KXRINE – INTIMA CATABASI
Partiamo dal fatto che recensire un disco non è mai semplice, né scontato. Quando poi l’artista è italiano le cose si fanno sempre un po’ meno lineari, tali sono i condizionamenti che il parlare di musica fatta nel tuo Paese implicitamente porta con sé. Tra scappati di casa e fenomeni da baraccone, professionisti del diletto e aspiranti cantautori, l’underground qui in Italia somiglia spesso ad un fondo limoso che offre ben poca gratificazione per chi qualcosa da dire ce l’ha, e che magari ci si ritrova invece impantanato. Di questo ultimamente si è parlato molto qui in redazione, e – spoiler – la situazione ci sta a cuore. Kxrine è proprio uno di quei profili interessanti, per usare un termine da inventario. È anche un mio caro amico, cosa che mi ha permesso di seguirne da vicino l’evoluzione come musicista, nonché la genesi lunga e travagliata del suo ultimo disco. Intima Catabasi racconta una storia, una storia che si intreccia a doppio filo con le vicende personali di chi questa musica l’ha costruita, giorno dopo giorno, in una cameretta.
Dando un’occhiata a quanto Kxrine ha pubblicato finora, otteniamo un riassunto efficace di cosa vuol dire sporcarsi le mani con la musica in questo periodo storico: una generale instabilità lo ha visto accatastare negli anni tracce sparse su Soundcloud e compilation, delle raccolte a metà tra EP e album veri e propri, collaborazioni varie qua e là, alias e pseudonimi alternativi; in tutto questo si passava da bozzetti ambient ad inedite finestre emo-rap, da quadretti acustici delicati e sognanti a flirt molesti con l’hyperpop. Schizofrenia quindi, o forse solo la complicata ricerca di un’identità artistica, a volte paradossalmente ostacolata dall’accesso all’immenso quantitativo di musica che possiamo permetterci di questi tempi. La messa in discussione arriva un po’ all’improvviso, con un trasferimento dal Friuli al Piemonte e il naturale adattamento ad un nuovo contesto: i suoni si incupiscono, viene accantonata l’elettronica in favore degli strumenti acustici, mentre i testi si riempiono di simboli. Quel vagabondaggio tra generi così lontani tra loro confluisce infine nelle dimensioni del folk psichedelico e del neofolk, territori che francamente sembrano lontani anni luce dal materiale a firma Kxrine pre-2025, ma che funzionano: il songwriting non perde di naturalezza, e anzi si affina, potendo ora pescare a piene mani anche dalle altre passioni del nostro, come drone ed elettroacustica, ampliandone la palette timbrica. E così, nelle sessioni di registrazione in terra sabauda, iniziano a spuntare fuori le prime tracce di un lavoro che si capisce già essere in potenza ben più coeso dei precedenti. Intima Catabasi rimane in gestazione per quasi tre anni, prima assemblato, poi disfatto più volte, aspettando un’etichetta che non lo pubblicherà mai. La decisione di autoprodursi, con buona pace delle formalità, è alla fine fortunata, ripercuotendosi sull’effettiva qualità dei brani.
La piccola epopea descritta dai testi vede Kxrine raccontare di un alchimista immaginario, progressivamente sopraffatto dall’impotenza di fronte alla complessità e all’oscurità del mondo; l’unico conforto verrà trovato nel realizzare che una piccola luce nel caos può essere ancora accesa, seppur brevemente, dalle relazioni umane. Il concept è archetipico, ma viene ben dosato anche grazie alla decisione di utilizzare esclusivamente l’italiano per la narrazione. Questa scelta offre da un lato un ventaglio più ampio per le descrizioni e le esoteriche immagini evocate, dall’altro permette di comunicare queste ultime con una spontaneità che aiuta a far suonare l’album più personale e meno come la copia di qualcosa proveniente da oltreoceano, o almeno così è alle orecchie di un madrelingua – e diciamoci pure tra noi che l’inglese, in fondo, una bella lingua non è.
Vista la volontà di puntellare con una struttura robusta questa storia, Intima Catabasi adotta nella maggior parte dei brani la forma canzone, allargandone spesso le maglie con fluidità, specialmente tramite diversificazione timbrica: è il caso delle percussioni marziali che irrompono violentemente in Elleboro, dei suoni naturali che si infiltrano tra le crepe di Nigredo dilatandone i tempi, o della coda psichedelica e compiacentemente lunga di Mathom. Attorno a questi episodi più inquadrati troviamo le piccole oasi di melodia di Furie e Narciso ferito, e i flussi imponenti di masse sonore mossi da Città Invisibile e Vergine: nella prima, un intenso ritualismo spacca in due il disco, toccando l’apice della disperazione; nella seconda, strati su strati di suoni ambientali sospendono tutto per permetterci di respirare.
I funghi di questa foresta spargono tramite le loro spore le cerimonie oscure dei Natural Snow Buildings e di Hala Strana, l’intensità gotica dei Coil, i sortilegi dei Current 93; tra le fronde, poi, ecco apparire anche lo straniamento dei Pearls Before Swine e dei Microphones di Mount Eerie, i bordoni densissimi di Éliane Radigue e Pauline Oliveros, i tribalismi di Alfio Antico e i mondi alternativi degli Aktuala. L’ecosistema è vasto, insomma, ed è arricchito ulteriormente dalla presenza vagamente anomala di Lenti Battiti, una ballata trasfigurata in cui i Comus e i Larsen vengono sciolti nell’acido, ma che sembra trascinarsi meno brillantemente delle altre tracce; di questo è complice anche un cantato che espone qui più chiaramente l’influenza dell’emo, in ogni caso sempre aleggiante nel resto dei brani. Non viene comunque nascosta una certa sensibilità italiana: il tributo verso il panorama indie anni ‘90 del bel paese è palpabile, facendo venire più volte alla mente nomi come Scisma, Verdena, Massimo Volume, ora nei timbri, ora nelle voci.
La chiusura dell’album è affidata, prima dell’epilogo strumentale di Nella Nebbia, a Mathom, già citata, ma obbligatoriamente da sottolineare. Se Città Invisibile è il buio più profondo, Mathom è invece melodica e luminosissima, amabilmente abbellita da familiari plettrate di chitarra acustica e l’alieno di molteplici, evanescenti chitarre elettriche. Kxrine qui canta e declama, tirando in ballo la carta trappola “Giovanni Lindo Ferretti” e le cupe vampe dei suoi C.S.I., scomodando nondimeno il fantasma di Tolkien per l’ultima scintilla del disco. L’abbiamo subito ficcata nella nostra playlist 2025 – e siamo a due spoiler – senza pensarci due volte.
Tirando le somme, Intima Catabasi è solido, ben strutturato, bilancia con cura melodie cantabilissime e sperimentazione, e potenzialmente mette quei paletti necessari affinché Kxrine possa proseguire su un cammino che gli auguriamo essere florido. Quest’anno pare essere iniziato bene, e speriamo caldamente che belle sorprese come questa possano venire alla luce più spesso in Italia.