Un’opera d’arte mostra la propria bellezza in varie maniere. Immediatezza o cerebralità, approcci umili o grandiosi, tematiche universali o sfumature che solo certi microstrati sociali riescono a cogliere: per comprendere l’arte in modo profondo occorre essere malleabili mentalmente ed emotivamente, poiché la capacità di identificarsi con l’autore e ciò che vuole comunicarti è imprescindibile. In Before Turning the Gun on Himself lo stand-up comedian Doug Stanhope dedica uno dei suoi monologhi meno brillanti al difficile rapporto che ha con svariati tipi di arte; a parte le battute un po’ sottotono, ai tempi mi colpì questa frase: “I really don’t like art with a message, unless the message is crystal clear. If you have a message that really needs to be said, just fucking say it. […] Oooh, I have the cure for cancer and I’ve hidden it in this Rubik’s Cube!”. Mettendo da parte l’ovvio tono caricaturale, è interessante il fatto che apprezzare la comicità di Stanhope in realtà significhi andar contro alle sue stesse parole, perché la bellezza di ciò che fa non è di così facile comprensione come potrebbe sembrare. In quell’ambito molti artisti sviluppano in maniera più o meno esplicita un personaggio che utilizzano nelle loro routine, mentre Stanhope ha coltivato un pubblico devoto proprio perché in oltre vent’anni di carriera ha consistentemente demolito il muro tra esibizione e vita reale, presentando sul palco nient’altro che sé stesso in una versione solo marginalmente imbellettata. Per entrare appieno nella sua arte bisogna perciò entrare anche nella sua vita e capire che tipo di uomo è, altrimenti la grande importanza del suo lavoro rischia di passare quasi inosservata; fortunatamente questo desiderio un po’ morboso di conoscenza è reso assai più semplice proprio da Stanhope, che non solo scrive sempre spettacoli estremamente personali, ma tiene anche un podcast dove molto spesso gli ospiti sono suoi amici intimi e pertanto i toni diventano quelli di una chiaccherata tra persone dalle vite bizzarre e disfunzionali, che tu hai il privilegio di origliare. Inizialmente ciò che porta un fan a intraprendere questo percorso è magari una fascinazione superficiale, ma assorbito il contesto attraverso il quale filtrare le proprie riflessioni diviene palese che Stanhope è l’ultimo vero esponente – nel terreno della stand-up comedy, almeno – di un tipo di romanticismo tutto americano che celebra ancora il vagabondaggio come espressione suprema di libertà. In Stanhope continua a brillare lo spirito di giganti come Kerouac, tradotto in una pulsione che diventa tuttavia notevolmente più cinica e nichilista in quanto conscia di sopravvivere in netta opposizione ai cambiamenti sociali che hanno reso un tale stile di vita obsoleto e difficilmente comprensibile dalle nuove generazioni. Realizzare ciò fornisce una chiave di lettura che permette di contestualizzare anche quelle che sarebbero ingenuità o mancanze di gusto, rileggendole sotto una nuova luce e apprezzandole in funzione del quadro generale che costruiscono. Tracciando il primo parallelismo con questa digressione iniziale, per arrivare a come mai Il Tuffatore tocchi le mie corde e quelle di molti altri in maniera così forte è indispensabile compiere un ragionamento analogo, che verte in primo luogo sul riconoscere il vero punto di forza del disco e cosa lo rende creativo e interessante, poi nel rileggere i vari elementi (anche quelli apparentemente negativi) che lo compongono tenendo presente il contesto alla base.
Il traguardo sta dunque nell’individuazione del microcosmo descritto dal disco e del modo in cui Flavio Giurato utilizza parole, riferimenti e musica per evocarlo nell’ascoltatore. Un punto di inizio può essere la sommaria descrizione dei generi coinvolti: lo scheletro de Il Tuffatore è senz’altro la canzone d’autore italiana, proposta in una forma molto arrangiata che tocca a più riprese jazz e progressive rock; a entrambi i generi è però conferito il sapore un po’ kitsch della musica lounge, che si ritrova principalmente nel suono del sassofono, negli arrangiamenti di brani come L’acchiappatore Dell’acqua e in certe ritmiche di conga che contribuiscono ad ammorbidire il sound ben più di quanto farebbe una batteria. Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 sonorità come queste spuntarono fuori in scene apparentemente scollegate, coniando un nuovo modo di intendere jazz, funk e prog – un processo di reinterpretazione in larghissima parte negativo, ad essere sinceri, che consiste nell’eliminazione di ogni minimo residuo tribale, nella levigazione di ogni spigolosità tematica o armonica e nella plastificazione dei suoni per creare un prodotto orecchiabile e innocuo, magari intelligente nell’applicazione dei generi fagocitati ma sempre piuttosto manierista. Testimonianze di questo approccio nella canzone italiana si possono individuare in dischi come Un Sabato Italiano di Sergio Caputo; ha però avuto massimo successo in Giappone, dove questi dischi di musica leggera un po’ più raffinata del normale si scavarono una nicchia tutta loro in termini di pubblico e musicisti coinvolti, divenendo oggi conosciuti col nome (piuttosto calzante) di city pop. Il fine di questa musica era chiaro: fungere da colonna sonora per la borghesia cittadina di allora, evocare panorami puliti, squarci di vita ed emozioni dal sapore marcatamente yuppie che potessero comunicare un senso di leggerezza d’animo figlio della stabilità.
Il Tuffatore porta avanti un discorso riconducibile a questo, ma notevolmente più profondo e sfaccettato. La leggerezza, quando c’è, è sempre tinta di malinconia; i luoghi inseriti nel disco (Roma e la parte nord del Lazio) sono personali, significativi e definiti, con un valore ben più fondante per autore e personaggi di una generica spiaggia tranquilla o una metropoli soleggiata; le tematiche affrontate sono allo stesso tempo universali e intime: Flavio Giurato parla di posti ben precisi in un tempo ben preciso, ma inserendo nel disco protagonisti ricorrenti vuole ritagliare una via d’entrata per chi ascolta fornendogli figure nelle quali immedesimarsi. Il motivo per cui questo lavoro utilizza elementi assimilabili a quelli del city pop – lasciando pertanto un’impressione simile nelle orecchie di un ascoltatore come me, attento a queste cazzate – è che lo strato sociale a cui si fa riferimento è la borghesia romana, nello specifico i figli e le figlie della classe cittadina agiata. Quella del Tuffatore è una storia di mondanità e individualismo, tratti che emergono tanto dai riferimenti materiali (sport “elitari” e individuali come il tennis e i tuffi) quanto dal tipo di problematiche affrontate dai giovani protagonisti (una su tutte l’incapacità di evadere dalla vita sicura e riparata che un’educazione borghese finisce inevitabilmente per creare); è dunque normale che il lato musicale cerchi di riflettere tale mondo il più possibile. A dirla tutta, ogni componente dell’album punta a conferire nitidezza a questo microcosmo: gli arrangiamenti, i testi, il cantato che alterna italiano e inglese, i riferimenti culturali adoperati – tutto è un gioco calcolato per sottolineare un certo tipo di immaginario, cementandolo nella testa dell’ascoltatore. A corroborare la validità di questa chiave di lettura ci sono le parole di Giurato stesso, che in un’intervista a La Repubblica XL riassume efficacemente il discorso in poche parole: “Tutto il resto di quel che ho pubblicato è stato sempre suggerito dall’attualità, attualità che ho messo in maschera e costume di scena, naturalmente. Il ventennio fascista di Per futili motivi per la violenza metropolitana degli ultimi anni 70. Il completo da tennis Sergio Tacchini de Il Tuffatore per gli anni 80, gli anni di Craxi e Publitalia. […]”. Questa è la chiave di lettura da adoperare per arrivare in fondo al disco, solo così è possibile capire il senso degli elementi formali sopracitati, che presi singolarmente sembrerebbero magari di cattivo gusto. In giro ci si riferisce al Tuffatore come ad un concept album e forse è vero, ma ciò che gli conferisce quello status non è la struttura puntuale delle tracce, bensì il desiderio di dipingere un panorama preciso e conseguentemente di cristallizzarlo nel tempo. Flavio Giurato sceglie di raccontare un amore sbocciato tra un tennista e una giovane ragazza della Roma bene, ma questi due personaggi non sono altro che veicoli espressivi per parlare dei tira e molla e dello stabilirsi di un rapporto, delle bugie raccontate a noi stessi e agli altri, della scelta tra sicurezza e sentimento, degli amici persi, dei rimpianti; tutte tematiche molto larghe, che assumono però molti più dettagli – alcuni forniti dall’artista, alcuni prestati dall’ascoltatore durante l’atto di riconoscimento – grazie al contesto in cui sono radicate.
Il valore artistico di un’operazione del genere è grande, se l’orecchio di chi ascolta è teso dalla giusta parte. Come per capire del tutto Stanhope occorre conoscere la tradizione che lo ha generato e il quadro sociale più largo della stand-up comedy americana, così per capire l’opera di Flavio Giurato occorre rileggerla nell’ottica dei luoghi e delle classi sociali descritte. Conseguentemente, nell’analisi di disco di questo tipo non bisogna guardare quanto la musica suoni fresca e creativa o quanto rimanga attuale col passare degli anni, fare ciò vorrebbe dire rimanere inevitabilmente delusi; occorre invece capire se l’immaginario utilizzato possiede coerenza interna, se il veicolo espressivo scelto è adatto ai temi che si vogliono comunicare e se il prodotto preso nel suo insieme è potente abbastanza da permettere a persone con vite ed esperienze diverse di sentirsi toccate e coinvolte, di stabilire un legame emotivo forte con ciò che stanno ascoltando. Il Tuffatore possiede tutti e tre questi pregi, e a mio avviso ha inoltre il vantaggio di raccontare pensieri e situazioni facilmente applicabili all’epoca odierna, carica forse di una minore coscienza politica ma con intere porzioni di popolazione afflitte in maniera ancor più massiccia da una generale mancanza di direzione e raison d’être. La ragione del piccolo risorgimento d’interesse per questo disco è forse imputabile proprio a ciò: seppur non sempre a fuoco dal lato strumentale e compositivo, Il Tuffatore possiede abbastanza potenza espressiva da far breccia anche in persone che magari non ci hanno riflettuto a lungo su, e che tuttavia si ritrovano inconsciamente immerse in panorami familiari. Flavio Giurato sa parlare agli altri, e questo più di ogni altro è il compito di un buon cantautore.