LYNN AVERY & COLE PULICE – TO LIVE & DIE IN SPACE & TIME
Ovviamente non potevo crederci. Mi sembrava impossibile che, alla fine dell’anno scorso, qualcuno potesse ancora parlarne: eppure Promises, il disco nato dalla collaborazione tra Sam Shepherd (meglio noto come Floating Points) e Pharoah Sanders (meglio noto come Dio sceso in terra sotto forma di sassofonista), alla fine del 2021 era comparso in praticamente tutte le classifiche dei dischi che contano, da Pitchfork al Guardian passando per varie testate di casa nostra. Non riuscivo a spiegarmi il perché di una scelta simile: potevo essere stato io l’unico a non aver capito un album del genere? D’altronde, ero stato delusissimo quando lo avevo messo su: era sparita completamente l’attitudine dancey e da dancefloor di Floating Points, sostituita da una nenia post-minimalista modulata all’infinito; si era vaporizzato il sacro terrore che incuteva Sanders ogni volta che si lanciava in un assolo, rimpiazzato da una performance austera e sommessa. Quei pochi che mi conoscono e con cui ho parlato di questo disco sanno bene che l’ho descritto come “un album dove le parti migliori sono quelle dove suona il terzo incomodo”, cioè la London Symphony Orchestra: insomma un fallimento epocale, una Caporetto di quello che speravo potesse essere un lavoro che dalla copertina sembrava voler dissezionare Free Jazz di Ornette Coleman col bisturi affilato del neurochirurgo della IDM contemporanea.
Questa premessa potrebbe sembrarvi leggermente acidula; d’altronde si tratta solamente di un disco, e sarebbe facile bollarlo come un inciampo nel percorso di due grandi artisti e dimenticarsene lì. E tuttavia… Promises non riesce a lasciare i miei pensieri perché temo abbia riesumato dalle tenebre un mostro che era rimasto ai bordi di ogni scena rispettabile e di cui non riusciremo presto a liberarci: quello dell’ambient jazz. Voi mi direte, “ma dai, come se non mettessi a palla Jon Hassell una volta sì e l’altra pure”: e avreste anche ragione. Ma io non sono qui per parlarvi di Vernal Equinox o di The Pavilion of Dreams, e nemmeno di Promises. Ciò di cui voglio parlarvi sono un disco bruttino (uscito l’anno scorso) e un disco davvero brutto (uscito quest’anno).
Space 1.8 di Nala Sinephro è il primo elemento di questo piccolo dittico: polistrumentista al debutto con la Warp, Sinephro in realtà è quella che si avvicina di più al modo in cui pensavo suonasse Promises prima che lo ascoltassi. Questo perché, legato in maniera forse un po’ raffazzonata, il bandolo della matassa degli otto movimenti senza nome si dipana in labirinti ipnotici di elettronica, arpe trattate che chiunque ha fatto risalire all’ascendente della Alice Coltrane nel periodo mistico nel suo ashram, e nel frattempo innesta al di sopra di questi elementi un sassofono (suonato da Nubya Garcia) che haanche il permesso di smattare allegramente (vedasi Space 6) ma senza mai perdere troppo la bussola. Almeno, fino all’ultimo brano: 17 minuti in cui tutte le buone idee del resto del disco vengono gettate fuori dalla finestra in favore di quelle sonorità letargiche che contraddistinguono, tra l’altro, proprio Promises. Organi tremolanti che appaiono sullo sfondo, bordoni interminabili, nessun accenno ad alcun tipo di progressione: all’ascolto pare che la Sinephro abbia dato forfait a cento metri dal traguardo, lasciando galleggiare le interessanti idee che aveva mostrato qua e là durante Space 1.8 in una brodaglia insipida.
To Live & Die in Space & Time, uscito quest’anno, è invece il frutto della collaborazione tra l’artista new age americana Lynn Avery e il sassofonista Cole Pulice: e qui non ci sono proprio più scuse. To Live & Die in Space & Time è un prodotto che, fin dalle primissime note, denota già una stanchezza creativa inaccettabile: anche se il disco dura poco meno di 28 minuti, si ha quella devastante impressione di stare ascoltando qualcosa di molto più lungo a causa della gigantesca noia generata. I quattro brani, di una durata variabile tra i tre e i dodici minuti, si spingono tra imitazioni di soffusi tamburi taiko (Belt of Venus); delicati tappeti di Wurlitzer prima e di piano poi su cui il sax può appoggiarsi e volteggiare liberamente (Plantwood (Day)); ostinato di synth rotondeggianti sui quali si stagliano gli strumenti pesantemente effettati di Pulice (Stained Glass Sauna) mentre cori misteriosi forniscono una precaria impalcatura che si dissolve nell’etere. Quando si arriva a The Sunken Cabin (Night), sembra di aver già passato in rassegna un campionario di idee che abbiamo sentito e risentito. Chiaramente, nemmeno quest’ultimo brano è riuscito a farmi cambiare idea: nonostante il minutaggio poco esteso, To Live & Die in Space & Time si chiude con una lunga divagazione senza meta tra, avrete già indovinato anche voi, un sax che fa qualche volteggio qua e là su un accumulo di droni elettronici, qualche notina sparsa di pianoforte, qualche suonino per arricchire il tutto. Ma l’impressione è che si sia parlato molto senza dire nulla.
Ovviamente siete caldamente invitati a fregarvene di tutti e tre questi dischi: ma se per caso siete riusciti a evitarli e volete farvi un’idea di cosa io stia parlando, fatevi un favore e ascoltatevi To Live & Die in Space & Time. Non perché sia il più bello, anzi; ma perché deve essere la sua pochezza disarmante a mostrarvi che, se mi credete, non c’è niente di cui gioire guardando la brutta piega che il jazz più meditativo sembra aver preso. Questo perché, in fin dei conti, non c’è poi così tanta differenza tra questi tre dischi. Certo, la produzione e il sound design di Promises sono scintillanti, e anche Sinephro riesce ad approfittare della propria etichetta per cucire uno spazio sonoro interessante; ma sarebbe ingiusto stare a punire due sconosciuti come Lynn Avery e Cole Pulice solamente perché To Live & Die è stato registrato su una etichetta “sfigata” come la Moon Glyph, che non conoscevo prima di approcciarmi a questo disco, solamente perché una mancanza di fondi impedisce una resa sonora brillante come per gli altri due.Ma quando si deve scendere nel discorso della sostanza, della musica vera e propria, paradossalmente quelli che sembrano uscirne meglio sono proprio Avery e Pulice: non hanno sulle loro spalle una collaborazione con un mostro sacro dell’arte, ed eppure riescono sardonicamente nell’impresa di suonare come Pharoah Sanders; non hanno a disposizione l’expertise pluridecennale di un’etichetta avanguardista come la Warp, e ciononostante l’espressività e la profondità della loro elettronica non è dissimile in nulla da quella rarefatta di Space 1.8. Così, quando avrete finito di ascoltare il più breve tra questi tre strazi senza arte né parte, non avrete in bocca un terribile retrogusto amaro come l’ho ancora io.