Akira Rabelais – CXVI (2019, Boomkat Editions)
La musica di Akira Rabelais è perennemente sospesa tra sogno ed ambizione. Perfettamente riflessa nelle note criptiche che ne accompagnano le pubblicazioni su Bandcamp e nelle splendide copertine dalla purezza quasi lattea, il minimo che si possa dire è che le sue composizioni vivono in una realtà magica, fantasmagorica, sicuramente non terrena. Sono passati ben diciott’anni da quando processava ingenuamente su software pezzi per piano di Satie e Bartók infiocchettandoli di glitch pretenziosi; ora collabora con Harold Budd, Ben Frost e Biosphere per rilasciare nell’aria il polline ipnoalterante di CXVI. Se l’attacco porta chiaramente la firma di Frost, e in particolare delle nebbie insinuanti cariche di disturbi elettrostatici che costituivano la parte migliore di The Centre Cannot Hold, il pezzo finale cela la mano del solitamente algido Jenssen dietro un sipario di rumore graffiante. In entrambi i casi pare di assistere ad audiogrammi deteriorati di racconti un tempo vividi, come nei sei volumi del magnum opus a firma Caretaker (grande lascito musicale e concettuale dei nostri giorni, che meriterebbe una trattazione a parte); ma mentre nei lavori di Kirby i frammenti di lucidità devono cedere necessariamente il passo all’inesorabile decadimento, qui la musica ci segnala che non tutto è perduto, almeno in sogno. Gli spiragli di luce arrivano e fanno kintsukuroi dei suoni scuri, condotti dapprima dalle note del piano che Budd lascia cadere come gocce ed infine da uno spoken word di sussurri così vicini che par di sentire l’umido delle labbra accarezzare l’orecchio. Nel mezzo, quaranta minuti eterei che si reggono su letture di voci distanti, corde di chitarra pizzicate per droni celestiali e pochi altri elementi nella coltre onirica. Sogno ed ambizione, appunto: se riuscite a farvi catturare nella sospensione dell’incredulità, risvegliarvi non sarà così semplice.
Battle Break – Battle Break 2 (2019, PRR! PRR!)
Dall’incorporeo passiamo al terribilmente materico, fino a lambire il tamarro. Alla Prr! Prr! mettono in piedi una caciara rara, un’orgia di stili e generi accozzata con il lucido intento di fare più casino possibile. Si susseguono in ordine sparso: linee di basso da ghettoblaster solide come il sugo incrostato sulle pentole; numeri reggaeton che la metà basta per far venire giù il cruscotto; italo-disco ed eurotrance che si scambiano fluidi biologici sui binari al ritmo freddo degli annunci di Trenitalia; ibridi muscolosissimi tra grime e gabber; letteralmente il Lento Violento. La sensazione di stordimento è accentuata dalla sampledelia che imperversa e dagli stravolgimenti che aleggiano ad ogni curva. Tutto col suono più truce possibile, tutto rigorosamente senza regole. Scavate nello splendido ciarpame di questa mezz’ora e vi tramuterete in dei Tetsuo da club.
Maat – The Next (2018, Pacific City Sound Vision)
La discografia dei Coil è così ampia e ricca da aver attraversato praticamente tutti i filoni della musica elettronica alternativa a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Perlustrandone gli angoli si scopre una quantità impressionante di usci aperti su altre dimensioni, rimasti socchiusi per chi avesse il desiderio di avventurarvisi. Se l’eredità in termini di sperimentazione musicale è enorme, credo che il più grande merito della creatura di John Balance e soci sia stato quello di aver sviluppato una compiuta liturgia musicale dell’era post-industriale. Quasi tutta la produzione è percorsa da un intenso afflato rituale, suoni trasfigurati meccanicamente che rappresentano invocazioni perfette per gli spiriti senza pace alle porte dell’Antropocene; in un mondo che non può permettersi l’ingenuità del sacro, in cui le forze superiori collassano sul proprio io, non rimane che rifugiarsi in uno spazio esoterico. È dal bacile sonoro e rituale dei Coil che attinge a piene mani Maat, artista tedesca di cui è stata recentemente pubblicata questa selezione di brani dai due album pubblicati ad inizio anni ’90. Diversi elementi scandiscono le sue piccole cerimonie psicoattive, a partire dai bei pattern di percussioni elettroniche a cui il remastering rende un ottimo servizio. Si focalizzano su piccoli frammenti ritmici ripetuti che vengono poi raddoppiati da parti minimali di synth; le timbriche vengono disciolte fino a conferire ai suoni una consistenza liquida ed insinuante. Così nascono le processioni nella palude di Krypt e She. Altrove Maat preferisce invece saturare l’atmosfera delle composizioni con microtemi di tastiere innestati in loop su droni, rinunciando alle percussioni (The Next) o rallentandole ed espandendole (Kurz Davor). Altro importante elemento è l’influenza delle musiche folkloristiche asiatiche, in particolare della tradizione giapponese, che viene reinterpretata curiosamente in pezzi come Shaku o Monoton. Queste linee compositive si incastrano in varie combinazioni tra un brano e l’altro lasciando spazio anche ad altre peculiarità, come climax pianistici o bozzetti per fiati; Maat sembra avere anche buone capacità vocali, usate però con moltissima parsimonia. Rispetto ai maestri manca soprattutto un impianto unitario (compositivo e teorico) che allacci tra loro le varie suggestioni qui disseminate; si tratta tuttavia di un ascolto molto particolare per adepti di alchimie sonore.
Liziuz – Geschichten Des Lebens (2018, Hospital Productions)
Due versioni dello stesso pezzo di 50 minuti: se questo fosse un disco free improv, di quelli che certi musicisti fanno uscire a cadenza bimensile, penso che non lo avrei toccato neanche con un bastone. Invece è un lavoro industrial techno che esce su Hospital, una sicurezza quando si parla di sonorizzazioni industriali (è l’etichetta di riferimento di Prurient, tanto per dire, ed è su Hospital che è uscito quell’intrigante totem di Ecocannibalism, di cui vi avevo parlato nell’articolo sui dischi lunghi ma belli). Inoltre c’è il precedente positivo di una operazione affine che ho apprezzato: mi riferisco alle due interpretazioni, una in studio e una live, di Having Never Written A Note For Percussion ad opera di Rrose. E’ una composizione di James Tanney che si basa su indicazioni molto semplici, cito da Resident Advisor: “…an extended roll is played on an undefined percussion instrument for a “very long” time. It must rise from silence to a quadruple-forte peak, then return again to silence.” Il lavoro di Rrose è stato accolto da opinioni contrastanti, forse perché molti si aspettavano un’altra portata di techno dai bassoni rimbombanti e non un esperimento con droni di gong; io l’ho trovato di una potenza cristallina nella sua semplicità, soprattutto nella versione live in cui i rumori in presa diretta si mescolano all’esecuzione stessa e sembra che avvenga una autentica acquisizione di valore. Geschichten Des Lebens si annuncia decisamente più diretto e meno sperimentale. L’ascolto della versione ambient, pur preceduto dalle pregiudiziali automatiche per i dischi che superano i 100 minuti, si è rivelato da subito molto coinvolgente. Il motivo è semplice: molti lavori, anche di buona fattura, che si muovono all’interno di queste sonorità si ritrovano quasi invariabilmente spaccati tra la volontà di percuotere meccanicamente l’ascoltatore e la necessità di dargli respiro; rischiano così di risultare monocordi se perseguono solo la prima strada (penso a Stowaway di Ansome: bomba, ma sempre sullo stesso spartito) e di depotenziarsi se non padroneggiano la seconda (come in alcuni EP di N1L). Liziuz è bravo ad incorporare fin da subito entrambi gli aspetti e a non scinderli mai del tutto, peraltro sviluppandoli con creatività, potendo così contare su un motore espressivo doppiamente potente. La versione ambient è in costante evoluzione, con atmosfere plumbee su cui si innestano scorie percussive, e scivola via che è una bellezza, con tanto di pausa dronante. La versione techno ovviamente si appoggia molto di più sulla componente ritmica rispetto a quella atmosferica e lo fa senza mollare mai il colpo, piazzando oltretutto cambi e progressioni che posso solo definire giustissimi (magistrale al minuto 23 l’ingresso graduale del beat dopo una lunga dissonanza nata a sua volta da un segmento quasi-darkwave). Pur avendo lunghi tratti che non sfigurerebbero in un DJ set di Dettmann e compagnia, la composizione non vuole mai scrollarsi di dosso l’affascinante eco del collasso post-umano, l’odore inebriante della ruggine sul metallo e la luce malata dentro agli appartamenti abbandonati a Chernobyl.
ASC & Sam KDC – Decayed Society (2012, Auxiliary)
Proprio al disastro di Chernobyl è dedicato questa uscita ad opera di ASC e Sam KDC, due produttori che amano aprire scorci ambientali nei ritmi serrati della drum and bass. Considerata l’ispirazione, verrebbe facile aspettarsi brani a tinte fosche tra clangori e radiazioni sinistre, ma non è così: invece di focalizzarsi sulla distruzione, il duo mette in musica l’enormità immobile degli spazi abbandonati dopo l’esplosione. Ecco che allora i beat sono quasi assenti e il suono si avvicina molto di più ai progetti “cosmici” di ASC – perché in fondo anche Pripyiat e dintorni sono diventati una landa aliena. È una bolla di synth immensi e dilatatissimi che si espandono densi tra gli edifici corrosi. Tale è il distacco rispetto alla nostra realtà che a tratti si ha l’illusione di ascoltare l’elegia di un nuovo Eden da cui l’uomo è estromesso (Rebuilt From Nothing, No Safety Zone). Ma è un paradiso contaminato che vive di una pace malate; sample, riverberi e dissonanze riemergono dalla Zona a ricordare la ferita aperta di ciò che è stato (Lost Negatives, Block 4), senza però prendersi la scena, anzi sfumando sempre nello straniamento post-traumatico di chi ha perso tutto ed ora non può far altro che contemplare la bellezza della sconfitta.
Tolley & Dara – Cutheart (1980, Mirage)
Melbourne, 1980. Immagino il locale poco illuminato, poco affollato. Sul palco David Tolley e Dure Dara, sintetizzatori analogici e un’ampia gamma di percussioni. Si improvvisa. Prima sorpresa: è incredibile sentire in una registrazione così oscura e periferica una tale ricchezza espressiva agli strumenti. Seconda sorpresa: la quantità di stili e generi che ribolle tra queste note. Si fa appena in tempo a riprendersi dall’orgia psichedelica dell’iniziale Cut the Heart Out, con le tastiere che paiono impazzire cercando di superare i limiti del proprio suono, che ci si ritrova in una bizzarra dimensione in cui le luminose geometrie dei Kraftwerk vengono colonizzate dallo sferragliare degli umori wave. Tolley ai sintetizzatori giganteggia per inventiva e misura, ma è essenziale il ruolo delle percussioni nel ricamare coloriture discrete o nel rafforzare con scroscianti intromissioni i passaggi più concitati. Bocche aperte poi su What More Do You Want, in cui dai riverberi elettronici viene evocata una creatura asiatica sospesa tra giungla e gamelan. Terza sorpresa: pare che durante il concerto i due abbiano cucinato un pollo che poi hanno offerto al pubblico. Bravi tutti.