RAJA KIRIK – PHANTASMAGORIA OF JATHILAN
Tutto il mondo è paese, ogni paese è il mondo. Questo statement bifronte è alla base di molta della nostra passione per l’etnomusicologia e per le collusioni tra le varie forme di folk music e i più globali strumenti a disposizione dell’artista in questa epoca di iperconnessione. È un tipo di realtà che copriamo spesso e che trattiamo molto, sia quando l’ascendente folk è forte sul prodotto finale e bello affascinante, sia quando l’operazione genealogica alla base di questa fusione di intenti è più banale o d’orpello. Ne abbiamo viste molte, quindi: PoiL/Ueda, Midori Takada, Medicine Singers, Pan Daijing, Congotronics, Balungan, per non parlare di tutto il nostro progetto sulle scene dei paesi al di là dell’occidente. Se siete dei lettori di vecchia data conoscerete un minimo il criterio che adottiamo per decidere quando un’uscita sta sfruttando il discorso anti-coloniale per emergere tra i tanti e quando invece il progetto ha una sua dignità specifica. L’entusiasmo maggiore, tipicamente, compare nel momento in cui siamo davanti a un effettivo tuffo nel folk e nella cultura dell’area geografica presa in esame, rivisitato però con altri strumenti.
Il duo Raja Kirik, che conosciamo dai tempi del loro Rampokan, appartiene a questa categoria – anzi, è uno dei rappresentanti più duri e puri del genere. Coppia di producer di Yogyakarta, metropoli appoggiata nella lingua a sud della grande isola di Giava, Indonesia, i Raja Kirik sono attivi dal 2018 nella scena post-industrial/tribal ambient indonesiana e internazionale. Il moniker significa letteralmente “Re cane” ed è esemplificativo dell’attitudine ribelle e anti-establishment dei due, che hanno consacrato ognuna delle loro uscite alla ricostruzione musicale di riti e semantiche rivoluzionarie radicati nella cronistoria dell’oppressione locale indonesiana, coloniale, religiosa, politica. Questo rigurgito anti-autoritario, sin dai tempi del self-titled, è stato incanalato tramite il recupero di antiche forme rituali dell’indonesia orientale. Il progetto Raja Kirik è alle prese da qualche anno con la ricostruzione in forma elettronica della danza rituale del Jathilan, una performance musicale-teatrale che dà anche il titolo all’uscita di quest’anno, appunto, Phantasmagoria of Jathilan. Il Jathilan conserva molte delle caratteristiche delle danze rituali che hanno come scopo l’induzione di uno stato di trance nei ballerini: per esempio, per quanto l’Islam abbia una storia conflittuale con questa forma d’arte specifica, per me è difficile non portare la mente alla musica Gnawa e al sufismo. L’andamento è monotonico e fortemente percussivo, c’è un maestro di cerimonia che si occupa di mantenere il ritmo e assicurarsi che nessuno si faccia male, i ballerini sono portati a perdere il sé il prima possibile e autoindursi uno stato di trance seguendo il riverbero delle percussioni. Ci sono molte versioni di questo tipo di performance con caratteristiche differenti: a volte i danzatori sono uomini, altre volte donne, a volte alla trance si associano pratiche come il mangiare incenso, vetro, animali vivi, altre volte si esagerano le componenti spersonalizzanti con altre pratiche autolesionistiche. È anche difficile cercare di tracciare una definizione o storia concreta del Jathilan, e per questo vi rimando a un paio di video esemplari (1, 2) e un paio di fonti (1, 2, 3). I due punti fondamentali dello spettacolo, però, sono riscontrabili in ogni sua occorrenza: nel corso della performance i ballerini cavalcano dei cavalli di bambù precedentemente posseduti da spiriti, divengono quegli stessi cavalli una volta che lo spirito si è trasferito nel loro corpo, infine trionfano sulle presenze ultraterrene riprendendo in mano la propria umanità, uscendo dallo stato di trance. La danza, per quanto sia passata attraverso edulcorazioni in seguito ai massacri del 1965 e nel corso del regime di Suharto, nasce come uno spettacolo molto crudo, vitale e violento, che ne ha fatto nei secoli il contraltare delle danze più delicate e ordinate dell’aristocrazia giavanese e dei coloni olandesi, con cui questa ha spesso avuto uno stretto rapporto.
Questa cifra popolare e ribelle, spiritica e spossessata, violenta al limite del gore è stata raccolta con religioso rumore dai Raja Kirik ed è stata riproposta in forma di rito elettronico augmented, sessanta minuti per cinque atti di trancefloor brutale e ossessiva. Ad affiancare la produzione elettronica di Yennu Ariendra e la batteria di strumenti artigianali suonata da Johanes Santoso Pribadi intervengono, in questa fantasmagoria, il cantato virtuoso e inquietante di Silir Wangi, che diventa la maestra di cerimonie di questa versione spuria del Jathilan e la live performance di danza di Ari Dwianto, a sostituire il gruppo di cavalieri che nello spettacolo della tradizione combattono e diventano essi stessi degli spiriti. Quattro persone sono poche per un Jathilan – e tutta la componente scenica viene a mancare nel momento in cui si va in studio: come risolvono questo problema, i Raja Kirik? È presto detto: la violenza masochistica, la verve della battaglia spiritica, il sangue del rito di passaggio vengono tutti quanti incanalati nella musica del duo. Le performance acrobatiche dei guerrieri vengono sostituite dalle decostruzioni breakcore delle percussioni giavanesi, che nella tradizione sono due piccoli gong, un angklung, dei gamelan a due toni e una kendang che mima il passo irregolare dei cavalli; nel secondo atto le frustate del maestro di cerimonie cedono il passo al call and response sardonico di Silir Wangi e Ari Dwianto; il passo lamentoso della coppia di guerrieri che rappresenta un cavallo sotto al telo viene sostituito dallo straziante e nasale suono del selompret reog (qui una foto), un fiato con un timbro simile alla cornamusa che si mescola qui e lì con la voce solista di Wangi. Ci vuole un piccolo passo di astrazione per risalire da un Jathilan tradizionale alla versione proposta da questa fantasmagoria, ma una volta fatto il salto si vede con chiarezza il livello di attenzione con cui la danza popolare è stata tradotta nella versione studio.
Ma come suona Phantasmagoria of Jathilan, in concreto? I cinque atti del disco dei Raja Kirik prendono le mosse da un terreno comune post-industriale, ma scoppiano in diverse direzioni a seconda del momento del Jathilan raffigurato, dando anche una particolare connotato al termine di Phantasmagoria usato nel titolo: sia che si voglia usarlo nel senso di teatro dell’orrore costruito su smoke and mirrors sia nel senso di sequenza di flash e immagini oniriche. Il carosello delle brutalità prende tutto lo spettro dell’elettronica del terrore, a partire dalla dark ambient che gorgheggia nei pochi momenti di calma del disco (soprattutto nel primo e nel quinto atto) passando per svariati break metallici, castrati, poliritmici (terzo e quarto atto) ad arrivare a delle concrete scariche di techno hardcore da infarto. Conoscere un minimo del background rituale concede ai campionamenti più folli e agli hook più fuori fuoco di apparire come delle traslazioni in rumore delle acrobazie corporali e punitive dei danzatori Jathilan, e con le cuffie in testa e gli occhi chiusi è molto facile sentirsi affogati nel sangue degli spiriti. È molto facile anche grazie al kit di timbri che affiora nell’interplay tra i synth di Ariendra e le percussioni tradizionali di Pribadi, che duellano tra natura e cultura con risultati di genere veramente impressionanti. Non è difficile, per esempio, ricordarsi dei beat oscuri e riverberati di Haxan Cloak o dei più recenti Ruhail Qaisar, Azu Tiwaline e Al Wootton; non è neanche un long shot richiamarsi alla power electronics di I Am a Lake of Burning Orchids per certi tappeti sonori che compaiono nel quarto atto, né alla techno industriale dei Techno Animal che fa capolino qui e lì nel soundkit e nello slancio dei pezzi che corrono nella zona midtempo dell’album. Il lavoro di Ariendra, soprattutto, è davvero pirotecnico. Il suo arsenale spazia dal break di sonagli metallici al synth ululante alla Akira Yamaoka; gioca con gain, volumi e pattern per dare uno sfondo alla voce di Wangi o al selompret di Pribadi che spesso fagocita brutalmente tutti i solisti, scardinando a modo suo la ripetitività delle percussioni monotoniche tradizionali del Jathilan con una scrittura articolata ed eclettica. Il vuoto di una performance che non può essere trasmessa con delle registrazioni viene riempito e trabocca per tutti questi elementi non tradizionali, e tutte le aperture, le marce, le chiusure, i frastuoni vengono ricucite e finalizzate nel climax di Waru Doyong, senza dubbio uno dei brani più sconvolgenti di questo 2023: un quarto d’ora di crescendo combattivo, letale, poliforme, la cui coda si accascia a terra, stremata, coperta da un velo di rumore alienante ed esiziale allo stesso tempo.
Phantasmagoria of Jathilan non è un disco di techno che fa l’occhiolino alle tradizioni giavanesi. È un Jathilan a tutti gli effetti, ricostruito con degli strumenti che concedono ad uno spettatore come me di provare quelle stesse emozioni che provano i bambini di Yogyakarta davanti a un’equipe di mangiatori di vetro e incenso. Il punto di partenza è quello, e l’elettronica ruggente rende tutto quanto più parossistico e ossessivo, il modo in cui cantato e call and response vengono smembrati racconta a modo suo il passo irregolare del cavallo e l’attacco di panico del guerriero, gli strumenti di Pribadi vengono spesso saccheggiati, subiscono il battesimo del fuoco dell’elettronica e vengono ricampionati in una versione distorta e ruvida. Viene persino da chiedersi quali dei riferimenti che ho citato poco sopra siano effettivamente stati ascoltati dai Raja Kirik e quali siano invece solo casualmente spuntati all’interno delle loro scelte di composizione e campionamento. In fondo, così come gli stessi riti possono comparire in più punti del pianeta nella guisa descritta nel Ramo d’oro, allo stesso modo è possibile che chiunque voglia suonare dell’elettronica violenta arrivi a risultati simili, a prescindere dal punto di partenza. Non so quanto importi il fatto che il selompret mi ricordava gli strilli di Nic Endo in quel contesto, né quanto importi il mio giudizio su quel sequencer che mi ricorda Detroit o su quello spoken word che mi ricorda Nwando Ebizie. Strade diverse, risultati simili – strade sterrate, risultati feroci. I Raja Kirik possono riuscire tranquillamente, con la loro violenza e foga, a imporsi sulla scena elettronica internazionale. In questo modo saranno capaci di far rivivere un costume popolare della loro area, farlo esplodere sul mondo globalizzato, devastare gli spettri senza identità che infestano l’industria musicale e vendicare in questo modo lo stesso popolo indonesiano che ha subito per secoli l’impronta coloniale europea. Quella stessa danza aspra e spossessata che è nata per scioccare le classi più alte della nazione adesso ha una forma altrettanto oscura e brutale che può stregare gli ascoltatori più esposti alla contaminazione: noi ci prendiamo la briga di fare da megafono e mettiamo senza pensarci due volte questo disco enorme nelle nostre scelte dell’anno.