THE AFRORACK – AFRORACK
Agli albori degli anni ’80 prende forma l’idea di una Fourth World Music, tratteggiata da Jon Hassell come il risultato dell’incontro fuori dal Primo Mondo tra le forme tradizionali del folklore locale e le possibilità espressive della nuova strumentazione elettronica. Più che indicare la via, questa ficcante intuizione va a braccetto con la realtà già presente di una globalizzazione dilagante che moltiplica le rotte di commercio; in questo contesto, i circuiti a produzione industriale collidono con culture secolari in parti sempre più ampie del mondo e qui ridefiniscono i confini dell’immaginario delle generazioni emergenti. Ora, è facile farsi conquistare dal fascino smisurato di questa visione: localismi musicali di grande tradizione che si amplificano in una rete elettrificata di portata globale e mutano continuamente nel processo, generando un caleidoscopio prismatico di mondi sonori ibridi senza confini definiti nello spazio e nel tempo. È importante però calarla nelle vesti concrete delle disparità economiche del mondo industrializzato, che vedono l’avanguardia della tecnologia riservata a una nicchia di paesi occidentali e il resto del mondo accontentarsi degli scarti. Gli strumenti elettronici che per decenni sono stati utilizzati oltre gli stretti confini del Primo Mondo sono infatti principalmente materiale d’accatto considerato vetusto nei paesi produttori e raccolto da economie che non possono permettersi i prezzi delle apparecchiature di ultima fabbricazione; oppure realizzati direttamente attraverso un’opera di recupero di prodotti malfunzionanti e nude parti metalliche ed elettroniche da oggetti a fine vita, amichevolmente noti come spazzatura. Questo si vede benissimo in molte espressioni recenti della musica africana che hanno avuto una certa risonanza anche da noi, dai microfoni realizzati con parti magnetiche strappate da pezzi di vecchie automobili nelle prime manifestazioni congotronics alle tastiere Casio scrause e drum-machine da quattro soldi su cui si basa la shangaan electro. Da un certo punto di vista, quindi, la Fourth World Music è un esito artistico delle dinamiche di dumping sottese ai meccanismi di (sovra)produzione di massa, che scaricano l’eccesso e l’obsoleto su interi continenti in cui l’arte dell’arrangiarsi sopperisce alle numerose manchevolezze che quelle stesse dinamiche hanno creato per sostenersi.
Questa introduzione serve a capire perché è importante parlare di Brian Bamaya aka Afrorack. Bamaya cresce in Uganda, culla di una scena musicale tra le più floride e attive del continente, che grazie all’attività di Nyege Nyege Tapes e Hakuna Kulala si è posta all’avanguardia di forme espressive tra elettronica, hip hop e rivisitazioni della tradizione che hanno trovato ampio riscontro anche in Occidente. Eppure, persino in un contesto così fervido, al momento di volersi cimentare in prima persona procurandosi un sintetizzatore modulare Bamaya si è scontrato duramente con la realtà: per queste attrezzature esiste solo una manciata di distributori in tutto il continente (che, ricordiamo, è circa tre volte più grande dell’intera Europa) e i prezzi di vendita e spedizione sono tarati su possibilità economiche da Primo Mondo, fuori scala per la stragrande maggioranza dei redditi ugandesi. La sua risposta è stata, molto semplicemente: fanculo. Bamaya si è messo a recuperare parti metalliche, magnetiche ed elettroniche prodotte in Uganda (con costi adeguati) e ad assemblarle a proprio piacimento con l’aiuto di dettagliati tutorial reperiti facilmente su internet. Così, con iniziativa e perizia, ha realizzato quello che è stato definito il primo sintetizzatore modulare ideato e realizzato interamente in Africa: un bellissimo gigante di cavi e manopole che ha potuto modellare sulle proprie esigenze come produttore e performer e che è stato giustamente chiamato Afrorack (un rack è l’elemento base del sintetizzatore modulare, che si realizza e si suona assemblando e collegando queste unità funzionali). L’Afrorack occupa fieramente la copertina del primo album pubblicato da Bamaya per Hakuna Kulala e ne rappresenta anche moniker e titolo, in una orgogliosa identificazione. Così dalle dinamiche di esportazione/assimilazione si passa a una soluzione diversa, di autoproduzione e autoaffermazione.
Questa storia, già di per sé meritevole di essere raccontata, si arricchisce di un ulteriore elemento: la musica contenuta in Afrorack è fenomenale. Bamaya si rivela un cultore delle forme musicali occidentali che hanno attraversato circuiti e solchi di vinile in mezzo secolo di storia, a cui affianca un linguaggio fortemente radicato nella propria terra. Le pelli dei tamburi che risuonano nei beat, i pattern giustapposti per richiamare i poliritmi delle celebrazioni rituali, finanche i suoni elettronici striscianti che si allacciano alle atmosfere minacciose caratteristiche di molte produzioni del roster Hakuna Kulala: sono tutti elementi caratteristici di queste nove tracce, e forse anche parte delle aspettative di chi ha letto sin qui. Eppure non sono il centro di gravità del disco. Li troviamo infatti legati a doppio filo a una costellazione sorprendente di espressioni elettroniche maturate altrove, ma cementate ai suoni d’Africa dalle molte possibilità contenute tra i comandi e i collegamenti del sintetizzatore che Bamaya manovra con ispirazione evocatrice. E così, se possiamo scuotere il capo in cenno di assenso di fronte all’elettrotribalismo infuso nella cadenza gqom di Inspired e riconoscere con soddisfazione gli spettri degli African Head Charge e del Brian Eno di My Life in The Bush of Ghosts danzare nell’incedere dubbeggiante di Last Modular, ci ritroviamo decisamente spiazzatə di fronte all’attacco acid di una bassPlus che sembra uscita dagli angoli più lisergici della Trax Records o addirittura all’ossatura kosmische (!) di una Rev in odor di Tangerine Dream. La convivenza tra queste anime, tuttavia, è resa perfettamente naturale dal suono unico che attraversa tutto Afrorack: acidissimo ma caldo, ritmicamente ossessivo, calderone ribollente sempre pronto a riversarsi e parassitare le costruzioni di ogni brano. I vari riferimenti che emergono qui e là vengono filtrati attraverso questa materia e acquisiscono una profondità aliena che sembra inscindibile dall’origine “artigianale” della strumentazione. La giungla minimalista di ritmi maniacali e aperture ambientali in Osc e la sfacciata bellezza del tema nordafricano che si erge tra le sabbie elettracide di Desert, poste rispettivamente in apertura e chiusura dell’album, sono letteralmente due generi di musica diversi ma qui stanno confortevolmente dentro un continuum di matrice sonora coerente e potente. Poi, certo, c’è la bravura di Bamaya ad orchestrare il tutto. Quanti producer al proprio esordio riescono a trovare una formula altrettanto efficace nel coniugare l’uso della ripetizione e un’inventiva mai doma? Si sente benissimo questo talento nella lunga galleria sonora di Why Serious?, giocata tutta senza una vera e propria linea tematica, con una miriade di cellule ritmiche che muovendosi nell’ombra trovano sempre modi originali di evolversi e ricombinarsi; ma anche in un pezzo breve come Cowbell l’ascolto attento rivela una cura del dettaglio certosina, persino esilarante nel suo sommarsi di strati sonori.
Per tutte queste ragioni, Afrorack è un disco che coniuga una forza espressiva, un’originalità sonora e un’ispirazione con pochi pari nel panorama attuale: se ve lo perdete, peggio per voi.