SILVIA TAROZZI & DEBORAH WALKER – CANTI DI GUERRA, DI LAVORO E D’AMORE
Recentemente sto bazzicando tante etichette, zine e newsletter che si occupano di quell’intersezione di classica moderna, improvvisazione elettroacustica e musica sperimentale che unisce gli arabeschi più accademici e da MiC a quel gusto per l’oltremondo di internet che sta ad analizzare ogni pescarola dissonante che si incaglia nelle grandi secche di soundcloud e bandcamp. Non la più lucida delle idee, mi rendo conto, ma sappiamo da tempo quali sono le regole del gioco: per ogni cinquantina di dischi che non fanno niente di che il buon ricercatore riesce a trovare roba di cui vale la pena trattare, spolverando i reperti e aguzzando le orecchie. Arriverei al punto in cui ho un colpo di genio da acuto analista, ma ad onor del vero non c’è bisogno di grandi competenze di alta musicologia per farsi spazzare via dal radioso canto del Coro delle Mondine di Bentivoglio. L’antica formazione del comune emiliano s’impone con un’energia solare in tutto il mio campo sonoro poco dopo l’inizio di Canti di Guerra, di lavoro e d’amore all’ode di: Sebben che siamo donne / Paura non abbiamo / Per amor dei nostri figli / In lega ci mettiamo. L’impressione di essere davanti a un tesoro di una profondità diversa oramai è marchiata a fuoco nel nostro cervello – e i bordoni degli archi di Silvia Tarozzi e Deborah Walker che disegnano le dominanti dell’inno rivoluzionario ci proiettano in un mondo nostalgico e ponderoso. Bisogna immediatamente tornare alla prima traccia, vittime di una pelle d’oca ingovernabile, e sentire che cosa sta succedendo nella mente di queste due emiliano-romagnole.
Entrambe le conservatoriste sono reduci da un passato (e impegnate in un presente) di avanguardia e improvvisazione per archi: hanno avuto modo di collaborare nel corso degli anni ’10 con Pascale Criton e l’ensemble Dedalus, Philip Corner, Pauline Oliveros e soprattutto Eliane Radigue, nome non perfettamente apprezzato in questi lidi, che però ha avuto modo di avere nelle due donne italiane degli ottimi interpreti di una parte del suo progetto Occam Océan. Se i lavori con il Dedalus, con Corner e con Criton tendono ad essere delle grandi dimostrazioni tecniche per le capacità e la creatività di Tarozzi e Walker, è nelle composizioni originali che le musiciste brillano, con una nota di merito importante per Circle Process e soprattutto per Mi specchio e mi rifletto di Silvia Tarozzi, un grande disco del 2020 di musica per un organico esteso, in cui la violinista esplora delle rimasticazioni particolarmente emotive, toniche, dello zibaldone di poesie di Alda Merini. Il disco (cui contribuisce anche Walker) verrà considerato e promosso – a ragione – da tanta stampa, nostrana e non: Ondarock, Blowup, Pitchfork, TheQuietus, Artoforum. Il sasso è stato quindi già lanciato un paio d’anni fa.
Quest’anno Deborah Walker e Silvia Tarozzi, mettendo in gioco le loro radici emiliane, hanno scelto di produrre un racconto che mette in discussione l’anima di esperimento e improv che caratterizza il rapporto delle musiciste con i loro strumenti: quelle stesse indagini sulle potenzialità degli archi non potranno più essere estemporanee, empiriste, scientifiche e dovranno confrontarsi in una prova ben più ardua con quegli stessi Canti di guerra, di lavoro e d’amore che il titolo dell’album ci anticipa.
Come va, il confronto?
Risulta immediatamente chiaro che quelle stesse Ignoranti senza scuole del Coro delle Mondine di Trino Vercellese diventano Grandi Maestre di musica popolare davanti alle quali i due archi del Dedalus dimostrano di portare un rispetto assoluto. Tutti i Canti sono costruiti, composti, improvvisati all’ombra di questa triade di inni di guerra, lavoro e amore che si articola nei grandi motti partigiani, nelle prese di coscienza di classe dei canti delle mondariso e nelle ninne nanne dedicate ai pargoli, risaputo unico bene del proletariato di campagna. A partire da questo punto focale, concetto massimo dal quale Tarozzi e Walker abbeverano i loro virtuosismi con l’arco, evolve un mondo di rapporti mistici di testa e cuore, a volte battezzati da un semplice bordone di viola, altre volte racchiusi in un mormorio a cappella che sa di infanzia e adolescenza. Ci sono dei pezzi magistrali nel lavoro del duetto e sono quelli che non temono di impegnarsi in un incontro diretto con i brani del folk emiliano: alcuni esempi vanno fatti, almeno per indicarvi cosa ascoltare adesso.
Il primo a venire in mente è il commovente Pietà l’è morta, un brano dal cui tema principale emerge una coda di rapidissimi sfilacciamenti di violino di Tarozzi, fino al passaggio di testimone tra gli archi e le voci delle musiciste che si impegnano a cantare il Pietà con una dolce religiosità, spogliando la ballata partigiana e rivestendola come un requiem intenerito; le due versioni de Il bersagliere ha cento penne vedono riservato un trattamento omeopatico alla poetica guerreggiante del canto, che viene prima liberata dalle sue catene melodiche, in seguito presentata purissima, emulsionata al suo solo ritornello che esplode in una presentazione fragorosa e irrefrenabile – infine ricostruita in un carosello composto da una mbira, dei soffici droni di viola e la voce della cantante gospel Ola Obasi Nnanna. Ma è il dittico La Campena ed San Simòn – Ignoranti senza scuole a raccogliere il testimone dalla deflagrazione del Sebben che siamo donne e a fare la parte del leone, stavolta senza neanche mettere tra parentesi il tocco di Walker e Tarozzi (che ne La lega erano ancillari alle mondine di Bentivoglio). Il passaggio dalla filastrocca de La campena ed San Simòn a Ignoranti senza scuole lascia attoniti, sia per la sovrapposizione dei due canti che per le scelte stilistiche delle compositrici; la cantilena per bambini è introdotta a cappella e in seguito evoluta con l’intervento tessile e delicato del violino di Tarozzi, che con i suoi vaghi stridori sembra quasi guastare e inquietare l’atmosfera materna cantata dalla voce di Walker. Il sortilegio si interrompe bruscamente con la più politica e spavalda Ignoranti senza scuole, in cui le due musiciste scelgono di accompagnarsi con dei tiepidi pizzicati che squagliano tutta la tensione accumulata in precedenza e fanno da colonna portante di un brano in cui le due voci che armonizzano riescono a fare da sole il lavoro di un coro – complice l’influenza della bella versione singhiozzata di Giovanna Marini. Non è azzardato trovare in Ignoranti senza scuole la vera chiave di lettura del folk emiliano, un genere battagliero e fiero i cui canti di guerra, di lavoro e d’amore si confondono tra loro senza sosta, abbastanza da non capire più se ci si stia struggendo per la prole o per la bandiera. Bellissimo.
Il disco dura quasi un’ora e alcuni brani hanno una direzione incerta: starei facendo un disservizio a tutti cercando a caso le radici concettuali dei bordoni e dei glissati di Parziale o dei rumori di Meccanica primitiva, che dichiarano la provenienza delle due improvvisatrici nei lavori con Radique e in dischi di vero laboratorio come Starflux di Walker – siamo un po’ troppo oltre la dimensione musicale per i miei gusti. Però tutti gli altri brani che si allontanano dal materiale originale riescono comunque a presentarsi in grande spolvero, piluccando qui e lì dalla tradizione emiliana: le peregrinazioni cameristiche di Dondina e Sentite buona gente mantengono una solida presa sulla realtà e i momenti di freeness affrontano con grande riverenza i vuoti e gli spunti donati dai canti di cui portano il titolo, senza mai sconfinare nel parossismo e nel lambiccarsi fini a se stessi. È inevitabile riconsiderare tutto da capo e tornare al principio di Country Cloud, facendosi risucchiare dalle immaginifiche ellissi del violino di Silvia Tarozzi sparate a una velocità inconcepibile. È inevitabile perché l’oceano di possibilità di questi Canti di guerra, di lavoro e d’amore è un luogo dell’anima in cui è difficile non andare a fondo. Questo luogo dell’anima non si compone di quelle influenze che possono donare i cori del folk italiano a chi fa ricerca e avanguardia, ma dei rimaneggiamenti che degli artisti con una consapevolezza e una semantica tipica delle avanguardie possono effettuare su di un patrimonio così sconfinato. Resta da chiedersi: Silvia Tarozzi e Deborah Walker hanno omaggiato le loro radici, o ne sono rimaste schiacciate?
Mi si conceda di azzardare una risposta con un passo che viene da uno dei miei romanzi preferiti del ciclo di Tiffany Aching, di Pratchett:
“Why do you go away? So that you can come back. So that you can see the place you came from with new eyes and extra colors. And the people there see you differently, too. Coming back to where you started is not the same as never leaving.”