AROOJ AFTAB – NIGHT REIGN
Quando nel 2021 era uscito Vulture Prince, quasi nessuno sapeva chi fosse Arooj Aftab. I suoi due precedenti dischi, Bird Under Water e Siren Islands, avevano ricevuto un’attenzione pressoché nulla dalla stampa e dal pubblico; ed effettivamente, ad oggi non li ho ascoltati manco io. Vulture Prince, però, era stato una rivelazione: un mix fresco e sensuale della musica tradizionale pakistana, che veniva preziosamente ingioiellata da scelte che facevano pendere i brani ora verso un pop d’ambiente, ora verso il jazz, ora verso il reggae. L’ensemble dietro ad Aftab riusciva perfettamente a captare quel mélange di sentimenti e umori che ben si accompagnano a una voce come la sua, capace di cantare quella indefinibile sensazione – chiamatela longing o saudade – che accompagnava l’intero disco. Dopo l’altrettanto ottimo Love in Exile, di cui ho già parlato qui, nessuno si aspettava che Aftab uscisse con un disco anche quest’anno: e, lo confesso, avevo timore che questo nuovo album non fosse all’altezza di quella vetta che era stato Vulture Prince. Night Reign, in effetti, non si fa problemi a giocare le stesse carte che Aftab aveva già nella manica nel suo precedente sforzo solista: ci sono sempre le inflessioni jazzistiche del suo timbro vellutato, insiemi di suoni soffusi che contribuiscono a creare un’atmosfera fumosa e seducente. Le similitudini, però, finiscono qui. Questo perché Night Reign si muove in una direzione che suona come molto più acuminata e meno accogliente di Vulture Prince, una volta che si sono sviscerate le sue tracce: gli arrangiamenti, nonostante il minimalismo che la stessa Aftab confessa di avere sempre al centro delle proprie attenzioni durante il processo compositivo, si sono fatti più coraggiosi e diversificati. È encomiabile la scelta di proporre, ad esempio, una versione di Autumn Leaves completamente spoglia di qualsiasi strumento ad eccezion fatta delle percussioni, di qualche delicato pizzicato elettronico e del contrabbasso nello sviluppo del suo tema: nonostante sia una scelta divisiva che magari farà storcere il naso a più di un appassionato, la voce di Aftab in questo pezzo è più dolce e malinconica che mai e riesce da sola a trasportare il brano verso la sua conclusione, dove viene sostituita nella sua coda da uno strepitoso assolo di James Francies al piano elettrico che apre le possibilità armoniche dello standard come un fiore che sboccia nell’ora più profonda della notte.
Questa sensazione di un continuo florilegio è un tema costante di Night Reign, che si diverte ad aggiungere un dettaglio dopo l’altro fino a trasfigurare completamente la natura del brano in oggetto: è una regola che vale tanto per l’opener Aey Nehin, dove al dialogo tra arpa e chitarra elettrica viene lentamente aggiunta una percussione in odor di bossa nova che rovescia completamente l’apparato ritmico della composizione, come anche per l’ultima traccia, Zameen, dove l’intento intimista è rafforzato dall’apparire di una sezione d’archi quasi reticente a voler prendere il proprio posto nello spazio sonoro del brano, tanto appassionato sembra essere l’afflato di Aftab. E che dire di Whiskey, un brano struggente che riecheggia delle stesse emozioni di gente che in teoria sarebbe completamente aliena alle influenze della cantante pakistana, come Cat Power o gli Slowdive più depressi?
L’aspetto più interessante di Night Reign è, però, il modo in cui sembra essere stata trasfigurata la saudade di cui parlavo prima: se avete presente Vulture Prince, e ricordate l’incedere dub di Last Night e la sua declamazione delle poesie di Rumi, rimarrete stupiti da come la Reprise del brano su questo disco abbia ora un passo molto più minaccioso. La maniera in cui il contrabbasso dipinge una figura più aggressiva, simile al morso di un’amante che, per quanto tenero, conserva sempre con sé una carica di sadismo, viene solo leggermente smussata dall’inserimento degli altri strumenti – tra cui un wurlitzer suonato da Elvis Costello. Lo stesso vale per l’impasto paludoso di Bolo Na, dove ancora una volta è il contrabbasso a fare la parte del leone; altrettanto sorprendente è in questo brano l’inserimento di Moor Mother che, col suo intreccio astratto di parole e silenzi, riesce a smuovere le coordinate del pezzo senza togliere la parte di protagonista alla voce di Aftab, creando invece un arazzo di stimoli che occupano l’intero spazio sonoro in maniera estaticamente disorientante.
Night Reign forse non ha la stessa carica esplosiva di novità che circondava Vulture Prince, e il suo tono è a prima vista più monocorde. D’altronde, non c’è dubbio che Aftab sia in grado di pensare la propria voce in contesti differenti da quelli a cui ci ha abituato, e sarebbe un peccato tentare una nuova direzione quando l’idea alla base della musica di Arooj Aftab sembra essere ancora rigogliosa di idee così floride. Le canzoni d’amore del disco vivono in funzione della loro seduzione disperata: la cantante ha ammesso che alcune delle composizioni sono rimaste tra i suoi appunti per più di dieci anni, trasformandosi da piccole confessioni diaristiche di un’infatuazione tra adolescenti a meditazioni sull’importanza e la diversità delle forme di amore. Così l’amore perduto che continua a bruciare nella carne, il tema principe di una tradizione millenaria del mondo arabo come la qaṣīda, è messo ancora una volta sul piedistallo, unico centro tonale di un disco che rifugge costantemente l’idea di imporre un singolo elemento come protagonista. L’effetto è lo stesso di un vino corposo che, al primo sorso, stordisce i sensi per il modo in cui vuole cercare di riunire talmente tanti sapori in un singolo calice. Serve degustarlo piano per scoprirne le note più delicate, per apprezzarne le sfumature: e quando arriverete alla fine della bottiglia, rimpiangerete che sia finita così presto.