Sebbene non sia un modo particolarmente efficace per aprire un articolo del genere, la vita dei Broadcast come gruppo non è avvincente o facilmente romanzabile. Come molti prima di loro, Trish Keenan e James Cargill decidono di dare vita a una band quasi per sbaglio: si incontrano in un club, scelgono un nome e iniziano a fare concerti in giro per l’Inghilterra. Ci vogliono due anni, in cui passano da essere i Pan Am Flight Bag (un nome non proprio entusiasmante) al moniker che poi manterranno per tutta la vita, per dare vita ad abbastanza materiale per poter farsi pubblicare dalla Duophonic, l’etichetta creata qualche tempo prima dai membri degli Stereolab.
Straordinariamente, già all’ascolto di Accidentals, il primo singolo pubblicato nel 1996 e che fungerà da apertura un anno più tardi per la raccolta Work and Non Work, ci si rende conto della maturità e della visione dei Broadcast: il modo in cui il sample che funge da impalcatura del pezzo oscilla qua e là con un movimento à la Portishead, tuttavia, non lascia trapelare alcunché di quello che sarà in definitiva la direzione artistica del gruppo nel ventennio a seguire.
Ci vogliono infatti più di tre anni, dopo una collezione di EP e singoli, perché il primo LP The Noise Made by People venga pubblicato. A incaricarsi della produzione alla fine sono gli stessi Keenan e Cargill, dopo aver rinunciato alla consulenza di produttori esterni caldeggiati dalla etichetta per cui hanno appena firmato, la Warp. The Noise Made by People, che vent’anni dopo la sua uscita è stato identificato come uno dei dischi più rappresentativi del catalogo della label su cui è uscito (!!!) grazie alla freschezza e all’originalità dell’approccio alla psichedelia, trasfigura completamente il sound sentito su Work and Non Work con accorgimenti certosini che fanno sbandare il suono dei Broadcast in direzioni inaspettate e allo stesso tempo visibilissime: non è forse il girotondo di Wurlitzer su Papercuts, ad esempio, una naturale evoluzione di quel suono pop e allo stesso tempo misterioso che forse soltanto i connazionali Pram erano riusciti a ricreare? All’interno di The Noise Made by People fanno incursione fischi alieni, organi spettrali, piatti che suonano come gong: i ritmi si sfaldano, si ricostituiscono in swing ondeggianti mentre le pochissime chitarre appaiono sullo sfondo solamente per contribuire in maniera squisitamente ritmica all’accumulo degli elementi a supporto della voce di Trish Keenan. I tagli obliqui di esperimenti come Tower of Our Tuning convivono splendidamente con hook improbabilmente orecchiabili come quello di City in Progress.
Dopo The Noise Made by People ci vogliono altri tre anni prima che i Broadcast facciano uscire un altro disco: Haha Sound continua il percorso di rarefazione e straniamento iniziato dal primo LP della band, ma spinge ancora di più sulla creazione di passaggi alieni. Colour Me In, la traccia che apre l’album, interpola un delicato arpeggio di chitarra e rumori di sintetizzatori con Keenan e la sua filastrocca che potrebbe essere stata scritta da Syd Barrett; da lì si passa a Pendulum, già contenuta nell’EP omonimo uscito pochi mesi prima, che mette al centro la batteria senza pause di Neil Bullock; e ancora, si potrebbe andare a pescare momenti di superlativo stupore tra gli scampanellii di Before We Begin o nella decostruzione sfasata di Lunch Hour Pops. Haha Sound, insomma, riesce nella non facile impresa di prendere quello che era stato già ampiamente declamato su The Noise Made by the People e lo spinge alle estreme conseguenze, includendo in tante piccole vignette dei momenti di totale freak-out (Black Umbrellas, per fare un esempio) e mantenendo quel precario equilibrio tra jam sconsiderate e fragili melodie.
Ci vogliono solo due anni prima che Keenan e Cargill si facciano risentire con un nuovo disco, dopo una tournée europea che viene caratterizzata da un successo spaventoso: i Broadcast ora sono descritti come il futuro della psichedelia europea, il loro stile viene accostato alle posizioni della cosiddetta hauntology che tornerà di moda solamente una decina di anni più tardi (come può ben dimostrare l’interesse della critica specializzata e non). Il sound di Tender Buttons, effettivamente, è ancora più vicino a quella che potrebbe assomigliare a una riesumazione di Delia Derbyshire operata da Laetitia Sadier. Si denotano oramai tipici motivi di circolarità nell’oggetto-album: su The Noise Made by the People, la prima track Long Was the Year suggeriva e riportava direttamente alla chiusura di Dead the Long Year; qui c’è il binomio schizofrenico di I Found the F e I Found the End a fare da argine tematico a quaranta minuti di musica. Keenan e Cargill si affidano definitivamente alla programmazione di drum machine per concentrarsi ancor di più sulla creazione di un suono onirico e conturbante. Il risultato è probabilmente il più bell’album dei Broadcast, che riesce a muoversi agilmente tra gli esperimenti più complessi come Arc of a Journey e le ninne-nanne come Corporeal, senza dimenticare le composizioni che potrebbero tranquillamente fare da sottofondo a trasmissioni cult delle reti televisive britanniche come The Man from UNKLE, a cui il duo di creativi di Birmingham si rifà anche nell’iconografia dei propri dischi.
La continua ricerca dello “strano”, di quel suono rimosso dalla narrazione e che può essere manipolato o reinterpretato, spinge i Broadcast ancor più in fondo ai sentieri dell’hauntology; nel 2009 esce Broadcast and The Focus Group Investigate Witch Cults of the Radio Age. Il disco, come pure si può intuire fin dal titolo, è una summa di tutto quel che ha caratterizzato il sound del gruppo (qui in collaborazione con Julian House, il fondatore dell’etichetta Ghost Box): viene saccheggiato un intero archivio di registrazioni per poter ricreare dei paesaggi sonori che vanno da The Be Colony, dove le armonie pseudo-Stereolab si incontrano con un organetto che potrebbe essere quello di Richard Wright su The Piper at the Gates of Dawn, a I See, So I See So con i suoi gabbiani misti a quello che forse è un clavicembalo, forse una chitarra molto effettata? Io di certo non so dirvelo. A Seance Song, quasi al giro di boa del primo lato, riesce persino a mischiare quello che è essenzialmente il non-musicale: una figura sghemba e atonale di chitarra, lo squillo di un vecchio telefono, qualche colpo lontano, e la voce di Keenan, come se fosse intrappolata nel ghiaccio. Sembra quasi impossibile che questa serie di umori possano convivere in maniera concordante e complementare all’interno di uno stesso microcosmo: eppure i Broadcast sono capaci di riunire tutte queste anime e di farle proprie senza nessuno sforzo apparente.
La carriera dei Broadcast si interrompe in maniera tanto tragica quanto inaspettata: in seguito a una tournée in Australia nel 2011, Trish Keenan contrae l’influenza suina e muore di polmonite di lì a poche settimane. Non si tratta solo della perdita di una cantante: il gruppo perde metà della propria forza creativa, e Cargill si esprime, nelle interviste successive alla morte, in commenti contrastanti tra la voglia di continuare a fare musica sotto il moniker Broadcast e il conflitto emotivo derivato dalla mancanza della propria compagna di avventure.
Così, dopo un disco di registrazioni mescolate con dialoghi presi da film dell’orrore cesellati con ago e filo dal solo Cargill nel 2013, la Warp decide di ripubblicare l’intero catalogo dei Broadcast nel 2015, lasciando intendere che succose registrazioni d’archivio avrebbero potuto essere riesumate. E così è avvenuto: quest’anno non una, non due, ma ben tre raccolte sono comparse nel catalogo della più famosa etichetta britannica di elettronica. The Maida Vale Sessions, accompagnato dalle ristampe di Mother Is the Milky Way e di Microtronics – Volumes 1 & 2 sono stati salutati dai fan della band come un graditissimo regalo.
Mother e Microtronics sono, per quanto mi riguarda, delle uscite tanto intriganti quanto dimenticabili: la prima è una testimonianza che raccoglie l’esperienza di uno degli ultimi tour dei Broadcast, ma il minutaggio estremamente ridotto (poco meno di 20 minuti) fa sì che non sia possibile apprezzare appieno la stranezza insita che sembra celarsi dietro ogni angolo di uno qualsiasi dei brani del gruppo. Microtronics, invece, soffre del problema opposto: i due volumi, anch’essi da circa 20 minuti l’uno, raccolgono materiale che veniva utilizzato in sede live dalla band per collegare tra di loro canzoni che sarebbero state altrimenti slegate dal resto della setlist. I brevi brani qui contenuti sono quindi degli intermezzi di Moog sfrigolanti, dei gorgheggi effettati di corde, delle pelli percosse furiosamente: ma la sostanza vera e propria, l’identità della band, è quello che manca all’equazione. Fortunatamente, The Maida Vale Sessions riesce a sopperire alle mancanze di queste due ristampe, affermandosi come una delle uscite d’archivio più abbaglianti di quest’anno fin da subito.
Questo perché The Maida Vale Sessions contiene al suo interno quelli che sono i semi di tutta quanta la discografia in studio dei Broadcast: si tratta infatti di registrazioni che si muovono dal 1997 fino al 2003, esplorando le fasi di costruzione di alcuni dei brani più significativi della carriera del gruppo, muovendosi da Work and Non Work fino a Haha Sound. I motivi per cui Maida Vale è un prodotto che va al di là del tipico ABC di una band che oramai è stata definitivamente archiviata – Cargill ha dato vita nel 2017 al progetto Children of Alice, che fin dal nome comunque continua a omaggiare la figura di Trish Keenan – sono multipli: in primis perché le registrazioni compiute nello studio dove John Peel ha registrato alcune delle sessions più significative di quasi mezzo secolo di musica popolare inglese non sono, per forza di cose, raffinate come quelle che ho descritto qui sopra. Si nota una rozzezza, una sporcizia del suono che si impossessa dell’umore delle composizioni, una distorsione che si fa più indulgente nei momenti più caotici; la voce di Keenan, poi, qui sembra essere più sicura e decisa, meno eterea e ultraterrena. Si ha l’impressione, insomma, che le Maida Vale Sessions siano state un catalizzatore importante per la scoperta di quella sicurezza che ha permesso ai Broadcast di fare il salto da quella che era una generazione di (spettacolari) ritrovatori di atmosfere passate e ammantate di mistero come i già citati Pram, Stereolab e Portishead. Si può sentire, mentre l’ipnotico ritmo serpentino di Come On Let’s Go scorre tra le nostre orecchie, come se le dita di Cargill e Keenan si siano definitivamente espanse oltre la vertigine dell’archivio e siano riuscite a mettere le mani su un futuro passato, una capsula temporale che restituisce solo macerie che i due devono rimettere insieme grazie al loro estro. Il secondo motivo, ancora più affascinante, è che le Maida Vale forniscono un ultimo, estremo regalo: pezzi che non sono poi stati inseriti in nessun album qui riescono a trovare spazio, ritagliandosi una importanza degna di piccole pepite di oro ancora più puro di quello scovato in mezzo a un filone. Forget Every Time e Sixty Forty sono pezzi-manifesto: il secondo di questi, che è stato utilizzato come singolo d’annuncio del disco, si muove partendo da un riff di organo che potrebbe appartenere ai Suicide sia per il timbro, sia per l’ossessività. Ancora una volta la voce di Keenan interviene, una litania che è una filastrocca e una favola, mentre una chitarra e i piatti di una batteria arricchiscono soffusamente l’arazzo sonoro; si ha l’impressione che qualcosa stia per esplodere, mentre le pennate si fanno più intense e rumorose; quando infine le ultime reiterazioni del testo si chiudono ancora una volta su una frase enigmatica (“Will there be another time?”), il pezzo si richiude in se stesso, lasciandoci di fronte a un incompiuto che odora di rimpianto. Ed è tutto quello che avremo.