L’idea per questo pezzo è nata dalle foto di architetture assurde che l’amico Sunny mi mandava dai suoi giri per Bilbao. Contrasti spiazzanti tra vecchio e nuovo, strutture d’ispirazione brutalista vicino a forme e superfici futuristiche, con gli edifici secolari come testimoni. Visto che di solito noi due comunichiamo attraverso link a dischi e mix, ci è venuto naturale associare le costruzioni alla musica. Che disco ci fa venire in mente questo particolare pattern dei vetri? Quale suono di basso ci fa scintillare in testa questa curva dei muri? Insomma, come avrebbero suonato questi edifici se fossero stati musica? Le associazioni scattavano sempre con varie incarnazioni della musica elettronica. Per una passione comune, certamente, ma credo che c’entri anche una visione diffusa delle tracce di club music e dintorni come dei risultati di un assemblaggio di blocchetti: quello delle percussioni, quello del basso, quello di un certo tipo di synth e così via, ad incastrarsi in un gioco di loop ed effetti che si snoda attraverso la ripetitività di certe strutture. E non è questa la modalità con cui si costruisce un edificio? Diversi materiali edili che vengono modellati e assemblati attraverso un preciso schema di distribuzione ripetuta che garantisce affidabilità strutturale, a cui è sovraimposto un progetto peculiare che ne segna l’individualità estetica. In entrambi i casi, quando tutto funziona bene, il risultato è ben di più che la somma delle singole parti. Allora ci è venuto in mente di prendere la celebre frase “Scrivere di musica è come ballare di architettura”, una delle red flag più vivide quando si parla di critica musicale con chicchessia, e rivoltarla su se stessa per farla diventare da pungolo satirico a ispirazione letterale. Grazie a chiunque l’abbia consegnata agli annali, raccogliamo l’invito per parlare di dischi e di edifici, e degli uni attraverso gli altri; anche Sunny contribuisce con una visione su Bilbao. Preferenza a strutture musicali da ballare e strutture edili da esorcizzare, con notevoli eccezioni. Buona archidanza!
Museo Guggenheim, Bilbao – Autechre, Amber (Warp Records, 1994)
Era la mia prima notte a Bilbao. Dopo aver appoggiato i bagagli in hotel e aver cenato nel primo posto disponibile, mi diressi a fare una passeggiata di notte. Come il protagonista di un racconto di Lovecraft, mi sentivo attratto a dirigermi verso quel monumento, che avevo scorto solo di sfuggita dalla navetta che collega l’aeroporto alla città.
Dopo aver camminato per diverso tempo verso nord, per strade praticamente deserte, cominciai a intravedere il colosso di titanio. Al primo contatto, la facciata d’ingresso dalla strada inganna molto su quello che è la natura della bestia. Quasi a nasconderne la vera forma. Come se avesse una forma.
Iniziai a girarci intorno con fare concentrato. Ero solo di notte, in una città a me sconosciuta coperta da qualche nuvolone grigio. Deve esser stato qualcosa nei riflessi sulle scaglie metalliche della creatura ad avermi portato a pensare alla musica degli Autechre, per libera associazione mentale. Perciò, in quel momento assorto, mi misi ad ascoltare Amber.
Ѐ davvero difficile riassumere la musica degli Autechre in poche parole, sia per la vastità del catalogo, che copre ben tre decenni, sia per il suono costantemente in evoluzione. Nonostante ciò, la qualità che più spicca alle mie orecchie è un particolare connubio tra elettronico e biologico. Un calore freddo, che attraverso l’austerità di suoni strettamente sintetici, esprime una profonda sensibilità emotiva. Una umanità che non ti aspetteresti da un’orchestra di cavi e circuiti.
Questa caratteristica, secondo me, si riflette molto bene in Amber, una pietra miliare nella discografia degli Autechre. Le drum machine e i sintetizzatori si intrecciano e si coordinano tra di loro per dar vita a un nuovo organismo, la cui funzione non è la pista da ballo. La sua funzione è sconosciuta e attraverso l’ascolto di Amber ne apprendiamo le varie sfaccettature. Dalla malinconia e fragilità di Yulquen e Nine a un orrore cosmico che avanza in Silverside e Teartear.
Per capire da dove arriva questa associazione tra gli Autechre e la creatura di Frank Gehry, bisogna sostituire l’elettronica con la metallurgia, il suono con lo spazio. Le singole lastre di titanio che compongono il Guggenheim sono ben lontane dall’essere vive. Nonostante ciò, non si dispongono secondo rigide regole architettoniche, bensì secondo una coscienza di gruppo. Una volontà di auto-organizzazione simile a quella degli stormi di uccelli o degli sciami di insetti. Così prende vita. Le titaniche forme organiche non possono essere comprese con un unico sguardo. Ogni nuova angolazione rivela sempre di più, ma senza mai completare l’immagine. Una presenza nello spazio che spinge a far correre la nostra immaginazione.
Al contrario di un protagonista di un racconto di Lovecraft, non fui divorato da un senso di orrore, ma preso da una fascinazione quasi aliena. In tutto ciò era fatta notte fonda e il giorno dopo la sveglia sarebbe suonata presto; me ne tornai in hotel, felice per quella nottata solitaria.
Gli Autechre ci mettono alla prova nell’ascolto, costruendo spazi sonori da decriptare come se fossero messaggi di una coscienza robotica. Il Guggenheim giace sull’estuario del fiume, come un antico dio del mare in cerca di riposo, a mettere alla prova la nostra comprensione dello spazio. (S.P.)
Santuario mariano di Monte Grisa, Trieste – Deathprod, Occulting Disk (Smalltown Supersound, 2019)
Se vai a Trieste, da qualunque punto della città puoi individuare un trapezio scuro che ti osserva dalle alture. All’inizio sembra una curiosità, una stranezza quasi parageologica; ma poi ti trovi a rivolgere lo sguardo verso quel punto in momenti diversi, mentre costeggi i banchi di meduse sul Molo Audace o nelle vie che si arrampicano verso la Cattinara. Sempre più spesso giri il collo per rivolgere lo sguardo verso quel centro di gravità. Cala la sera sui giorni e la sagoma rimane lì, come un sole nero. Ad un certo punto dici: basta, ora ci vado. Dopo una lenta e lunga salita, ti ritrovi davanti questo alveare di cemento armato che cozza con il bellissimo panorama come il più arrogante degli ecomostri. Sembra un memoriale, è una chiesa: in queste geometrie spesse e tozze di materiale industriale, che ti ispirano il verbo “ottundere”, qualcuno ha visto un simbolo di adorazione verso l’oltreumano. Finisci per rimuginarci mentre dalle panchine guardi il mare. Occulting Disk di Deathprod, similmente, è un obelisco che torreggia sopra tutto lo spazio mentale dell’ascolto. Lo fa con droni saturi di energie scure che danno l’impressione di vasti spazi, anche se il segnale audio di per sé è scarnificato in componenti essenziali. Una liturgia del suono mirata a corrodere anziché celebrare: il nume tutelare Helge Sten lo definisce “an anti-fascist ritual”, negli effetti si tratta di un assalto sulla soglia del rumore bianco che espone la percezione a qualcosa di misterico, la contamina, la purifica. Non viene difficile immaginarsi un sound system monumentale al posto del Santuario del Monte Grisa, emanare le onde potentissime di Occulting Disk in un paesaggio che attorno si è trasformato in deserto bianco di rocce e salsedine, sotto una luce abbacinante. Ci sono allucinazioni peggiori di questa, alcune con solide fondamenta.
Michigan Central Station, Detroit – Robert Hood, Motor: Nighttime World 3 (Music Man Records, 2012)
Che uno degli stili musicali dall’influenza più ampia degli ultimi quarant’anni sia originato nella metropoli più divelta e in abbandono del mondo occidentale è allo stesso tempo incredibile e perfettamente naturale. Detroit è lo stato terminale di un collasso seguito ad ambizioni insostenibili, una boomtown della produzione automobilistica che scompare lentamente da decenni su un territorio vastissimo; Rebecca Solnit ha scritto: “This continent has not seen a transformation like Detroit’s since the last days of the Maya“. In mezzo a questo ambiente urbano di edifici in rovina e quartieri dissolti, specchio di un tessuto sociale dalle molte ferite, nasce un’espressione che prende il battito meccanico delle fabbriche e lo rende propulsivo, futuristico, teso verso un orizzonte vibrante di possibilità. La techno primigenia è una risposta clamorosa allo sfacelo, una pratica creativa che dalle macerie ha riconfigurato una visione stimolante della tecnologia attraverso la musica, fino a diventare il collante di comunità danzanti attraverso tutto il globo. Robert Hood ha dato un contributo enorme alla definizione di questo suono e le sue prime pubblicazioni, pur arrivando un decennio dopo le intuizioni pioneristiche di Juan Atkins, conservano il fascino alchemico di una formula che si materializza alla perfezione: prendete come esempio l’inventiva infaticabile di Minimal Nation, che ancora non sembra invecchiata di un giorno. Eppure pensando oggi a Detroit mi viene in mente un lavoro di Hood di vent’anni dopo, Motor Nighttime World 3. Tra questi solchi si incontra una techno più scura e riflessiva, capace di costruzioni musicali di ampio respiro, ma percorsa da fantasmi come se sapesse di ballare sulla soglia del vuoto. Intorno a numeri eccitanti e visionari come Black Technician e Drive si dipana una selva di passaggi lenti, loop eterni consumati da frequenze disturbate, germi melodici sospesi nel tempo. Penso a questo disco guardando la maestosa decadenza della stazione centrale di Detroit, ideata in stile neoclassico dagli stessi architetti che hanno progettato la Grand Central di New York e all’epoca della costruzione (1914) l’edificio più alto del mondo per una stazione ferroviaria. L’ultimo treno è passato di lì 35 anni fa. L’edificio è diventato nel tempo un mausoleo del passato, anacronistico nella sia imponenza circondata da strade deserte, talmente rovinato che nello scheletro di pietra e cemento il sole riesce a filtrare da un piano all’altro. A quanto pare ora è in ristrutturazione, difficile entusiasmarsi. Lo sguardo va piuttosto ai quartieri vacanti a poca distanza, dove nel territorio in cui è arretrata la città sono sorte vaste aree verdi a crescita spontanea, ripopolate da una fauna improbabile e stupefacente. Zone residenziali urbane e lepri che corrono tra i cespugli, realtà comunicanti a dieci minuti di distanza; un possibile futuro dai colori accesi che ricopra le propaggini di desolazione grigia. Intanto il basso continua a pulsare, qui e altrove. Anima la notte, e reclama la prossima alba.
Pillars of Dreams Pavilion, Charlotte – Psyche/BFC, Elements 1989-1990 (Planet E, 1996)
La ribellione danzante generata dalla nascita della techno a Detroit non è stata solo una questione di musica. In un contesto capace di proiettare opprimenti sensazioni di abbandono e prigionia in chi lo abita, la sonorizzazione delle viscere urbane della città si è legata – come per necessità – alla fervida costruzione di immaginari che formassero un’idea di futuro da sovrapporre alla deprimente realtà. Dal progresso tecnologico che ha ispirato le visioni spaziali di Atkins alle rivendicazioni di giustizia sociale proiettate nel mondo sommerso dei Drexciya, la techno delle origini ha veicolato spesso scenari a metà tra l’escapismo e l’utopia critica. Una delle testimonianze più vivide dell’incontro tra la concretezza del dancefloor e la ricerca di un altrove sta nei brani pubblicati nel giro di due anni da un esordiente Carl Craig con gli alias di Psyche e BFC. Tastierista e producer raffinato, Craig si è sempre mostrato ricettivo a molte influenze artistiche (tra cui è inclusa l’architettura): nel corso della sua carriera si dedicherà anche a progetti house e seminerà ritmi spezzati in cui si possono trovare alcuni tra i primi vagiti della drum and bass. Alla vigilia degli anni ’90 però la sua ispirazione si abbevera alla fonte della musica ambient, di cui ricrea il senso di spazialità dell’ascolto mettendo a punto un suono liquido di sintetizzatori in primo piano ad avvolgere i loop di percussioni. È una techno che mantiene una grande attenzione alla componente ritmica, ma la satura con melodie in technicolor che conferiscono una qualità onirica ai pezzi; da una parte l’inventiva dei beat a mantenere le radici fisse nella scena di Detroit, dall’altra una profonda anima contemplativa che anticipa di qualche anno ciò che si vedrà in veste più algida e cerebrale in casa Warp con la seminale compilation Artificial Intelligence. Le produzioni del primo Craig promettono una evasione straniante dalla desolazione urbana, che rimane comunque il buio su cui si staglia la luce oppiacea di questi sogni da dancefloor. Allora vedo un legame con Pillars of Dreams, una costruzione solida e vaporosa insieme, che si fa notare subito per l’aspetto insolito ma che, guardandola nelle foto scattate in giornate assolate, trasmette un senso più profondo di sollievo per l’ombra levigata che proietta. L’eccentricità delle curve nell’ambiente attira l’occhio da lontano, ma è l’intimo legame tra struttura e colori che accende le sinapsi; bisogna entrare fisicamente nel complesso per ammirare lo spettacolo, come un pezzo in apparenza semplice che va ascoltato attentamente per cogliere il fascino di una mutevole linea di basso. Elements 1989-1990 è una grande miniera di rivelazioni di questo tipo. Il fatto che Pillars of Dreams sorga tra un enorme edificio governativo e un parcheggio non fa che rafforzare l’associazione.
Museo delle Scienze MUSE, Trento – Basic Channel, BCD-2 (Basic Channel, 2008)
Il MUSE è uno di quegli edifici belli in Italia che non ho mai sentito citare da nessuno nel corso della vita: sarà il nome troppo simile al più celebre MOSE (che evoca altre sensazioni, diciamo), sarà che sta a Trento in una posizione e un contesto che sembrano sempre avere un certo distacco dal resto del paese. Eppure la sua eleganza moderna e altera calza a pennello con la città e disegna una bella continuità con la splendida cornice naturalistica, che lo fa accarezzare dal fiume Adige e lo incorona con i profili maestosi delle Dolomiti. Un vero spettacolo ammirarne il profilo sotto la neve, con le luci a filtrare tra gli ampi vetri nel freddo della sera. Luci che si tingono però di una sfumatura sinistra pensando alla cascata di animali impagliati e scheletri appesi che accoglie chiunque metta piede nelle sale interne; sguardi rubati alla morte che certamente permettono alle scolaresche di vedere da vicino le fattezze di un’alce, ma che sembrano essere stati interrotti nel bel mezzo di un sabba demoniaco. Forse esagero, forse potete capirmi. In ogni caso sonorizzo mentalmente le immagini esterne del MOSE con una raccolta dei monumentali lavori realizzati da Mark Ernestus e Moritz Von Oswald sotto il vessillo Basic Channel. In poche parole si tratta delle sacre scritture della dub techno, produzioni che hanno costruito universi minimali di eco e ripetizione senza mai rinunciare alla visceralità del ritmo, con un’influenza immensa su artiste e artisti che hanno seminato la propria creatività in questo solco. Andrebbe scritto un libro sulla storia di Ernestus & Von Oswald, per ora sono state pubblicate due raccolte ed è uno dei pochi casi in cui la seconda è migliore della prima. C’è l’eleganza teutonica, l’atmosfera fredda da pelle d’oca, lo spazio nebuloso come l’aria tagliata dal nevischio, i riverberi immensi che si spandono fino alle montagne; ma alla base di tutto una pulsazione indecifrabile che muta continuamente alle soglie della percezione, e in certe notti potrebbe attraversare con un fremito i vetri illuminati del MUSE.
Piazza dell’Otto Agosto, Bologna – The Bug, Fire (Ninja Tune, 2021)
Una piazza è la città che si apre, raccoglie come affluenti le strade che la percorrono e unisce le loro direzioni in una finestra sul cielo. Le persone che camminano secondo personali rotte di svolte e attraversamenti si ritrovano in uno spazio comune, libere dalle strettoie degli edifici. Allora la piazza è punto di incontro, un posto fortunato dove osservarsi e riconoscersi: non a caso condivide l’etimologia con la parola “platea”. Guardando Piazza dell’Otto Agosto a Bologna, però, questi pensieri paiono dissolversi. La più forte sensazione è il senso di vuoto. La pavimentazione scura, attraversata dalle grate, appare come un sagrato di cenere dopo un incendio e contrasta violentemente con i colori del perimetro di edifici, che così sembrano formare una staccionata contenitiva. Nel mezzo troneggia un parallelepipedo massiccio e solitario, l’allucinazione di una Kaʿba in forma grezza e desacralizzata senza tempio né apparente contesto a contornarla; per molto tempo ho pensato (sperato?) che potesse essere un’impalcatura temporanea dentro cui si celava l’inizio dei lavori a un monumento che avrebbe dato lustro alla piazza, una convinzione simile al mammut di Rebibbia per Zerocalcare. Ho poi scoperto che si tratta di un camino che serve ad areare il parcheggio interrato. La piazza più grande della città, con una gloriosa storia alle spalle, oggi emana una tale aura di sventura da risultare quasi sempre deserta. Ho l’impressione che le persone evitino appositamente di attraversarla e preferiscano passare altrove o circumnavigarla, stringendosi alla staccionata anche senza bisogno di cercare riparo dal sole o dalla pioggia, con una necessità inconscia di protezione dall’esposizione malevola della piazza stessa. Certo, due giorni a settimana qui si tiene il mercato della Piazzola, che la popola di bancarelle e ciacolare di acquisti; la gente si incanala nelle vie create dai banchi di oggetti esposti, la piazza è celata dai tendoni; ma invariabilmente la fine del mercato lascia dietro di sé il familiare vuoto arricchito solamente da una wasteland di rifiuti sconsolati, come se la piazza avesse ingoiato ogni cosa, eccetto i piccioni. L’altro lato della medaglia – perché quasi sempre ce n’è uno – è che questo grande spazio assente diventa un punto di raccolta naturale durante le manifestazioni: la superficie è ampia, non ci sono ostacoli, stazione ed autostazione sono vicine così come il centro città. Allora ogni tanto accade che un’eruzione di vita, di voglia e di bellezza si riversi nella piazza, che in queste occasioni diventa il luogo perfetto in cui piazzare sound system a riempire il vuoto con vibrazioni possenti e corpi in contagioso movimento. Per questo Piazza Otto Agosto potrebbe rientrare benissimo negli scorci evocati dalla musica di The Bug, soprattutto nella recente incarnazione di Fire: entrambe entità percorse da un diffuso senso di doom e luoghi in cui la paranoia delle costruzioni scure può essere sconquassata dalla forza del beat. Le molte voci delle e degli MC che aleggiano nei brani del disco testimoniano la forza della moltitudine, tra parole al confine del ruggito e muri di elettronica rovinata che rimbombano di presagi. Il magma grime-bass-industrial modellato da Kevin Martin è opprimente, ma più i blocchi scuri pesano sulla percezione, più potente diventa l’energia che viene rilasciata quando si aprono le crepe. Vale per questa musica, vale per la consuetudine triste di una piazza.
Royal Ontario Museum, Toronto – Atari Teenage Riot, 1995 (Alternation, 1995)
Come ti viene in mente? È una domanda che viene spontaneo farsi di fronte a cose, situazioni, gesti che evadono le nostre concatenazioni logiche e che pure ci ritroviamo davanti, come uno sberleffo alle sinapsi. Si tratta della seconda domanda che mi è saltata in testa quando ho visto le foto della facciata del Royal Ontario Museum, visto che la prima è stata: ma è reale? Poco dopo, stagliandosi come un’insegna al neon, si è presentato l’imperativo DESTROY 2000 YEARS OF CULTURE, che è il titolo di un pezzo degli Atari Teenage Riot. Una dichiarazione d’intenti che per gli ATM ha trovato la sua praxis più bruciante in un album pubblicato quando quel pezzo ancora formalmente non esisteva, questo 1995 con una mitraglia in copertina e un arsenale infinito di vetriolo in scaletta. Come è venuto in mente a questo manipolo di ventenni di degradare le parti più allucinate del carburante da rave in un assalto di frequenze a bassa fedeltà, usare riff di chitarra come chiamata alle armi in un tritatutto continuo di ritmo senza pace, disseminare lo sfacelo della danza con un mantra di slogan urlati? La cosa importante è che lo hanno fatto, e ora ci ritroviamo questa bomba a mano di breakbeatjunglenoisepunk (digital hardcore, in confidenza) che non ha altro scopo e potere se non quello di far deflagrare tutto ciò che si para dinanzi, spingendoci a ballare furiosamente mentre buttiamo giù qualcosa. Non c’è un’ideologia politica strutturata dietro gli inviti alla ribellione di 1995, perché tutto ciò che ha struttura è a sua volta meritevole di distruzione. C’è solo una volontà feroce di sovversione: intanto radiamo al suolo le costruzioni e i costrutti, poi vediamo cosa si può seminare. Quando guardo il Royal Ontario Museum immagino la parte moderna (chiamata The Crystal) sorgere all’improvviso come un lampo di vetro e metallo, una versione tecnologizzata del fulmine dei Bad Brains, per liberare la propria potenza travolgendo l’edificio di un secolo fa e le sue forme così ordinate, massicce, immutabili. Avviene tutto in pochi secondi: un fendente tremendo e del vecchio palazzo non rimane che un cumulo di mattoni e polvere. La forza distruttrice sparisce in baleno di luce argentea, lasciando dietro di sé un’idea di ricostruzione e le scudisciate a tutto volume di Speed. Ok, si tratta pur sempre di un museo, anche qui si va per ammirare le ossa dei dinosauri; ma bisogna ogni tanto prendersi una pausa dalla razionalità, come sa bene chi si lancia nel pogo. Who dies next?
Gli edifici vibrano continuamente e quindi suonano continuamente; lungo pareti e fondamenta cantano rumori nascosti. Se appoggiate l’orecchio a un muro, sentirete la voce della città, del vento, o di persone ignote. Oppure potete provare anche voi a passare con gli occhi sulle scanalature tra i mattoni e sulle superfici ostinate, come se fossero solchi di un vinile; chissà che musica risuonerà allora tra i vostri pensieri.