CECIL TAYLOR – THE COMPLETE, LEGENDARY, LIVE RETURN CONCERT
La pubblicazione di questo The Complete, Legendary, Live Return Concert è al crocevia di due diverse strade che partono dagli anni Settanta, entrambe apparentemente perdute per mezzo secolo, entrambe inaspettatamente riemerse dal sottosuolo soltanto nel 2022.
Da un lato, c’è la Oblivion Records: un’etichetta dimenticata e attiva solo per una manciata di anni, varata da Fred Seibert e da un suo amico bluesman, Tom Pomposello, allo scopo di registrare in maniera indipendente e do-it-yourself la musica di quest’ultimo. Tra il 1972 e il 1976, Seibert si improvvisò ingegnere del suono e la Oblivion incise un totale di sei dischi – l’ultimo dei quali fu proprio l’unico album di Pomposello –, tutti quasi sepolti dalle sabbie del tempo. (Il più noto di questi è probabilmente Friends, un album di jazz elettrico che vedeva la partecipazione anche del chitarrista John Abercrombie e di Clint Houston, che negli anni Settanta suonerà il basso in molti capisaldi della discografia di Woody Shaw. Non esattamente il capitolo più celebre dell’opera di nessuno dei due.)
Dall’altro, abbiamo Cecil Taylor – il cui nome, di per sé, sarebbe bizzarro associarlo a concetti come “oscurità” e “oblio”. L’anno domini 1973, ovvero quello in cui Taylor tornò finalmente a registrare e a esibirsi dal vivo dopo molto tempo speso come visiting professor all’Antioch College e all’università di Wisconsin, interrompendo bruscamente la carriera dopo i suoi due capolavori per Blue Note, è però oggettivamente poco documentato. Certo il suo primo disco solo – il bellissimo Indent, registrato proprio ad Antioch – risale al marzo di quell’anno ed è uno dei suoi lavori più celebrati (nella sua discografia per piano solo, si contende la palma con Silent Tongues); ma le poche altre incisioni di quei mesi, come quelle di fine maggio in Giappone, pur se emerse hanno ricevuto una distribuzione misera, e in ogni caso non sono proprio i titoli di punta a cui indirizzare un ascoltatore che ha una conoscenza meno che approfondita del pianista, anche per evidenti limiti della tecnologia impiegata per la registrazione.
Spring of Two Blue J’s, del 4 novembre, è emblematico. È il concerto che testimonia definitivamente il ritorno sulle scene di Taylor – di più, è il ritorno sulle scene di Taylor negli Stati Uniti (precisamente, al Town Hall di New York) e accompagnato da un gruppo, il nucleo di ciò che diverrà la Cecil Taylor Unit, che con Taylor suonerà alcune delle pagine più incredibili del free jazz di fine anni Settanta: con lui ci sono i già fidati sodali Jimmy Lyons al sax contralto, Andrew Cyrille alla batteria e, per la prima volta, Norris Jones (aka Sirone) al basso. Come ingegnere del suono, viene contattato appositamente proprio Fred Seibert; l’occasione è ghiotta, ma Spring of Two Blue J’s viene pubblicato nel 1974 per la Unit Core di Taylor (secondo e ultimo LP per l’etichetta, dopo Indent) in un’edizione mutilata comprendente solo le due parti dell’eponima improvvisazione (una del solo Taylor e una per quartetto), in una tiratura limitatissima di un paio di migliaia di copie distribuite in maniera indipendente, e per di più tagliando fuori per questioni di costi e organizzazione l’intero primo set del concerto (quasi un’ora e mezza di improvvisazione per quartetto!). Non solo la versione integrale del concerto non è mai venuta a galla, ma pure l’LP originale (pur ricevendo un’accoglienza entusiasta dalla stampa del settore) non è mai stato ristampato – solo qualche bootleg su CD ha circolato in Europa, nei decenni successivi.
The Complete, Legendary, Live Return Concert (titolo un po’ roboante, senza dubbio) è così l’occasione storica per riscattare quell’opportunità mancata. La Obscure, incredibilmente, torna in vita esclusivamente per pubblicare questo concerto (e tutto il suo catalogo) in formato digitale e sulle piattaforme di streaming, aggiungendo alle due parti di Spring of Two Blue J’s (praticamente identiche a quelle dell’uscita originale) il resto del set, ovvero gli ottantotto minuti di Autumn/Parade, che di fatto da soli giustificano l’intera operazione. Indiscusso vertice di questo live, anche per via di una qualità sonora sensibilmente superiore alle altre due tracce (il suono è più limpido, e le frasi parkeriane di Lyons emergono ora con forza dal maelstrom pianistico che, nel mix originale, sovrastava un po’ le dinamiche più acute), il suono che sarà della Cecil Taylor Unit è già tutto qua: torrenziale, serpentino, a suo modo estremo, con gli ottantotto tamburi che giocano liberamente con lirismo ellingtoniano e brutale percussività della New Thing, e vengono richiamati solo parzialmente all’ordine dal gusto più moderatamente in & out del sax di Lyons. La coppia ritmica Sirone/Cyrille è particolarmente sorprendente: la nitidezza del missaggio fa apprezzare maggiormente il loro interplay, e si scopre che le linee vigorose ed elastiche di Sirone trovano, nell’educato e acuto equilibrio di dinamiche, contrasti e timbri delle varie percussioni di Cyrille, un complemento se possibile ancora più brillante rispetto al più belluino Ronald Shannon Jackson nei dischi per Cecil Taylor Unit. Magari non leggendario come il titolo vorrebbe implicare, ma sicuramente un ripescaggio di cui non sapevamo di avere bisogno.