TAKKAK TAKKAK – TAKKAK TAKKAK
L’attacco della mia recensione di Phantasmagoria of Jathilan, un disco enorme che se non conoscete dovete recuperare adesso, era una cosa tipo: tutto il mondo è paese e dentro ogni paese c’è un mondo. A una terza e quarta rilettura sembra un po’ una bidonata del peggior Paulo Coelho, ma effettivamente a una quinta e a una sesta ritorna a dare un’idea efficace di quale sia l’atteggiamento etnomusicologico con cui da questo lato della scheda audio approcciamo i dischi che meritano questo tipo di postura. Quindi sì, vada per Coelho e rimaniamo su questa metafora. Quella Phantasmagoria di cui sopra è un long play uscito nel 2023 del duo post-industrial/jathilan giavanese Raja Kirik (on steroids, per l’occasione, grazie alla presenza di Silir Wangi e Ari Dwianto), e l’obiettivo del disco e delle performance che raccontava era quello di, in poche parole, replicare un rito specifico di quelle isole in campo elettronico. In questo caso il corno della contrapposizione era a favore di mondo-dentro-paese, si proponeva una versione indiretta di una attività locale, dedicata a chi dentro a quella realtà non ci vive. La metà organica dei Raja Kirik, il percussionista e performance artist Mo’ong Santoso Pribadi, in questi anni sta facendo dei gran giri in Europa e in generale fuori da Yogyakarta, prestando le sue competenze accademiche e le sue batterie do-it-yourself qui e lì in pièce teatrali, progetti con collettivi per la santificazione sonora della spazzatura e guide interattive di embodied learning per bambini.
Era solo questione di tempo prima che una personalità del genere venisse captata dal campo gravitazionale di un corpo celeste che fa della sperimentazione sul folk non occidentale un suo core business. Non so chi abbia rotto il ghiaccio, ma mi sarebbe piaciuto essere un filamento dell’elettricità che si è sprigionata quando Pribadi è entrato per la prima volta in contatto con Shigeru Ishihara, un producer che da quando si fa chiamare Scotch Rolex ha un po’ assunto le fattezze dello starchild del gruppo Nyege Nyege, quello che si piazza dietro la console e che da solo ti risolve un disco che altrimenti sarebbe solo vagamente interessante. Dal 2021 Livore scrive lettere d’amore per lo stile sbilenco e crepitante di Scotch Rolex, quindi non mi spenderò in una genealogia del suo modo di fare casino: se siete interessati andate qui e qui.
Possiamo però azzardare una valutazione post-hoc su quale sia il mood di una collaborazione tra queste due figure: entrambe Europe-based ma nate in un altro continente, un giavanese e un giapponese, il primo di ampia formazione accademica e il secondo di ampia formazione chiptune/hardcore, il primo a suo agio in un mondo di arte performativa ed educazione, il secondo preso in adozione nel palace of darkness della gqom. Cinquecento parole dopo (due recensioni su SentireAscoltare) posso tornare al punto iniziale di questo discorso: se in ogni paese c’è un mondo a volte è anche vero che tutto il mondo è paese. Lo dimostra l’incendiario debutto in collaborazione di questi due artisti, il self-titled dei Takkak Takkak. Invece di lasciar trasparire le proprie storie, la scelta dei due musicisti è quella di tendere al massimo il tessuto sul telaio e lasciare che dalla loro musica rimbalzi un boato con un occhio cieco sulle differenze etniche e una convergenza di suoni e poliritmi che, pur mantenendo questo genotipo differenziato, in esplicito suona semplicemente come una terza cosa. E questa terza cosa è un sincretismo chiaro e confuso che trova nell’egida stilistica Nyege Nyege la possibilità di fare un disco spiritato unicamente dall’anima mundi buia e palpitante di un’elettronica infernale, senza neanche più stare a capire chi sono le persone che stanno suonando. Ma che significa?
La musica di Takkak Takkak è violenta, acuminata e cerca di appropriarsi dell’estetica del male in tutte le sue dimensioni: si può trattare di un rovesciamento diabolico della gamelan, dei diversi skronk ai fiati focosi e a pie’ sospinto, del lavoro da macellaio di Scotch Rolex che sembra tagliare ogni tentativo di induzione in trance riconducendo continuamente le ritmiche nel campo di quei pezzi club ballabili da una persona con una gamba e mezzo, o magari cinque gambe. La struttura dei brani è a singhiozzo, con persistenti soluzioni di continuità, ma l’ensemble simulato dai due inscena un componimento complesso e stratificato: tanti canali, tante idee che schizzano qui e lì senza alcun perno centrale. La prova di Mo’ong Santoso Pribadi è particolarmente sconvolgente, con la sua batteria artigianale dedicata a dei pattern molto più brevi del solito, molto più vicini al breakbeat vero e proprio che all’ostinato della musica rituale giavanese.
Il détournement dai folk di riferimento al pastiche post-industriale è così massiccio da non essere nemmeno più visibile: il kit di rumori ai campionamenti sporca qualsivoglia traccia strato dopo strato, e l’unico punto di arrivo di questa operazione è una sleppa di cattiveria tagliata con l’accetta che sembra veicolare un messaggio tipo non importa da dove vieni – siamo tutti ugualmente condannati. Così come Pribadi raccoglie le sue percussioni dalla spazzatura e le incorpora nella sua ritualità, Scotch Rolex sembra aver deciso di cercare il suo tipo di spazzatura tra i rumori più rappresentativi della storia della musica per aggiungere materiale alla pira, dall’industrial techno al free jazz, dalla no wave all’EAI. Dall’altro lato, la pulsione club hardcore di Ishihara si riflette sugli scoppi alle percussioni di Pribadi, che una volta tanto si concede un atteggiamento meno pensato verso la sua scrittura, cosa che gli permette di imbestialirsi su di una musica del martello che forse non gli è mai stata così naturale.
Takkak Takkak è incastrato in una terra di nessuno, ma tornare sull’assioma tutto il mondo è paese ci permette di apprezzare questo non-luogo come se fosse il nostro sottocasa. E attorno al cumulo di spazzatura trasformato in suono da Scotch Rolex e Mo’ong Santoso Pribadi la musica che accompagna il rito sembra veicolare un messaggio molto specifico, animale e umano, terrificante e familiare allo stesso tempo. Un messaggio che accomuna le società a ogni livello di secolarizzazione, reperibile tanto negli scudi dipinti di una tribù incontattata quanto nei non detti sui posti di lavoro sotto capitalismo: kill or be killed.
Non perdetevelo.