ANTON FRIISGAARD – TERATAI ÅKANDE
Nel gamelan ci cascano un po’ tutti, se per “tutti” intendiamo quel gruppetto di scoppiati che alla musica ci è arrivato anche attraversando vie poco ortodosse – la fascinazione per le campane già in tenera età, l’eterno cliché del canto degli uccellini, la lista va avanti. Qui in redazione non facciamo eccezione e infatti di gamelan parliamo spesso, tentando di farlo il meno a sproposito possibile per evitare di scivolare nell’archetipo odioso dell’esotismo, o peggio, della new age per fricchettoni del terzo millennio (fritti da capitalismi alternativi). Parlare di “quarto mondo” in musica equivale infatti a mettere in conto certi rischi e banalizzazioni che hanno già dato fin troppo fastidio, ma Anton Friisgaard sembra riuscito a non cadere in questa insidiosa trappola.
Abbiamo imparato a conoscere meglio solo in quest’ultimo mese il musicista danese, dal 2020 in movimento sulle coordinate di quell’ambient “sporcato” da artefatti analogici e trattamenti elettroacustici, tendente a ricordare mostri sacri come Fennesz, William Basinski o Tim Hecker. Sempre in questo filone rientrano gli ultimi suoi lavori sotto l’alias Hviledag e il disco pubblicato a suo nome nell’aprile di quest’anno (Minor Blossoms), musica rifinita e cesellata, ma sempre troppo tenue e contenuta. Sorprendentemente, Teratai Åkande spariglia le carte. Il disco è uscito questo agosto, ma vanta una genesi ben più articolata, germogliata il 5 luglio 2018: in una Roskilde affollata e in fermento per il Roskilde Festival (uno di quegli eventi gargantueschi che vedono Eminem e Ben Frost suonare nella stessa rassegna), Friisgaard è nel pubblico ad assistere all’esibizione dei Gamelan Salukat. L’ascolto lo folgora, o quanto meno lo ispira al punto da gettare il cuore oltre l’ostacolo e contattare Dewa Alit, compositore dietro al repertorio del complesso.
Facendo un rapido riassunto, Alit e i Gamelan Salukat sono al momento tra le voci più interessanti del panorama musicale indonesiano. L’ensemble è ormai da anni impegnato nell’espandere confini e strutture del gamelan balinese, passando dalla contaminazione con elementi di classica occidentale allo sfruttamento di scale e temperamenti al di fuori della tradizionale dicotomia slendro/pelog. Possiamo quindi solo immaginare l’elettricità nelle tempie del danese quando come risposta arriva un invito per incontrarsi a Ubud, centro nevralgico di arte e artigianato, templi e santuari soffocati dal verde umidissimo delle foreste tropicali; è qui che Friisgaard verrà accolto nel “giardino paradisiaco” di Dewa Alit, registrando, componendo e improvvisando con “rinomati artisti della scena gamelan di Ubud” (ci fidiamo del suo Bandcamp). Questo prezioso materiale rimarrà a sobbollire lentamente per sei anni, a più di 11.000 chilometri di distanza, nella umida ma tutt’altro che tropicale Copenhagen, manipolato, diluito, segmentato.
La musica di Teratai Åkande (“ninfea”, prima in lingua balinese e poi in danese) viene così alla luce – otto brani, quarantuno minuti, tanti musicisti a contorno. Nel complesso il disco è inquadrabile nell’eredità pesante di Jon Hassell, sebbene di tanto in tanto venga inevitabilmente in mente la Wendy Carlos di Beauty in the Beast; tuttavia, l’imprinting elettroacustico del danese aggiunge a queste suggestioni le timbriche aliene di figure come Hitoshi Kojo, o dell’Henri Pousseur di Paysages Planétaires. Non si può dire che tutto questo sia un fulmine a ciel sereno visto il recente rispolvero di queste estetiche da parte di artisti come Will Guthrie, o di etichette come la balinese Islands of the Gods, ma ciononostante il disco riesce a fare abbastanza per farsi notare, e all’occorrenza sorprendere.
Chiunque abbia familiarità con le numerosissime forme di gamelan balinese avrà ben presente quanto spesso queste amino spingere all’estremo l’intensità della componente ritmica: se per la controparte giavanese quest’ultima è gestione del grande mandala colotomico del gendhing, sottile complessità, delicata eleganza, in questa piccola isola a oriente abbiamo il gamelan gong kebyar e il gamelan beleganjur, in cui fanno da padrone continui cambi di tempo e di dinamica, caos esplosivo, frenesia. Teratai Åkande evade da tutto questo cercando una terza via tra la (banale) dilatazione ambient e la vitalità della musica da cui la sua gamma sonora pesca, seguendo due filoni distinti – uno “percussivo”, a giocare sull’intreccio dei metallofoni, uno “disadorno”, che rinuncia totalmente al ritmo preferendogli esplorazioni microtonali sopra inquieti tappeti di suling.
La gestione timbrica è quindi comprensibilmente al centro del lavoro, e il risultato raggiunge vette notevoli già in apertura, con Syrati che subito procede a lasciarci ammirati di fronte ai suoi cambi di tempo e ai lamenti dei flauti, persi nel riverbero di spazi poco delineabili. Il talento di Friisgaard come sound designer viene poi fuori in molte occasioni, come nei silenzi evanescenti di Havun, nella decostruzione percussiva del finale di Cemille (Gift of Fire di Hassell è qui presentissima), o nell’incalzare di Kampaka (una drum & bass trasfigurata e tremendamente organica); nel mentre, la lussureggiante Ubud è sempre percepibile in forma sonora, sbucando specialmente nella solennità di Erantai e nei field recordings di Lavitir. Arriva infine l’inquietudine di Kunyikke, solo un passaggio atto a risaltare l’incedere toccante e spiccatamente minimalista di Solesia, che strategicamente chiude il disco lasciandomi un bel sorriso sulle labbra. L’equilibrio bilanciato di queste tracce colpisce, ogni elemento sembra calcolato evitando il baratro della new age in una sospensione fragile ma efficace, valorizzando la somma delle parti.
Insomma, tutto bello, ma…? Teratai Åkande non è purtroppo esente da difetti, e il primo di questi è uno dei talloni d’Achille di tanti musicisti ambient: l’impianto strutturale dei pezzi spesso lascia a desiderare, con episodi a volte evanescenti (Lavitir), a volte affidati a crescendo additivi poco fantasiosi (Cemille, Solesia). Le potenzialità per la grande opera ci sono tutte, eppure Friisgaard sembra sovente frenarsi – perché Kampaka non esplode? Perché Kunyikke sembra la pallida copia di Havun? Interrogativi che lasciano un po’ di amaro in bocca, e che fanno intravedere come ciò che manchi a questo lavoro sia il lasciare crescere i suoi brani portandoli un po’ per mano, evitando quella spiacevole sensazione di inconcludenza. Tutto questo non cancella comunque quanto di buono questo album costruisca, poiché ben sappiamo che questi sincretismi sono crisalidi delicate, facili da rompere, e quindi da maneggiare con cura. Teratai Åkande è un caleidoscopio vivo, formicolante, da inserire nei radar del vostro 2024. Allo stesso modo, tenete d’occhio Anton Friisgaard: nessuno attraversa la giungla senza lasciare segni.