FOUR TET – THREE

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2024

Folktronica, Microhouse

Kieran Hebden sta in giro ormai da un quarto di secolo, e viene giustamente considerato uno dei più importanti musicisti elettronici in circolazione. Il suo particolare blend di influenze, forme e suggestioni è rimasto relativamente solido nel tempo: microhouse, folktronica e downtempo, la trinità perfetta per non far capire niente al pubblico un po’ meno avvezzo al labirinto della catalogazione musicale. Pensate però a un’elettronica composita e raffinata, con suonini belli compìti e piccini picciò che zompettano ovunque, incastrati con precisione da orologiaio a formare panorami dai sentori stranamente organici. La musica di Four Tet infatti ha più le caratteristiche del legno che quelle del silicio, e vive di timbriche calde, battiti solidi, piccole note di rugiada sulle frequenze alte. Tale approccio è comune nella folktronica, meno nella downtempo e ancor meno nella microhouse, che sovente preferisce lasciare i suoi beat esili a vegetare in compagnia di droni atmosferici o altri elementi più o meno analoghi. Ho sempre apprezzato il lavoro di Hebden per la sua anima così calda e al contempo meticolosa, fin da quando incappai in Rounds più di un decennio fa e pensai cazzo, questo disco è fatto proprio bene; ho poi ascoltato vari altri suoi lavori negli anni – trovando sempre roba di alta qualità ma non restando mai davvero rapito. Three, l’ultima fatica, non fa eccezione, e forse proprio per questo ha fatto sorgere in me un paio di interrogativi. A cosa aspira Four Tet? Considerando la già pregevole fattura dei primi dischi, e la sostanziale staticità della sua proposta musicale nei decenni, il producer londinese è in un certo senso partito a pochi centimetri dal traguardo, almeno a livello espressivo. Ovviamente rimane una ricerca tecnica che può benissimo non aver fine: nuovi strumenti, nuovi accostamenti sonori, nuove strategie compositive. Ma è  dunque tutta qua l’essenza della sua espressione? E se lo fosse, sarebbe essa esempio di encomiabile dedizione al mestiere o spreco di tecnica e talento? 
A momenti alterni, Three mi ha fatto pendere da entrambi i lati. Le prime tracce si articolano tutte su binari simili: gradevolissimi giri di synth dipinti sopra tappeti atmosferici che sanno di foresta pluviale, umidi e rigogliosi. Per mio gusto personale, tuttavia, un sacco di queste timbriche nate dall’ossessivo spippolare con le forme d’onda mi sembrano, alla fine dei giochi, un po’ sterili. È una sensazione particolare, perché da una parte c’è l’appagamento derivante dal percepire l’estrema cura nella creazione del suono, dall’altro la sfuggente consapevolezza che un qualcosa di così ineccepibile lascerà poco spazio allo sviluppo di un discorso musicale profondo; non che ci sia una qualche regola a riguardo, ma l’impressione è che molti musicisti elettronici, per valorizzare tali traguardi di maestria sonora, non vogliano mettere altra carne al fuoco a livello compositivo o strutturale, finendo per costruire un pezzo solo tramite associazione di bei suoni. Un po’ uno spreco, come ho accennato sopra. Arrivati a Daydream Repeat, però, Four Tet evidentemente decide che è arrivata l’ora di stupire, e crea sei minuti di musica dove sovverte continuamente le aspettative – beat trascinanti, gracidii rumoristi e dolcissime note d’arpa convivono con una naturalezza davvero sorprendente, dando origine a interplay ritmici e melodici particolarissimi. Qua Hebden prende a piene mani dalla downtempo zuccherina dei Lemon Jelly, plasmandola per formare figure ben più spigolose e convolute senza però farle perdere il suo caratteristico tepore. Durante il pezzo intravedo dunque un miraggio di ciò che questa musica potrebbe essere: produzione e ricerca timbrica utilizzate con piena libertà, al fine di far coesistere suoni e atmosfere in modi che non si pensava fossero possibili. Scontri anche aspri di elementi, l’emulsione di fluidi immiscibili. Mentre sono perso in tali pensieri il brano finisce, lasciando spazio alla psichedelia di Skater, all’acidità simil-Autechre di 31 Bloom, al piglio meditativo di So Blue e al crescendo emotivo di Three Drums, che chiude il disco. Queste altre tracce, seppur valide, non mi restituiscono la stessa fascinazione, e rimango col solito interrogativo che ancora mi rimbalza in testa. Ne vale la pena? Album come Three sono una gioia per gli addetti ai lavori, un piacevole ascolto per chi non ha voglia di estremismi e un prodotto perfetto per chi ha bisogno di un sottofondo che non sia mindless, ma anche quando sembrano catturare vera profondità espressiva non riescono a tenerla stretta per più di una manciata di minuti. C’è lo stupore che crea una wunderkammer piena di affarini intriganti e lo stupore scaturito da un’opera che ti lascia senza fiato, e resta con te anche quando non ne sei più al cospetto; entrambi i principi hanno ragione di esistere, ma non sono sicuro che abbiano lo stesso valore.

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David Cappuccini
David Cappuccini