- Kris Davis – Run the Gauntlet (Pyroclastic) [scelto da Emanuele]
- Landless – Lúireach (Glitterbeat) [scelto da Alessandro]
- Lara Downes, Edmar Colón & Edwin Outwater – Rhapsody in Blue Reimagined (PentaTone) [scelto da Jacopo, Roberto]
- Lazy Lazarus – Spilt Milk (JIPO records) [scelto da David]
- Le Parody – Remedios (Everlasting Records) [scelto da Alessandro]
- Luiza Brina – Prece (Dobra Discos) [scelto da Alessandro]
- Marina SATTI – Π.Ο.Π. (Minos) [scelto da Emanuele, Roberto]
- Michelle Lou – Near Distant (KAIROS) [scelto da Alessandro]
- Moin – You Never End (AD 93) [scelto da Lorenzo]
- Peni Candra Rini – Wulansih (New Amsterdam Records) [scelto da Alessandro]
- Peter Beatty – Different Flowers (n/a) [scelto da Alessandro]
- Raymond Scott – Works for Orchestra (Vol.’s 1–5) (n/a) [scelto da Emanuele]
- Rəhman Məmmədli – Azerbaijani Gitara volume 2 (Bongo Joe) [scelto da Roberto]
- Refreshers – FR030 (Future Retro London) [scelto da Roberto]
- Show Me the Body – CORPUS II (Corpus Records) [scelto da Roberto, Alessandro]
- Soft Machine – Høvikodden 1971 (Cuneiform) [scelto da Emanuele]
- Stagnant Waters – Rifts (Neuropa) [scelto da Emanuele]
- SUMAC – The Healer (Thrill Jockey) [scelto da Emanuele]
- Ugly – Twice Around the Sun (The state51 Conspiracy) [scelto da Alessandro]
- White Suns – Dredging Heaven (Decoherence) [scelto da Emanuele]
- AA. VV. – A Benefit Compilation for Palestine (Emocat Records) [scelto da Roberto]
- AA. VV. – Club Moss (Wisdom Teeth) [scelto da Roberto]
- AA. VV. – European Primitive Guitar (1974–1987) (NTS) [scelto da Roberto]