“Nei testi brevi come in ogni episodio dei romanzi di Gadda, ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite.”
Italo Calvino, “Lezioni Americane”
Sulla copertina di Tropicália ou panis et circencis, disco-manifesto che racchiude la summa della scena musicale tardo-sessantiana verdeoro, succede di tutto. Lo scatto, realizzato frettolosamente in casa del fotografo Olivier Perroy, riprende senza una particolare coerenza la grande famiglia di artisti dissidenti partecipanti al disco: José Carlos Capinam e Nara Leão quel giorno non erano potuti essere presenti, dunque Gilberto Gil e Caetano Veloso reggono in posa i loro ritratti; Tom Zé, sullo sfondo a fianco agli Os Mutantes, impugna una valigia vestito con abiti che erano stati rimediati sul momento; nella fila davanti a lui, Gal Costa e Torquato Neto siedono amabilmente, il basco di lui e il vestito di lei che non sfigurerebbero nella Parigi dei situazionisti o nella Swingin’ London, i places to be dell’epoca. Eppure, questi pesi massimi non sono il centro del nostro racconto: ciò che attira il nostro sguardo è l’ultima figura che appare in copertina. Camicia, maglioncino, postura nobile, occhiali, baffetto e capelli brillantinati a regola d’arte: l’omino sembra una nota dissonante nel tripudio di colori e capigliature stravaganti di Tropicália. L’enorme pitale retto come una tazza da tè, tuttavia, lascia intendere un velo di follia che lo lega a doppio filo con tutti i protagonisti storici della Música popular brasileira.
Rogério Duprat, questo il nome dell’uomo col pitale, nasce a Rio de Janeiro nel 1932: durante l’infanzia si dedica allo studio della chitarra classica, del cavaquinho (una sorta di ukulele brasiliano) e dell’armonica a bocca, ma abbandona rapidamente lo studio di questi strumenti per dedicarsi invece alla musica classica. Rimane folgorato, all’inizio degli anni ’60, dalle nuove possibilità dell’elettronica e del serialismo e vola in Germania per prendere lezioni da nientemeno che Karlheinz Stockhausen e Pierre Boulez. Quando nel ’63 torna in terra verdeoro, febbricitante dopo le esperienze europee che l’hanno sconvolto, firma assieme al fratello e altre personalità della musica accademica brasiliana il Manifesto della Música nova, che propone un distacco dall’idealismo romantico d’anteguerra a favore di un realismo che si avvalga, nella composizione, dei nuovi sistemi linguistici forniti dai media di comunicazione di massa: già solo in un esperimento formale come Antinomies I, tra i suoi sibili elettrici e le sue giostre di percussioni, viene tradito l’ascendente che studi rivoluzionari come Kontakte e Fontana Mix avevano avuto sulla mente del giovane Duprat. Tuttavia, le intenzioni rivoluzionarie sono ancora troppo legate a circoli di intellighenzia che impediscono al gruppo di firmatari di Música nova di raggiungere ampi palcoscenici in Brasile. Ed è a questo punto che la carriera del Nostro prende una svolta improvvisa: nel 1968 esce A banda tropicalista do Duprat.
Um – A banda tropicalista do Duprat
Sarebbe particolarmente revisionista definire A banda tropicalista do Duprat un disco fondamentale nell’evoluzione della musica brasiliana, o anche solo un episodio fortunato. A banda, infatti, è perlopiù un disco assolutamente dimenticabile: in poco più di mezz’ora sono davvero pochi i momenti in cui si ha l’impressione di assistere alla nascita formale di quello che è senza dubbio il più importante movimento musicale del Sudamerica contemporaneo. Il primo album di Duprat è una collezione di canzonette che riportano alla mente le esperienze più beceramente commerciali di Sergio Mendes, sfondando più volte il confine con la musica da ascensore: basti ascoltare Judy in Disquise, la traccia d’apertura del disco, con i suoi ottoni gioiosi e l’orchestra di archi smielati. Eppure, iniziano a trasparire piccoli corpuscoli di innovazione, gocce di rugiada che bagnano un arbusto apparentemente secco: sempre su Judy in Disquise si sentono a un tratto dei clacson d’auto, dichiarata intuizione rubata alla musique concrète di Schaefer. Sebbene subiscano il goffo trattamento easy listening che pervade l’intero LP, le due canzoni dei Beatles incluse in A banda (tra l’altro non scontate: Flying e Lady Madonna) suonano come un tentativo di inserirsi a metà, per fare un doppio paragone col nostro Bel Paese, tra il rimescolamento facilone dei gruppi beat del periodo e gli esperimenti cerebrali di Luciano Berio nella trasfigurazione del popolare nel colto e viceversa (questa compenetrazione era infatti uno degli obiettivi dichiarati del gruppo dei Música nova). In ultimo, l’inclusione di un emergente trio di cantanti pop in quattro numeri del disco sembra voler confermare l’intenzione di voler conquistare spietatamente le frequenze radiofoniche. Il problema, o forse la benedizione che Duprat riceve senza forse rendersene conto, è quello di aver assoldato gli Os Mutantes per cantare la sua personale collezione di hit. Il passo per sconfinare nell’alterità, da lì, è particolarmente breve.
Sì, certo, i Mutantes erano stati un’ottima intuizione che aveva speziato quello che sarebbe altrimenti stato un disco abbastanza blando. Tuttavia, A banda tropicalista aveva già al suo interno quello che, con un po’ di immaginazione, può essere considerato uno degli “standard” della Tropicália di là da venire: si tratta di Baby, che in poco meno di tre minuti racchiude quelle che sono le cifre stilistiche dell’estetica di quegli anni. Baby non è un pezzo esagerato o fuori dagli schemi, anzi: si tratta di un midtempo rilassato, con una sezione di archi particolarmente ispirata e che, con il suo testo apparentemente gigione, dichiara invece una smodata voglia di libertà e di superamento del confine, sia esso linguistico o affettivo. Il parallelo con il Brasile schiacciato dalla dittatura militare e il mondo occidentale sempre più liberato si fa evidente nel fatto che l’altro amante, il dedicatario di Baby, voglia imparare a parlare inglese: il cantante si propone come voce del nuovo, della compenetrazione globale e dell’indipendenza identitaria e collettiva.
Dois – Gilberto Gil e Caetano Veloso
A questo punto è opportuno introdurre quelli che sono con tutta probabilità i due pesi massimi del movimento tropicalista: le storie di Caetano Veloso e Gilberto Gil, infatti, si intrecciano con quella di Duprat in un sodalizio fortunato tra intuizioni artistiche d’avanguardia e vicissitudini politiche. Nel gennaio del 1967 l’iper-autoritario governo brasiliano approva l’ordine denominato A-I5, che di fatto bandisce qualsiasi tipo di espressione politica in pubblico. Veloso e Gil, che sono a tutti gli effetti il volto della new thing brasiliana, sono costretti rapidamente all’esilio a Londra in seguito a espressioni di dissenso che si fanno via via più oltraggiose agli occhi degli ufficiali governativi: nel caso di Gil, la fortuna è quella di riuscire a registrare un eponimo disco con Duprat in cabina di regia prima di fuggire.
Gilberto Gil presenta in copertina il cantante di Salvador de Bahia vestito in una divisa che non sfigurerebbe tra quelle delle rappresentazioni di Simon Bolivar, per stringere un paragone con un’altra importantissima figura nella lotta latino-americana verso la libertà: il comparto musicale è spartito con i soliti Mutantes, prendendo in prestito brani che erano già apparsi su A banda tropicalista. La differenza con Louvação, il disco di debutto di Gil che era stato registrato poco più un anno prima, è sconcertante: spariscono gli scenari rilassati del samba e la strumentazione timida della bossa classica, e al loro posto esplodono florilegi orchestrali come Coragem pra suportar, Domingo no parque e Procissão. Proprio quest’ultima traccia rappresenta al meglio l’importanza dell’apporto di Duprat nella composizione e nell’arrangiamento del suono tropicale: una versione dello stesso brano esiste infatti anche sul già citato Louvação, ma le due registrazioni sono completamente diverse. L’elemento portante che che salta immediatamente all’orecchio della nuova versione è naturalmente l’impronta degli onnipresenti Mutantes, che forniscono degli interventi di chitarra filtrata da un fuzz che non sfigurerebbe in un disco degli Spiders e una batteria che dona al brano un passo molto differente e lontano da quei sottotesti spiritual-religiosi che Gil sembrava voler dare alla propria interpretazione, complice soprattutto l’utilizzo del coro in maniera non proprio invitante nella registrazione del 1967.
Se Procissão è un testamento delle intuizioni da catalizzatore dello zeitgeist di Duprat, è la collaborazione con Caetano Veloso a proiettarlo verso quella condizione di “maestro” che lo renderà una figura imprescindibile di tutto il movimento tropicalista. Abbiamo detto poco sopra dell’ordine A-I5: se a Gilberto Gil le cose vanno tutto sommato bene, visto che riesce a pubblicare un altro disco (anche questo eponimo) nel 1969 prima di fuggire in esilio verso l’Inghilterra, per Veloso la situazione sembra prendere una piega estremamente più drammatica. Le esibizioni dopo l’uscita del suo primo disco nel 1968 (manco a dirlo, eponimo anche questo) vengono segnalate alle autorità che reputano “osceno” il comportamento del cantautore di Bahia, che urla, si agita e si sveste sul palco, emulo di quegli stunt al limite del pornografico che avevano già santificato Jim Morrison sulla West Coast un anno prima. Veloso è rapidamente sbattuto in galera assieme a Gil (che però viene liberato, e non ci pensa due volte prima di scappare dal Brasile) mentre sta scrivendo il suo nuovo disco, Caetano Veloso (soprannominato Álbum branco per via della copertina minimale con la sola firma dell’artista sul fronte dell’LP).A questo punto Veloso può solo registrare le parti di chitarra acustica e voce grazie a un piccolo studio di fortuna organizzato durante la prigionia: i nastri, tramite intercessione dell’amica Gal Costa, sono inviati a Duprat, a cui è quindi de facto affidato il pieno controllo creativo del sound dell’album. L’architetto della Tropicália propone quindi, alla sua uscita, un prodotto che è totalmente estraneo all’idea primigenia di Veloso, ancora in galera; eppure, la linea di continuità con il lavoro dell’artista è ben riconoscibile e definita. Irene, che apre il disco, è ad esempio una dolce ballata sulla quale gli interventi elettrici della band assoldata da Duprat intervengono puntillisticamente: la nenia cantata da Veloso per la sorella, cercando di restare cosciente durante la prigionia, assume un senso straniante tra false partenze, stop improvvisi e figure orchestrali incomplete che ben riflettono la situazione dell’epoca del cantautore. Altri brani come The Empty Boat, Os argonautas o Carolina invece tracciano coordinate molto più affini a concetti da outsider, in cui le chitarre scorrazzano qua e là per i brani mentre la voce di Veloso si perde, si trasforma, assume dimensioni fino ad allora sconosciute. Acrilírico, invece, è a tutti gli effetti un UFO vero e proprio rispetto alla condizione musicale standard del Brasile del 1969: le manipolazioni dei nastri si accavallano tra di loro creando un effetto spiazzante in mezzo a un disco così smaccatamente pop, un chiaro omaggio di Duprat alla Revolution 9 beatlesiana, un momento che riesce a spostare il focus del disco a milioni di chilometri dalla presenza titanica di Veloso. Concludere il disco con il battito quasi proto-kraut di Alfômega, un numero in cui Veloso è relegato al ruolo di chitarrista per lasciare all’onnipresente Gilberto Gil le parti vocali, è una dichiarazione di forza: la parte di Duprat nell’organizzare e donare senso e coesione a un album è tanto importante quanto il contributo degli artisti che vi suonano.
Três – Os Mutantes
I Mutantes sono, come si è potuto intuire, tre schegge impazzite. Il gruppo, formato dai due fratelli Arnaldo e Sérgio Baptista e da Rita Lee, aveva presenziato come backing band a quei concerti che avevano poi condannato Gilberto Gil e Caetano Veloso all’esilio. Bulimici fagocitatori di musica anglofona, si ispiravano chiaramente a Sly & The Family Stone, Hendrix e i Beatles, con tutto l’assortimento di psicotropi che ne derivavano; e, soprattutto, erano buonissimi amici di Rogério Duprat. Il nostro architetto è infatti più che ben disposto a prestare le sue capacità di arrangiatore al gruppo che l’ha potenzialmente salvato dall’oblio della Storia e compare tra i credits di quelli che sono senza alcun dubbio i dischi più importanti del gruppo: Os Mutantes, Mutantes e A Divina Comédia ou Ando Meio Desligado.
Concentriamoci per un istante sul primo di questi tre: Os Mutantes è un disco che potrebbe andare in mille direzioni. Ci sono i momenti cavernosi di O rélogio, la nuvola a metà tra il barocco e la chanson di Le premier bonheur du jour, la filastrocca di Tempo no tempo… E poi c’è di nuovo Baby. Ancora una volta, Duprat scompiglia le carte in tavola: adesso la parte del leone è affidata a un organo Hammond, con la chitarra elettrica che miagola soffusamente a inframezzare la voce di Arnaldo Baptista (e un meraviglioso SLURP! infilato nella seconda strofa senza alcun motivo apparente). Baby pare quasi trasformarsi in un bolero, un trotto storto di una chitarra che sembra stata attaccata male all’amplificatore, prima di riesplodere nel ritornello piacione a sfumare del finale. Ma il vero highlight di Os Mutantes è il pezzo che rappresenta al meglio la sconsiderata voglia di fare quel che si vuole, la possibilità di vedere il Brasile come un nuovo crogiolo di possibilità: stiamo parlando, chiaramente, di Bat Macumba. Percussioni locali, chitarre che tremano, un testo che più scemo non si può: ripetere soltanto “Bat Macumba-é-é, Bat Macumba-o-ba” togliendo una sillaba ogni volta, e quando si ha finito si riparte. È un girotondo psichedelico inspiegabile, indescrivibile, interminabile: e rappresenta tutto quello che voleva essere Tropicália nel suo fare dadaista di spiegare tutto senza dire nulla.
Mutantes, pubblicato l’anno dopo, mira ancora più in alto fin dal primo momento: una registrazione dell’Aida di Verdi distorta dalla manipolazione dei nastri, un sospiro sensuale di Rita Lee, e poi una composizione che si alterna bipolarmente tra strofe di chiara ispirazione bachiana e esplosioni psichedeliche, sequenze di accordi progressive e trombette da clown. Mutantes continua tra numeri che potrebbero uscire da un cartone animato (Não vá se perder por aí), citazioni ai Rolling Stones (Mágica) e una cover allucinata di Mina (Banho de Lua) che scopre alcuni dei fili nascosti che contraddistinguono il rapporto da sempre amichevole tra il nostro Paese e la terra del samba (siamo pur sempre la nazione che ha ospitato Chico Buarque quando anche lui dovette esiliare). Nel frattempo, sullo sfondo si affacciano tastiere, theremin, nastri interpolati, trasmissioni radio, violini sghembi… Tutte intuizioni di Duprat, che ha trovato la quadra di un sound che oramai ha infettato il subcontinente brasiliano, ma di cui sembra essere l’unico maestro.
La tripletta dei Mutantes si conclude con A Divina Comédia. Ovviamente l’album non c’entra nulla con Dante (per fortuna), e il sound del gruppo è oramai così affermato e ben costruito che è sufficiente apportare piccoli ritocchi per creare un altro disco solidissimo, in cui sembra di rintracciare anche dei prodromi del funk intergalattico dei Gong (Quem tem medo de brincar de amor) ed esasperazioni psichedeliche (come in Ave, Lúcifer o in Desculpe, babe), rallentamenti doo-wop che non sfigurerebbero nel catalogo dei Mothers of Invention (Hey Boy) fino a quel mostro indescrivibile al sapor di Nina Simone che è Meu refrigerador não funciona. Ma l’operato di Duprat ha già lasciato un solco indelebile.
Quatro – …Ou panis et circencis
Ma dove andare a parare per chiudere un discorso simile? Bisognerebbe ancora parlare delle collaborazioni con Gal Costa, del tentativo di replicare il salto quantico riuscito con Gil e Veloso nel disco del 1969 di Jorge Ben, della raccolta Ou panis et circencis… Ma si tratterebbe di voler reiterare quello che è stato già detto in questo articolo: Duprat ha oramai le mani in pasta dappertutto, conosce e lavora per l’Olimpo della musica brasiliana e non viene ostacolato dal regime perché lui, ufficialmente, si occupa solamente di curare la produzione strumentale dei dischi. In Acrilírico, sempre sull’album bianco di Caetano Veloso, si dice che uno dei found sound utilizzati sia la voce dell’architetto della MPB che dice “pum!”: un’espressione infantile, un’esplosione che incapsula ancora una volta in maniera pregnante il suono che ha ideato, costruito e propagandato contro quella che è stata una delle dittature più cruente e repressive della storia sudamericana.
Dove andare, quindi? Duprat si cimenta ancora, dopo il 1969, con la produzione di altri album di giganti di Rio e Bahia: sua è la scelta minimalista e impressionista della strumentazione di Dez anos depois di Nara Leão; suo è il contribuito che permette a Chico Buarque di mettere assieme la title-track di Construçao; si spinge persino a condurre, in maniera assurda e totalmente coerente col proprio personaggio, la Caribe Steel Band nell’ultimo pezzo del disco Carlos, Erasmo… di Erasmo Carlos. Il pezzo in questione si chiama Maria Joana e potete immaginarne l’andazzo.
La maggior parte dei critici dipinge l’ultimo grande lavoro di Duprat come la produzione, ancora una volta, dei Mutantes. O meglio, di Arnaldo Baptista da solista: il suo Loki?, però, è un disco che oggi sembra invecchiato molto peggio del precedente operato del gruppo, con fascinazioni ancora intrappolate a metà tra la psichedelia sessantiana e qualche timida suggestione di glam à la David Bowie. Troppo poco, per un album del 1974: e sicuramente non adatto per fornire una chiusura poetica a questo pezzo. Allo stesso modo, non lo sono gli album minori alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta (una collaborazione con Toquinho, poca roba), come non lo è il graduale ritiro alla vita privata e la morte, serena, in vecchiaia. Dov’è l’esplosione carioca? Perché questo fade-out?
A me, personalmente, piace pensare che l’ultima cosa veramente importante che Rogério Duprat abbia fatto avvenga un anno prima, nel 1973, e in un ruolo che non gli appartiene per come lo abbiamo imparato a conoscere in questo piccolo percorso di qualche anno. In Todos os olhos di Tom Zé, il freak per eccellenza della MPB, c’è un pezzo che si chiama Dodô e Zezé. Si tratta anche qui di poco più che una filastrocca: uno sfaldamento del senso lirico che si contrappone a una vertiginosa accelerazione di ritmo delle acustiche e del cavaquinho, che qui è proprio suonato da Duprat. Lo strumento che era stato il primo contatto con il mondo della musica popolare brasiliana ritorna, in maniera completamente spiazzante, nelle mani dell’uomo che ha contribuito a trasformare per sempre il suono della sua nazione; e per giunta, in un disco in cui Tom Zé vuole espressamente utilizzare gli strumenti di quella stessa grande tradizione (come le percussioni e le chitarre) per destrutturare e ribaltare ancora una volta il senso nazionalista dell’identità. La meravigliosa inclusione di Duprat, specialmente nell’inedito ruolo di musicista, era la scelta più assurdamente naturale che si potesse fare.