KMRU & AHO SSAN – LIMEN
Il suono della Subtext è stato uno dei più riconoscibili ed attuali degli anni Dieci. Le pubblicazioni dell’etichetta inglese hanno tracciato un percorso di sound design ben preciso, con scenari post-industriali caratterizzati da sintetizzatori sconvolti in alta definizione e bassi che rimbombano distorti, in un gioco di vuoti e pieni dalla forte componente emozionale. Dopo un periodo d’oro con lavori che hanno fatto scuola da parte di Paul Jebanasam, Fis e Joshua Sabin, queste sonorità sono diventate un marchio di fabbrica che accompagna più o meno tutta la produzione Subtext: se ascolti un loro disco, sai in che mondo ti stai addentrando. C’è da dire però che James Ginzburg (fondatore dell’etichetta e producer a sua volta) non si è seduto sugli allori e non ha mai smesso di cercare voci emergenti che potessero arricchire la “linea editoriale”: ne è la prova il fatto che negli ultimi anni vari artisti hanno esordito su Subtext con prove di ottima fattura, tra cui Gonçalo Penas, Pyur e Rắn Cạp Đuôi (alla prima pubblicazione come gruppo totalmente elettronico). Tra questi c’è anche Aho Ssan, che due anni fa con Simulacrum si era presentato magnificamente con uno stile che non si allontanava di molto da quello della casa madre ma ne accentuava la componente brutalista, tramite una ricerca sulla frammentarietà del suono e una notevole fascinazione per il rumore, unite però alla presenza di passaggi dal forte lirismo. Il passo successivo è ora una collaborazione con KMRU, sound artist che invece di solito fa ambient contemplativa alla Celer. Come convivono le due anime su questo Limen?
Il pezzo di apertura risponde: alla grande. Resurgence è un fulgido esempio di grandeur del collasso in stile Subtext, condotto con grande consapevolezza delle dinamiche sia sonore che temporali. Le texture elettroniche sono molto più stratificate rispetto a quanto era dato sentire su Simulacrum, i placidi synth modulari di KMRU qui si trasformano in invocazioni taglienti continuamente disturbate da scorie percussive; la coltre sonora è densa e ostica ma non viene mai perso un certo gusto per le melodie tragiche, che si palesano in andirivieni spettrali. Il crescendo del brano passa per una graduale saturazione di rumore con aggiunta di droni di chitarra elettrica che richiamano gli Yellow Swans – il che, se lo chiedete a noi, è un’ottima cosa – e si completa sul finale con lo sviluppo delle particelle ritmiche accennate dai colpi dei bassi in un breakbeat convulso, prima della quiete tra le rovine. Se non si è già avvezzi a queste sonorità è un’esperienza di ascolto per certi versi estrema, ma anche chi conosce a menadito l’alfabeto post-industrial non può non rimanere colpitə da una tale potenza di fuoco, con i due artisti che sembrano in pieno controllo degli elementi della propria musica. La successiva Rebirth mostra quello che succede a un brano ambient che provi ad addentrarsi in questi lidi turbolenti: ogni melodia deve farsi strada tra salve di basse frequenze che si sgranano rumorose e toni alti che perforano maligni ogni illusione di serenità, trovando il proprio corso tra volteggi drammatici di note sabotate dall’effettistica. È un’espressione tanto dolorosa quanto efficace nella sua puntualità. Gli stessi territori vengono esplorati dall’ultimo brano del disco, una rimuginazione power-ambient dal minutaggio ingombrante. In questi casi bisogna chiedersi: quanti di questi ventuno minuti sono effettivamente funzionali a creare un ambiente o un percorso sonoro compiuto? Purtroppo su Ruined Abstractions la sensazione è che la produzione stellare, che fin qui aveva sorretto le ambizioni dei due per definizione e conduzione del suono (e che per qualche ragione vede al mastering Joker, capostipite di quella dubstep da videogame nota col nome di purple sound: chi ci pensava più?), diventi un’arma a doppio taglio. La jam di effettistica elettronica in cui indulge una buona prima metà del brano sarà pure una vetrina di come i due possono manipolare il suono, ma non aggiunge molto rispetto a quanto già sentito su Rebirth e soprattutto non sembra cercare di costruire una propria direzione espressiva, indulgendo in maniera un po’ ottusa sullo stesso spettro di soluzioni. Anzi, il brano sembra trovare il bandolo della matassa proprio quando distorsioni e stridori si placano e i sintetizzatori possono allacciare tra loro frammenti di note nella cornice di turbolenze: insomma, si può dire di più anche facendo meno. Nel complesso comunque Limen è un ascolto impattante, Aho Ssan e KMRU riescono ad aggiornare l’ormai classico suono post-industriale hi-tech in maniera coinvolgente e personale, garantendo una sensazione di shellshock da farvi risuonarvi in testa alla prossima mostra di orrori del Capitalocene.