Vi abbiamo parlato dei Pyrrhon e degli Oranssi Pazuzu. Vi abbiamo parlato dei Sawtooth Grin. E, a dirla tutta, vi abbiamo parlato (male) anche dei Blood Incantation e di Hoplites. Ma guardiamoci negli occhi: quest’anno la nostra copertura dell’unico genere che vale la pena di ascoltare – il metal – è stata carente a essere benevoli. Mentre aspettiamo frementi l’imminente nuova nascita del Cristo Redentore (così l’anno prossimo lo crocifiggiamo ancora) ecco quindi a voi un maxi recupero in extremis di alcuni titoli che hanno segnato il panorama metallico – in particolar modo, nella sua declinazione estrema – in questo 2024. Come funziona il gioco ve lo ricorderete sicuramente dai precedenti del 2022 e 2023, quindi passiamo direttamente al nocciolo della questione.
I SOMMERSI
Bedsore – Dreaming The Strife For Love (20 Buck Spin)
I Bedsore sono un quartetto romano che da qualche anno esprime una forma di death metal vagamente psichedelica e progressiva: sul debutto Hypnagogic Allucinations, del 2020, la tendenza dominante era la prima, sul solco dei Morbus Chron, ma nell’aura occulta ed esoterica di certi brani già si percepiva l’influenza dei Goblin. La Shapes From Beyond the Veil of Stars and Space che occupava metà dello split con i Mortal Incarnation nel 2022 aveva invece evidenziato il loro interesse verso un’espressione più avant-garde del death metal, con un approccio che poteva richiamare tanto i Pan.Thy.Monium quanto i Genesis.
Avessi riascoltato a dovere questi dischi prima di mettere su il loro ultimo Dreaming the Strife for Love, forse sarei stato più psicologicamente pronto alla svolta che i Bedsore hanno messo a punto negli ultimi quattro anni; invece, il loro inedito connubio tra death metal e progressive rock italiano di scuola Premiata Forneria Marconi e Balletto di Bronzo mi ha preso sinceramente alla sprovvista. Se non fosse per lo stile di canto e qualche segmento più esplicitamente prog metal (come l’assolo di A Colossus, an Elephant, a Winged Horse, the Dragon Rendezvous che sembra rifare il verso ai Cynic), si potrebbe anzi discutere a lungo se si tratti in effetti ancora di un disco metal o di un irrobustimento della scuola progressive rock italiana con l’oscuro cipiglio di certa psichedelia nostrana. La musica di Dreaming the Strife for Love si snoda in brani dal minutaggio esteso che si muovono tra acquerelli di sintetizzatori, digressioni bucoliche per flauto traverso e chitarra acustica a dodici corde, assoloni di chitarra elettrica con sostegno di basso fretless, arrangiamenti torrenziali di tastiere che dettano la linea melodica all’unisono con tromba, trombone o sassofono; e pure il growl di Jacopo Gianmaria Pepe sembra voler recuperare lo stile pomposamente teatrale della stagione anni Settanta.
È un’operazione che concettualmente può ricordare quanto fatto recentemente dai Blood Incantation, ma a differenza loro non si può imputare ai Bedsore una scrittura incerta e poco fluida: esprimendosi perlopiù attraverso stilemi di matrice progressive rock, i brani mantengono sempre una certe omogeneità formale e una coerenza interna che permane anche quando il gruppo salta di palo in frasca da una sezione più dura a un momento più contemplativo e atmosferico. Il loro approccio è però altrettanto museale, alla maniera degli Opeth post-Heritage, di cui i Bedsore di questo disco appaiono la versione de noantri; se poi come me avete poca tolleranza verso le pose più enfatiche e autoindulgenti del progressive rock italiano, l’ascolto finisce ben presto per essere stucchevole.
Fleshgod Apocalypse – Opera (Nuclear Blast)
Quando esordirono con Oracles mi pare di ricordare che i romani Fleshgod Apocalypse fossero stati salutati come una ventata di aria fresca nel – non molto salubre – panorama estremo italiano. Ma era il 2009, quindi circa settant’anni fa, potrei semplicemente ricordare male. Fatto sta che già allora la loro interpretazione del verbo brutal death metal con inserti orchestrali, che secondo il presskit della Willowtip dell’epoca vogliono richiamare la musica di Bach e Paganini (ahah!), mi pareva una baracconata kitsch senza alcun appeal, e quindi li ho lasciati perdere.
A quanto pare, nel frattempo, i Fleshgod Apocalypse hanno firmato con la Nuclear Blast (che è una bella dichiarazione di intenti per quanto mi riguarda), hanno esasperato il lato sinfonico del loro suono, e, seppur non possa parlare parlare dei dischi precedenti, di sicuro con questo Opera hanno pubblicato una delle pagine più tragicomiche del metal tricolore. In questo album, tutto è sbagliato. È sbagliato a livello di suoni, perché la produzione plasticosa e iper-satura di marchio Nuclear Blast gonfia all’inverosimile i suoni dei Fleshgod Apocalypse ricercando un senso di epicità tamarra e sopra le righe che finisce invece per suonare pacchiana. È sbagliato a livello musicale, perché la formula di Opera consta di una semplice componente death metal by the numbers, come ci si aspetterebbe da dei cloni dei Suffocation o dei Decapitated che ce la mettono tutta per edulcorare il proprio sound, ammantata di una posticcia aura neoclassica tramite il tronfio utilizzo di una voce soprano e opulenti interventi orchestrali; peraltro, come spesso accade in questi casi, il lato estremo e quello “colto” dell’equazione sono sposati senza alcun gusto in maniera dissonante e artificiosa. Ultimo ma non ultimo, è sbagliato a livello di concetto: al contrario di esperimenti sinfonici davvero riusciti (come quello di Esoctrilihum quando potevo ancora dire di seguirlo senza vergognarmi), l’utilizzo di forme e orpelli mutuati dalla musica classica non si coniuga mai bene con la strumentazione elettrica, l’atmosfera che emerge non beneficia mai della contrapposizione tra i due registri. Piuttosto, per una volta dice bene a riguardo Antonio Silvestri – uno che di solito di metal non ci azzecca niente – su Ondarock: i Fleshgod Apocalypse danno sempre l’idea di voler catturare in un formato death metal un’immagine di italianità stereotipata, fatta di bel canto e bellezza formale (che, gira che ti rigira, coincide sempre con quella della musica colta pre-romantica), restituendo così un senso di boriosa grandeur pensato su misura per quelli che a sedici anni si spaccavano di Apocalyptica pensando che nulla fosse più epico della sovrapposizione di metal e classica. Una sensazione sgradevolissima che rende Opera pure più insostenibile di quanto già non sarebbe per i suoi demeriti intrinseci.
Ingurgitating Oblivion – Ontology of Nought (Willowtip)
Non farò finta di volervi spacciare i tedeschi Ingurgitating Oblivion come uno dei gruppi imperdibili del death metal del nuovo millennio, ma c’è da dire il loro paio di bei dischi li hanno fatti indubbiamente. L’esordio Voyage Towards Abhorrence (2005) li ha visti esprimersi nel solco del death metal vorticoso e cacofonico inaugurato da Immolation e Gorguts – in un periodo in cui questa strategia non era ancora un trend così affollato. Poi sono spariti dalla scena del visibile, sono tornati una decina d’anni dopo e hanno pubblicato un altro paio di album – tra cui Vision Wallows in Symphony of Light (2017), che rileggeva in modo molto originale lo stile dell’esordio in brani dal respiro più ampio e dalle ambizioni progressive più marcate ed esplicite.
Ontology of Nought è il loro quarto lavoro, anche questo pubblicato dopo diversi anni di silenzio (sette) dall’ultima fatica, e spinge sull’acceleratore nella direzione più progressiva e ominosa che era stata inaugurata su Vision Wallows in Symphony Light – tant’è che ogni brano è una sorta di suite tripartita dalla durata compresa tra i dieci e i diciotto minuti. Nella loro incarnazione più propriamente metal, le composizioni di Ontology of Nought sono numeri di death metal dissonante e convoluto, che fanno proprio l’impianto tortuoso e torturato degli Immolation di Close to a World Below esaltando ulteriormente l’aspetto tecnico e brutale; in mezzo, però, vi sono ampie divagazioni in odor di progressive rock jazzato (il secondo movimento di To Weave the Tapestry of Nought, o vari momenti della conclusiva The Barren Earth…), incastri vocali in stile Gentle Giant (la terza parte di The Blossoms of Your Tomorrow…), addirittura un’intera suite che con la voce effettata con il vocoder evoca gli spettri dei Cynic di Focus e (ancor di più) Traced in Air (l’intera Lest I Should Perish…) Ai tempi di Vision Wallows in Symphony Light ero affascinato dalla loro lunga introduzione avant-prog su A Mote Constitutes…, tant’è che ho spesso pensato che la direzione migliore per gli Ingurgitating Oblivion dovesse essere proprio una terza via tra il death metal e l’avant-prog; eppure, Ontology of Nought è la dimostrazione che la loro interpretazione del primo genere è troppo formulaico, e l’integrazione del secondo è forzato e artificioso, visto che il gruppo non sa davvero stratificare la propria musica inglobando entrambe le anime del loro sound. Nell’unico momento in cui ci provano nell’arco del disco – la già citata Lest I Should Perish With Travel, Effete and Weary, as My Knees Refuse to Bear Me Thither – ciò che realizzano suona incredibilmente cheesy e barocco, la scrittura appare erratica e patchy: insomma, un bel buco nell’acqua.
Opeth – The Last Will and Testament (Reigning Phoenix)
Sarò molto sincero con voi: prima ho deciso cosa ne pensavo e poi ho proceduto all’ascolto di The Last Will and Testament. Che non ha fatto che confermare che l’ascolto è una pura formalità, davanti a cotanto tanfo di casa di vecchio in legno ammuffito.
Il ritorno del growl è soltanto l’Ahoy there, Dean! a fare da orpello paraculo per il Montgomery Burns che è la musica degli Opeth attuale.
OU – 蘇醒 II: Frailty (InsideOut)
Possiamo girarci intorno quanto vi pare ma il fatto è che, a meno che non si parli dei Pyogenesis, quella di unire metal e pop rock è sempre un’idea di merda, e lo è a maggior ragione quando ad entrare in collisione sono le asperità ritmiche e timbriche più autistiche del primo con le melodie più stomachevoli del secondo. Nel 2015 c’era stato un gruppo danese, i VOLA, che aveva esordito con Inmazes illustrando a dovere le magnifiche sorti e progressive di un siffatto sposalizio: un insostenibile mash-up tra i poliritmi e le astrusità metriche del djent di derivazione Meshuggah e la leggerezza zuccherosa del jigsaw pop in stile Mew, che falliva nel beccare i pregi tanto dell’uno (l’aura robotica e l’impatto apocalittico) quanto dell’altro (nessuno – i Mew sono stati un errore e per fortuna sono stati dimenticati da mezzo mondo).
Tutto questo per dire che ciò che fanno i pechinesi OU non solo non è un’idea completamente inedita nel panorama metal, ma è già conclamato che tale idea porti a risultati disastrosi. Non ho ascoltato il loro esordio One uscito nel 2022, ma a quanto pare doveva essere abbastanza terribile da meritare il plauso di Devin Townsend (che all’infuori degli Strapping Young Lad non ha mai azzeccato niente, carriera solista compresa), tant’è che su questo 蘇醒 II: Frailty compare in veste di co-produttore e, su quella tamarrata di brano che risponde al titolo 淨化 Purge, presta addirittura la propria voce cantando in cinese. Lo stile degli OU su questo disco in effetti è un’estremizzazione dell’estetica pop djent dei VOLA tramite la contaminazione con il gusto per gli arrangiamenti stratificati – ma sempre onirici ed eterei – esibito da Townsend su lavori come Terria. La struttura dei brani è lineare e piuttosto elementare, le schitarrate prog metal vengono relegate al ruolo di spezia secondaria al pari degli acquerelli di sintetizzatori su 輪迴 Reborn e il battito elettronico su 衍生 Capture and Elongate (Serenity), e in generale la formula appare appiattita sul lato dream pop e c-pop dell’equazione – come del resto mette in chiaro anche la melassa vocale di Lynn Wu, che fa rimpiangere l’assenza di una siringa di insulina durante l’ascolto. Se una descrizione del genere vi intriga siete dei pervertiti.
Scarcity – The Promise of Rain (The Flenser)
Seppur interlocutorio (e molto meno originale di quanto si sia cercato di farlo passare), il debutto di Brendon Randall-Myers a nome Scarcity aveva posto delle buone basi su cui ricamare: la solita gimmick della microtonalità utilizzata per dare un taglio obliquo alla musica; la saturazione sonora tramite la sovrapposizione di numerose tracce di chitarra secondo l’insegnamento di Glenn Branca; un’atmosfera plumbea, rovinosa e disperante, che sull’ultimo movimento V aveva raggiunto abissi di intensità ragguardevoli. Come da manuale The Flenser, però, ciò che può andare male lo farà; ed è così che ci ritroviamo in mano un The Promise of Rain che disattende tutte le promesse di quell’esordio. Su questo nuovo lavoro, la formazione degli Scarcity si amplia a un quintetto più riconoscibilmente metal con l’aggiunta del chitarrista Dylan DiLella (come il vocalist Doug Moore, anche lui nei Pyrrhon), del bassista Tristan Kasten-Krause (Sigur Rós, Steve Reich) e del batterista Lev Weinstein (Krallice). Lo scopo è dichiaratamente quello di rendere la musica più riproducibile in sede live, ma così facendo lo stile degli Scarcity si banalizza: il volume sonoro catartico che era uno dei punti di forza di Aveilut viene ampiamente ridotto, i densi layer chitarristici in odor di totalismo vengono abbandonati, e si opta invece per un riffing più minimale e ostinato che più che ai Jute Gyte o ai Krallice fa pensare agli Orthrelm. In generale, tutta l’atmosfera di catastrofe incombente che rappresentava il punto nevralgico della poetica dell’esordio è sparita, sublimata in una texture decisamente più flebile – anche per via dell’infelicissima scelta in fase di produzione di avvalersi di un tono cristallino che, come spesso accade quando si adottano sonorità così pulite e rifinite in ambito estremo, succhia via l’anima e la tridimensionalità della musica degli Scarcity. È questo il prezzo da pagare per poter suonare in concerto come su disco? A ‘sto punto era meglio il COVID.
Serpent Column – Tassel of Ares (n/a)
Se vi ricordate, l’anno scorso vi avevamo parlato di Theophonos, il nuovo moniker adottato da James Hamzey varato l’anno scorso e che – secondo un’intervista di Hamzey stesso – doveva rimpiazzare il progetto Serpent Column, secondo lui giunto a una conclusione irreversibile dopo l’EP Katartisis del 2021. Cito testualmente: «there’s no possibility of continuing under Serpent Column […] It would be the wrong decision, internally, to continue something like that. It just wouldn’t do justice to the project». Imparando però la lezione di alcuni dei più grandi musicisti della storia del metal, Hamzey si è rimangiato ogni singola sillaba di quelle dichiarazioni ed eccolo di nuovo, a sorpresa, a pubblicare nuova musica sotto il nome Serpent Column. Tassel of Ares è un nuovo album di quasi quaranta minuti che prosegue convintamente verso quel “ritorno all’ordine” già inaugurato da Kathodos nel 2020: Hamzey sfronda il caos di ascendenza hardcore di Mirror in Darkness ed Endless Detainment (che qui continuiamo a considerare come i maggiori contributi apportati da Hamzey al mondo black metal), le strutture si fanno più lineari e la melodia, mai così discernibile, acquista un inedito posto di primo piano. Sulla lunghissima The Long War of Essential Struggle, complice una produzione mai così esile e poco torbida, i lead di chitarra richiamano addirittura gli Iron Maiden e l’heavy metal classico, riletti in chiave black metal come da lezione Dissection. Il che non è un male di per sé (i Dissection sono stati un gruppo magnifico), ma Serpent Column non ha mai avuto lo stesso occhio degli svedesi per l’hook melodico struggente – anzi, il suo punto di forza nei momenti migliori della sua discografia è stata l’indecifrabilità e l’anarchia timbrica, armonica e ritmica della sua musica – e le cose non sono cambiate di certo su Tassel of Ares. Oltretutto, diciassette minuti non sono esattamente la durata ottimale per una proposta che punta alla catchiness.
A posteriori, Hamzey ha giustificato questo album dicendo che dedicherà al nome Serpent Column il materiale più riff-centrico, mentre a Theophonos verrà relegato quello più -core. Visto che nel secondo ambito è ben più dotato, e ciò non gli ha comunque impedito di fallire anche con Ashes in the Huron River (il secondo album di Theophonos, pubblicato a inizio anno), direi che posso mettermi l’anima in pace e lasciarlo perdere per un po’.
Ulcerate – Cutting the Throat of God (Debemur Morti)
Se seguite il metal estremo e non avete vissuto sotto un sasso per gli ultimi quindici anni, gli Ulcerate dovrebbero essere un nome più che familiare. In realtà, è da diverso tempo che gli Ulcerate vanno annoverati direttamente tra le formazioni più innovative, influenti ed essenziali per capire le sorti del metal estremo del nuovo millennio: insieme ai Portal sono i principali responsabili del dilagare della corrente di death metal che adesso nei circoli terminally online viene chiamato stupidamente con l’orrido nome dissodeath (come se gli armonici artificiali di Trey Azagthoth o Bob Vigna fossero rispettosi delle regole della tonalità e della consonanza – ma sto divagando). Nell’A.D. 2024 questo può non apparire come un vanto, visto quanto i panorami death (e black) metal sono saturati da gruppi che aggiungono strati sempre più densi di linee di chitarra, che enunciano i propri riff seguendo le progressioni armoniche più indecifrabili e i tempi più fratturati concepibili, senza però curare minimamente l’impatto atmosferico, narrativo, emozionale dei loro brani. Ai tempi di Everything Is Fire e The Destroyers of All, invece, sembrava davvero che gli Ulcerate stessero aprendo le porte del death metal a un futuro completamente inedito – e anche se forse non era un futuro roseo come speravamo, quella previsione non si è rivelata del tutto fuori fuoco. La tragicità delle tematiche, la maestria e l’acume con cui il trio era capace di gestire le dinamiche dei pezzi facendo confluire la violenza dei Cryptopsy e degli Angelcorpse con le strutture più magniloquenti e dilatate dei Neurosis e dei Cult of Luna, la precisione esecutiva (in particolare del batterista Jamie Saint-Merat, forse il più grande degli ultimi vent’anni di metal estremo), la grandeur asfissiante del loro suono: tutto negli Ulcerate suonava intenso e lacerante in un modo che il death metal è raramente riuscito a essere.
Perché spendere così tanto tempo per parlare di ciò che è successo prima di Cutting the Throat of God? Perché da Vermiis compreso in poi (parliamo quindi del 2013) gli Ulcerate hanno praticamente continuato a scrivere lo stesso disco con minim(issim)e variazioni sul tema introdotto da loro stessi sui due sopra citati capolavori. Shrines of Paralysis, Stare into Death and Be Still e ora Cutting the Throat of God sono praticamente rimasticamenti della solfa che ci propinano da ormai quindici anni, con magari qualche spruzzata più apertamente black metal nel mix se uno si sforza di voler fare il sommelier e cogliere qualche lieve differenza con i precedenti. Ma per quanto loro siano ormai dei notevoli artigiani tutto appare così prevedibile, già sentito – e ormai, nel 2024, non solo da loro ma pure dalle decine di emuli e cloni – che non c’è motivo di ascoltare Cutting the Throat of God se non si è un fan irriducibile specificamente degli Ulcerate. Il futuro del death metal si è già spostato altrove, e loro sono fermi qui, a ripetere lo stesso disco dal 2013, indistinguibili dalla marmaglia di Karmacipher, Sunless, Ulsect che loro stessi hanno contribuito a generare. È un po’ triste.
Zeal & Ardor – Greif (n/a)
Ricordo benissimo quando gli Zeal & Ardor sono spuntati fuori una decina di anni fa e la gente cool provò a venderci che ‘sti cialtroni fossero grandi innovatori e intelligenti sperimentatori del metal estremo. Per chi non lo sapesse, la gimmick degli Zeal & Ardor è la seguente: che sarebbe accaduto agli schiavi neri in America se anziché al cristianesimo si fossero appellati al satanismo? Così il gruppo ha cominciato a pubblicare dischi dove le work song, gli spiritual, il blues e il gospel della cultura afro-americana a cavallo tra Ottocento e Novecento incontrano una forma estremamente moderna di black metal.
Insomma, il concept di partenza è divertente: è stupido quanto basta da far ridere, e poi personalmente sostengo aprioristicamente qualsiasi cosa immagini un mondo in cui a Gesù Cristo si preferisce Satana; in più, magari, in mano a della gente con creatività e gusto una premessa del genere avrebbe anche permesso di produrre della musica sinceramente originale. Il problema è che gli Zeal & Ardor non lo sono – e non lo sono mai stati: da sempre, pure su dischi acclamati come Stranger Fruit, la loro interpretazione del crossover è stata superficiale, macchiettistica, votata esclusivamente al novelty factor. Le componenti fondamentali del loro suono appaiono come rimasticamenti di cliché della musica nera e del metal estremo, edulcorati e diluiti in un tessuto sonoro iper-moderno che grazie a una produzione super-compressa, l’uso deliberato del millennial whoop e di trucchetti assortiti sfocia ampiamente nelle sonorità del pop rock contemporaneo (chi su social e aggregatori vari ha parlato di Imagine Dragons non ha mancato di troppo il bersaglio).
Greif, il loro ultimo album uscito ad agosto, è semplicemente il capitolo che suggella la portata fallimentare del loro operato, attuando una svolta sonora che sembra addirittura rinnegare le intuizioni più “sperimentali” (tra mille virgolette) dei dischi precedenti. Gli Zeal & Ardor non sono mai suonati tanto addomesticati, radiofonici, quadrati: la componente heavy è degna di un gruppo di pop/nu metal sorto sulla scia dei primi Linkin Park; quella nera, quando è percepibile (come su Hide in Shade) pare pensata da un gruppo di rock cristiano; in mezzo a fare da collante, solo questo pop rock/metal fortemente compromesso da elettronica e musica industriale che fa pensare a certo metal mainstream di fine anni Novanta. Un disastro su tutta la linea.
I SALVATI
Akhlys – House of the Black Geminus (Debemur Morti)
Naas Alcameth (aka Kyle Spanswick) è uno di quei molti musicisti del panorama underground estremo impegnati in mille progetti contemporaneamente. Gli Akhlys vengono subito dopo gli Excommunion e i Nightbringer (e subito prima dei Bestia Arcana e degli Aoratos – come vi dicevo…): quando nel 2009 varò sotto questo moniker, completamente in solitaria, l’esordio Supplication sembrava solo una valvola di sfogo per i suoi flirt con certa ambient del filone dark e ritualistico, che in una produzione prevalentemente votata al death e al black metal evidentemente non trovava abbastanza spazio. Dopo quel capitolo, però, gli Akhlys sono diventati un gruppo nel senso proprio del termine, inglobando quelle sonorità ambientali ed esoteriche in un contesto più ovviamente black metal.
House of the Black Geminus è il terzo album di questo nuovo corso metallico degli Akhlys, e rappresenta forse la migliore collezione di brani finora data alle stampe – per quanto molti di coloro che hanno salutato i precedenti The Dreaming I e Melinoë come dei piccoli capolavori del nuovo black metal potrebbero storcere il naso di fronte a questa considerazione. A livello sonoro, House of the Black Geminus si muove coerentemente con il recente passato del gruppo: la formula degli Akhlys si basa su una compenetrazione tra un’espressione molto raw e pure convoluta del black metal – con riff serpentini che sembrano fluire in maniera torrenziale, dipanandosi attraverso lunghe sezioni in tremolo picking serrato dal deviato gusto melodico – avvolta però in una perenne coltre digitale fatta di folate elettroniche, rumore bianco industriale, nervose distensioni ambientali. Ovviamente una descrizione del genere non può non far pensare alla illustre scuola di black metal cibernetico che discende dai soliti Blut Aus Nord di The Work Which Transforms God e che arriva fino a roba relativamente più recente come Darkspace e Progenie Terrestre Pura; ma rispetto a tutti questi gruppi, l’approccio degli Akhlys non ambisce a sublimare l’estremismo del metal in una dimensione più astratta, surreale, e atmosferica, bensì a esaltarne la violenza disumanizzante. Il tono acuminato ed elettrico delle chitarre, il trigger così innaturale che ammanta il suono della batteria, perfino il timbro esasperato dello scream di Alcameth restituiscono un sound totalizzante e trans-umano, che trova il riferimento più consono negli eterni Darkthrone di Transilvanian Hunger nonostante la registrazione così moderna, la scrittura arzigogolata e l’esecuzione chirurgica. In passato gli Akhlys si erano avvicinati a un sound del genere, ma mai il risultato era suonato tanto caotico e sinistro. Forse si può ancora sfrondare ulteriormente il minutaggio, considerando che monoliti come The Mask of Night-Speaking e Through the Abyssal Door in complessivamente venti minuti sembrano esprimere più o meno lo stesso concetto, mentre alla caotica death industrial di Black Geminus sono concessi addirittura sei, eccessivi, minuti; ma quando un disco offre alcuni dei brani più belli del black metal dell’anno quali Maze of Phobetor e Sister Silence, Brother Sleep, il minimo che possiamo fare è consigliarvelo caldamente.
Devenial Verdict – Blessing of Despair (Transcending Obscurity)
I Devenial Verdict sono ‘sto quintetto finlandese che suona una forma strana di death metal. Nel senso che, a primo acchito, è facile etichettarli immediatamente come parte della numerosa progenie dissonante degli Ulcerate – anche per via di una simile tendenza alla melodia malinconica, struggente, talvolta straziante – ma il loro suono è in realtà ben più radicato in una sensibilità old school. La musica di questo Blessing of Despair non ha paura di abbassare i bpm e indulgere in tempi più moderati, che esaltano un groove diretto figlio dei Morbid Angel di Covenant e soprattutto Domination (impronta eclatante su brani come Garden of Eyes), e che occasionalmente si aprono a squarci non distorti che più che a The Destroyers of All sembrano muoversi in continuità con il death doom metal più doloroso dei primi My Dying Bride e dei Katatonia; addirittura, sulla conclusiva A Curse Made Flesh, la mente torna indietro a espressioni più funeree del genere, come i più recenti Ahab e Lycus. Per questo, Blessing of Despair è uno di quei rari dischi death metal che sciorinano momenti di autentica bellezza nel senso più tradizionale del termine, come sull’apertura di I Have Become the Sun che rievoca i momenti più contemplativi e atmosferici dei Gorguts di Colored Sands, o sulla più apertamente gotica Moon-Starved; ma non lesina assalti più frontali in brani come Solus, che sembra addirittura richiamare i Gojira di Terra Incognita e From Mars to Sirius.
Forse i Devenial Verdict ogni tanto – soprattutto nella seconda metà del disco – esagerano nella ricerca del pathos, finendo in un vicolo cieco inutilmente melodrammatico e riducendo eccessivamente l’impatto violento della propria musica, che invece è più viva proprio quando il contrasto tra melodia e violenza è più estremo. Tuttavia, quella espressa in Blessing of Despair rimane una manifestazione del death metal terribilmente sottorappresentata in questi anni, e ci ricorda tutte le potenzialità ancora inesplorate di un approccio del genere. Seguiremo le vicende dei Devenial Verdict con particolare attenzione in futuro.
Diskord / Atvm – Bipolarities (Transcending Obscurity)
Entrambi europei, i Diskord (norvegesi) e gli Atvm (inglesi) sono due gruppi che hanno interpretato l’idioma technical death metal da una prospettiva piuttosto peculiare, in qualche modo a metà tra le derive ultra-brutali e caotiche, e quelle invece più apertamente progressive e astratte. I primi, attivi in realtà dal 1999, hanno inciso già diversi album, ma è solo nel 2021 che sono tornati dopo quasi dieci anni di assenza dalle scene; i secondi, dopo circa nove anni di preparativi, hanno esordito in maniera squisitamente indipendente sempre nel 2021. Entrambi si sono mossi in continuità con lo stile di death metal esibito dagli Atheist di Unquestionable Presence ed Elements aggiornandolo a un nuovo millennio consapevole di ciò che hanno apportato i Demilich e i Gorguts, e quindi: basso ed elemento ritmico jazzy in primo piano, armonie bislacche e voicing vagamente dissonanti (nel caso dei Diskord, senza il “vagamente”), strutture liquide e instabili, impatto quasi thrash-y in diversi momenti, atmosfere surreali e cosmiche; il tutto senza mai rinunciare a un approccio – a suo modo – melodico, soprattutto per quanto riguarda gli Atvm.
Lo sposalizio su questo Bipolarities è quindi azzeccatissimo: ai Diskord è concesso lo spazio di un quarto d’ora per esprimere quattro brani di death metal tecnico, jazzato e dissonante, che oltre all’imprinting dovuto ai già citati Atheist e Gorguts porta un umore psichedelico che può ricordare alternativamente il progressive metal più robotico dei Voivod, l’avant-metal dei conterranei Virus, o addirittura i Gigan; ma sempre collocato in una scrittura dal gusto apertamente old school, che ogni tanto – come su Pass the Baton o Cogged Pother – non lesina rallentamenti di tempo che fanno pensare agli Autopsy. Gli Atvm si esprimono invece tramite un death metal progressivo dal minutaggio più sostenuto (i soli due brani del loro lato occupano quasi venti minuti), ma che è anche più apertamente influenzato dalla scuola di technical death metal floridiana di Cynic, Death e Atheist (con tanto di break latin jazz su Morphine che non può non far pensare a Tony Choy); i loro lead di chitarra sono però sostanzialmente più melodici, e sovente fanno pensare addirittura ai Dark Tranquillity e alla scuola di Göteborg. Considerando anche il più ampio utilizzo di sezioni uptempo in vena del thrash metal di fine anni Ottanta, tra i due gruppi sono sicuramente gli Atvm quelli che suonano più sui generis nel 2024 – il che è bizzarro, visto che allo stesso momento sono quelli più aderenti ai modelli di trent’anni fa.
Come sia i Diskord che gli Atvm hanno dimostrato sui loro album in proprio, anche a questo split manca un soldo per fare una lira: l’esecuzione è impeccabile, il sound ben congegnato, ed è pieno di momenti intriganti quando non infottanti; però la scrittura patchy e poco omogenea sembra non essere all’altezza delle ambizioni avant-garde di entrambe le band, impedendo loro di fare il salto di categoria e mantenendole relegate a una mera dimensione di curiosity per appassionati. Bipolarities conferma in ogni caso lo stato di salute dei due gruppi, e mantiene alte le aspettative e le speranze per i loro prossimi album.
Gigan – Anomalous Abstractigate Infinitessimus (Willowtip)
Seppur magari in maniera (ancora) più sotterranea, anche i Gigan vanno annoverati come gli Ulcerate tra i maggiori innovatori dell’idioma death metal post-Gorguts. La loro prospettiva al genere è diversa, e per quanto recuperino anche loro l’aspetto più dissonante e alieno della musica di Obscura i Gigan sembrano discendere più classicamente dalle forme technical death metal degli anni Novanta – d’altronde i Gigan provengono dalla Florida, e anche se il chitarrista Eric Hersemann è sempre stato molto evasivo sul dichiarare le sue precise influenze, il fil rouge che li lega a formazioni storiche come Atheist o Monstrosity è riconoscibilissimo. I Gigan hanno interpretato quello stile di death metal – brutale, tecnico, convoluto, deflagrante – attraverso una lente psichedelica e ultraterrena, con tanto di theremin, xylofono e otamatone, che più che alla dimensione cosmica e surreale dei Timeghoul e, più recentemente, dei Blood Incantation sembra puntare a rievocare la musica androide dei Voivod e le sfarzose e rumorosissime astronavi degli Hawkwind di Space Ritual, magari con un twist lovecraftiano tanto caro al genere. (Se questa descrizione vi sembra intrigante, sappiate che The Order of the False Eye e Quasi-Hallucinogenic Sonic Landscapes suonano ancora meglio, e dovreste correre a recuperarli.)
Anomalous Abstractigate Infinitessimus è il quinto capitolo della saga Gigan, a sette anni dall’ultimo Undulating Waves of Rainbiotic Iridescence, e riprende con coerenza ogni aspetto della carriera del gruppo: titoli lunghissimi a malapena intelligibili; timbri liquidi e allucinati di tastiere; brani che si muovono senza soluzione di continuità tra una forma brutale e tecnicissima di death metal e colate laviche di sintetizzatori per apocalissi siderali, in un calderone che fonde Morbid Angel e Chrome (sentite che roba i dieci minuti di Emerging Sects of Dagonic Acolytes). I Gigan suonano forse vagamente più orrorifici di quanto non facessero agli inizi, ma sono solo facezie – perlopiù, il suono è quello ben codificato di sempre. Perché quindi perdonare la cosa a loro e non agli Ulcerate? Innanzitutto perché la loro formula offre più possibilità di variazioni timbriche e formali – opportunità di cui i Gigan si avvalgono, offrendo sonorità più tridimensionali e dinamiche; ma soprattutto perché, ancora nel 2024, soltanto i Gigan suonano come loro stessi, e nessun altro.
Gonemage – Spell Piercings (WereGnome)
Garry Brents è uno di quegli artigiani del bandcamp metal che hanno le mani in pasta in mille progetti da numero di ascoltatori mensili sui servizi di streaming: cinque, ognuno più improbabile e assurdo del precedente. Per farvi capire, mentre scrivo queste righe mi accorgo di averlo conosciuto come metà del duo Cara Neir su Phase Out, un concept album riguardante un’entità maligna che spedisce i due in un RPG anni Novanta la cui colonna sonora era un frullato assurdo di chiptune, black metal e noise rock. Più o meno nello stesso periodo Brents metteva in piedi il progetto Gonemage, legato a doppio filo con l’immaginario di Phase Out e che per questo adottava nuovamente l’estetica del retro gaming – musica a 8/16-bit compresa – in un contesto black metal. Sull’ultimo Spell Piercings, però, la raison d’être sembra risiedere non soltanto nella compenetrazione tra black metal e chiptune, ma anche nell’assorbimento della poetica dei Korn – ripresi fin dalla copertina, che è un’ovvia reinterpretazione dell’artwork di Issues. Per questo disco, Brents riprende i tòpoi più minacciosi e psicotici del nu/alternative metal anni Novanta: l’impianto ritmico funk metal distorto e deforme; le atmosfere claustrofobiche; la vocalità istrionica e torturata alla maniera di Jonathan Davis; la scrittura esplosiva e sopra le righe come poteva essere quella dei System of a Down dell’esordio; le tentazioni più estreme mutuate dal thrash e dal death metal come negli Slipknot o negli Otep. Dopodiché, tutti questi elementi vengono integrati in brani di black metal d’avanguardia che riprendono le pose teatrali dei Sigh senza rinunciare però alla tradizionale componente nintendocore del sound Gonemage, rimpiazzando gli elementi più riconoscibilmente downtempo dei Korn di Issues o Untouchables. Per quanto sicuramente una descrizione del genere possa far pensare (e con una certa ragione) a uno di quei mix di generi ridicoli che puntano solo al novelty factor, sorprendentemente Spell Piercings funziona: la musica di Brents trova un bilanciato punto di incontro tra il black metal elettronico/industriale à la Dødheimsgard, le colonne sonore per MIDI di Chrono Trigger, e ovviamente i primi Korn – mantenendone soprattutto l’afflato disperato e asfissiante. Ed è proprio questa atmosfera da incubo allucinato che tampona l’eccessiva weirdness della scrittura e degli arrangiamenti di Spell Piercings conferendo al tutto una solidità tematica ragguardevole. Così, quella che a prima vista sarebbe solo una bislacca curiosità per appassionati di metal sperimentale si palesa invece come una riuscita colonna sonora per il JRPG eldritchiano che avreste sempre voluto giocare.
Mitochondrion – Vitriseptome (Profound Lore)
I canadesi Mitochondrion furono tra i primissimi gruppi a cogliere le possibilità del sound caotico e magmatico inaugurato dai Portal di Seepia e Outre. Su Archaeaeon e quindi su Parasignosis il gruppo ha integrato con successo quell’estetica occulta, putrida e asfissiante in un contesto consapevole tanto del war metal dei conterranei Axis of Advance quanto delle ultime derive brutal/technical death dei Nile, allo stesso esplicitando il legame tra la musica dei Portal con l’harsh noise attraverso tracce come Organum Exitus. Va detto che entrambi i loro dischi, con la loro commistione di ferocia marziale, grandiosità apocalittica e – specie su Archaeaeon – squarci di luminosa melodia, rappresentano alcuni dei lavori più grandi e particolari di tutto il metal estremo del nuovo millennio.
Da allora, salvo un EP nel 2013 e una traccia su uno split del 2016, i Mitochondrion sono stati silenti; finché quest’anno non hanno annunciato il loro ritorno sulle scene con il terzo disco Vitriseptome. È, sotto molti punti di vista, il lavoro più fitto, oscuro e claustrofobico che il gruppo abbia pubblicato finora: quasi un’ora e mezza di black/death metal scurissimo e impenetrabile, con la produzione più compatta e melmosa mai adottata dai Mitochondrion che esalta la potenza di un suono stratificato e densissimo. Tolto qualche esoterico intermezzo tra ambient, drone, noise, a segnalare la fine e l’inizio dei vari capitoli del disco, tutti i brani di questo nuovo album si muovono lungo sentieri impervi, privi di un baricentro tematico e strutturale ben definito, trovando la propria ragion d’essere soltanto nell’assalto più furioso e stordente possibile. Quei pochi rimasugli delle sferzate melodiche celestiali che si ascoltavano su brani come Wraithlike e che ancora permangono in Vitriseptome sembrano sepolti dal marasma abbacinante generato dal confondersi delle chitarre, del basso e della batteria.
È sicuramente uno degli album più estremi e difficili del panorama metal 2024, e vista anche la durata proibitiva è impossibile non imputare alla formula dei Mitochondrion una certa pesantezza sfiancante che inficia l’esperienza d’ascolto. Ma Vitriseptome è anche un album che attacca gli eccessi del war/black/death metal da un numero sorprendente di angolazioni: ogni composizione si evolve seguendo un arco narrativo lucido e ben delineato (anche quando, come su Viabyssm o Antitonement, i Mitochondrion aggrediscono l’ascoltatore per oltre dieci minuti senza soste o rallentamenti), acquisendo una propria identità caratteristica – anche se le dinamiche rimangono sempre sparate a mille, dando l’impressione di una musica più uguale a se stessa di quanto effettivamente non sia. A suo modo, un disco da recuperare.
Stagnant Waters – Rifts (n/a)
Se non fosse per la presenza in veste di vocalist del norvegese Svein Egil Hatlevik – che in passato ha prestato il proprio talento a dischetti da niente come Min tid skal komme dei Fleurety, 666 International dei Dødheimsgard, e Carheart dei Virus – gli Stagnant Waters potrebbero essere tranquillamente bollati come una delle tante frodi bandcamp metal. E infatti il batterista Aymeric Thomas può “vantare” di aver militato negli orridi Pryapisme, che fanno parte a pieno titolo del filone.
Il pretenziosissimo press-kit del loro primo album era già una discreta dichiarazione di intenti in questo senso: la lista dei riferimenti sciorinati copre lo spettro che va da Scott Hull (Agoraphobic Nosebleed, Pig Destroyer), Vicotnik (Ved Buens Ende, appunto i Dødheimsgard) ed Emperor a Erik Satie, Aphex Twin e John Zorn; per tacere poi dell’infinita lista della spesa di tutti i generi che potevano saltare all’orecchio durante l’ascolto – drum & beat (sic), free jazz, glitch, dubstep, musica sinfonica. E, ovviamente, il black metal nella sua accezione più bizzarra, indecifrabile, avant-garde, che di fatto è la matrice fondamentale del suono degli Stagnant Waters su cui viene installato tutto il resto.
Rifts è solo il secondo disco in dodici anni firmato dagli Stagnant Waters, e per descriverlo si applica quanto scritto qui sopra con minime variazioni – parte sulla pretenziosità del press-kit compresa. Se vi sciroppate volentieri i crossover parossistici e il poliglottismo schizofrenico di gente come i Naked City o dei progetti di Mike Patton probabilmente non c’è bisogno di dire altro per convincervi a recuperarlo; ma per quelli che – giustamente – esigono dalla musica qualcosa di più di collisioni improbabili di più generi possibili confinati in brani con l’ADHD, forse è necessario chiarire che Rifts non è (soltanto) questo. Alla radice, gli Stagnant Waters si pongono in continuità con il sound cibernetico dei Dødheimsgard e con quello fluido e amorfo dei Ved Buens Ende, tant’è che nella versione (A) dell’album (quella del vinile) i pianoforti che fanno capolino, le divagazioni circensi, le incursioni electro non sono altro che aggiornamenti al XXI secolo di quei classici del black metal d’avanguardia. È solo nella versione (C) (edita, invece, solo come bonus su cd) che il sound metal viene effettivamente decostruito in una salsa elettronica dove riecheggiano propulsioni electro, grana industriale, scorie di musica da camera atonale: un’ucronia cyberpunk dell’edizione originale di Rifts da una dimensione in cui il black metal si suona con drum machine e battiti elettronici. Chi preferisce un’interpretazione più “ordinaria” dell’avant-garde black metal – per quanto “ordinaria” possa significare qualcosa in questo ambito – troverà pane per i propri denti nella versione (A); chi è più affascinato da esperimenti sopra le righe e guazzabugli improbabili preferirà la versione (C). Personalmente, credo che il vero quid dell’esperienza Stagnant Waters dovrebbe risiedere da qualche parte a metà tra i due lati dello specchio: in attesa di una quadra della loro formula, però, queste due manifestazioni della loro creatività rappresentano comunque tra il metal d’avanguardia più intrigante del 2024.
SUMAC – The Healer (Thrill Jockey)
I SUMAC sono un supergruppo comprendente Aaron Turner (Isis) e, a partire dal 2016, Brian Cook (Botch), quindi non sorprende che una decina di anni fa siano partiti nel solco del post-sludge più atmosferico, compromettendolo con deflagrazioni più caotiche, e che abbiano espresso così una delle forme più monodimensionali e noiose concepibili della musica metal. Sorprende invece come sia cambiata la loro formula a partire dal 2018, quando hanno incrociato Keiji Haino sul loro cammino: da allora, il loro percorso è virato verso una forma di post-metal d’avanguardia, basato su lunghi brani dal baricentro tematico indefinito, spesso liberamente improvvisati. Non tutto ha sempre funzionato (per dire, May You Be Held era pure più noioso di un lavoro come What One Becomes) ma su Love in Shadow i SUMAC avevano offerto uno scampolo di grandezza, con una proposta finalmente intrigante e davvero originale nonostante tutti i limiti che si possono constatare in un album così erratico, perso com’è nel proprio anelito sperimentale.
Quest’ultimo The Healer, come al solito edito per Thrill Jockey, è un ulteriore upgrade rispetto a quanto già fatto di buono su Love in Shadow. Posti in apertura, i quasi ventisei minuti di World of Light – con il suo drone metal scarnificante e lancinante in odor di Khanate – possono forse trarre in inganno e restituire l’idea di un album più statico, quasi immobilista, rispetto al recente passato; ma The Healer è anzi un album dalla notevole varietà timbrica e sonica. Sono soprattutto le due improvvisazioni/composizioni incastonate a metà del disco, ovvero Yellow Dawn e New Rites, a rivelare l’inedito talento dei SUMAC nel gestire con lucidità un ampio spettro sonoro costituito da fiochi barlumi di sinistra melodia (con occasionali distensioni di organo gotico e chitarra in pulito), distruttive cadenze sludge metal, esplosioni noise metal; il tutto mantenendo l’ascoltatore con il fiato sospeso per oltre venticinque minuti senza cali di tensione. Non farò finta che The Healer sia esente da lungaggini – la conclusiva The Stone’s Turn e soprattutto la già citata World of Light sono talvolta estenuanti, e forse si sarebbero potuti decurtare dieci o quindici minuti della durata conclusiva del disco senza fare troppi danni; ma è anche vero che è una delle espressioni più originali e particolari del post-metal degli ultimi anni, e mi è impossibile non consigliarvelo.