IL LISTONE METAL PER L’AVVENTO DELL’AUTUNNO

Quando l’anno scorso ho redatto la mia lista di dischi metal per la fine dell’estate, l’idea era – ovviamente – quella di rimediare parzialmente al fatto di aver trascurato durante l’anno diverse uscite metal interessanti, anche se magari non completamente riuscite, su cui sentivo che valesse comunque la pena spendere almeno qualche parola. Alla fine di quello sforzo mi ero ripromesso che non mi sarei mai più ridotto a fare articoloni del genere e mi sarei impegnato a coprire tutto ciò che alle mie orecchie sarebbe apparso interessante, cercando di non accumulare arretrati, procedendo a scriverne parallelamente al mio processo di scoperta e indagine della musica dell’anno nuovo.

Come avrete già intuito, se scrivo un’introduzione del genere è perché quei buoni propositi li ho imbelinati via in meno di un anno solare.

Quindi, proprio come l’anno scorso, nel disperato tentativo di porre rimedio alla mia pigrizia eccovi una lista di (questa volta) quindici dischi metal – squisitamente estremo: perché a me piace quello e se volete sapere di più sui Triumpher andate, boh, su Metallized. Ho scelto lavori per la larga maggioranza appartenenti al panorama black e death, spesso contaminati da qualche devianza bizzarra ed eccentrica (che siano le solite tentazioni progressive, o l’impianto sinfonico, o l’approccio ultraraw, o l’improvvisazione, o…). Tutti mi hanno dato da pensare. Non tutti per i motivi giusti. 

Al solito, la selezione dipende soltanto da ciò che io sentivo di aver da dire e ciò che io reputavo interessante da proporre: di certo il termometro per misurare la salute della scena death metal può prescindere dai soliti lavori iper-pretenziosi della I, Voidhanger o da dischi autoprodotti su Bandcamp con numero di ascoltatori al mondo: cinque. Detto questo, buon ascolto e sempre forza metal.


I SOMMERSI

Avenged Sevenfold – Life Is But a Dream… (Warner)

Primo disclaimer: questi Avenged Sevenfold sono esattamente gli Avenged Sevenfold che conoscete voi – e cioè, il gruppo di Waking the Fallen, di City of Evil, eccetera eccetera. Secondo disclaimer: anche se non li avete mai ascoltati, gli Avenged Sevenfold hanno sempre suonato esattamente la musica che vi immaginate – e cioè, una delle manifestazioni più blande dell’heavy metal moderno. Non c’è alcuna perla da rivalutare nella loro discografia, nessun album minore che però in realtà sai che a risentirlo dopo vent’anni non è male?, niente di niente: la loro intera carriera è un rimasticamento tamarro, poderoso ma piacione, di diversi dei trend più fortunati (commercialmente parlando) dell’hard & heavy moderno, dai Guns N’Roses e gli Iron Maiden fino ai Metallica del Black Album e i Pantera. Negli anni, comunque, gli Avenged Sevenfold hanno sempre flirtato con sonorità un po’ più distanti dalle coordinate classicamente associate al metal mainstream americano, che fossero gli interventi orchestrali su City of Evil, le trovate estemporanee di A Little Piece of Heaven dall’album omonimo, o le sboronate da liceale in fissa con i Dream Theater di Awake su The Stage. Per questo, a mente un po’ più lucida, anche l’unico possibile merito che si potrebbe attribuire al loro ultimo Life Is But a Dream… – quello di essere un album coraggioso, sperimentale, inaspettato per un gruppo come gli Avenged Sevenfold – appare decisamente ridimensionato. Rimane comunque vero che si tratti del lavoro con gli esperimenti più arditi dal punto di vista timbrico e sonoro della loro carriera; tuttavia, Life Is But a Dream… non è l’opera di un gruppo capace di padroneggiare diversi registri: piuttosto, l’immagine mentale che ci si figura in testa durante l’ascolto è quella di un attempato tough guy che indossa un capo di abbigliamento diverso su ogni traccia. Non c’è divertimento o ironia in questo trasformismo: non solo gli Avenged Sevenfold si prendono terribilmente sul serio, ma è evidente che il loro obiettivo primario sia quello di apparire eclettici e poliglotti. Che siano le propaggini cibernetiche e le tastiere ariose di Nothing, le pose pattoniane di M. Shadows su We Love You, la parodia del progressive rock di Cosmic, le tentazioni post-grunge di Beautiful Morning, gli imbarazzanti omaggi ai Daft Punk di Random Access Memories che emergono timidamente da Easier e poi con pieno fragore su (O)rdinary, o perfino gli arrangiamenti di baroque pop disneyano su (D)eath, Life Is But a Dream… suona sempre come il parto artificioso del solito gruppo di heavy metal cafone e radiofonico di sempre, che però ora vuole dimostrare di essere più profondo e maturo di quanto non sia davvero. Essere infantili o adolescenziali in musica non è una colpa, anzi; avere superato i quarant’anni e avere ancora una visione tanto acerba di come dovrebbe suonare un disco sperimentale, invece, sì.

Fleshvessel – Yearning: Promethean Fates Sealed (I, Voidhanger)

I Fleshvessel sono spuntati dal nulla nel 2020 con un notevole EP di death metal sinfonico e progressivo, che risentiva della lezione degli storici esponenti del death metal tecnico floridiano ma che risultava anche influenzato dalle forme e dalla strumentazione della musica classica. O almeno così dicevano gli addetti ai lavori all’epoca: io in realtà non l’ho mai recuperato, quindi non saprei esprimermi sulle effettive qualità di quel lavoro. Posso però dire la mia sul loro primo album Yearning: Promethean Fates Sealed, pubblicato a fine luglio tramite I, Voidhanger: è il classico disco incompiuto della I, Voidhanger. Come ho accennato in passato, questa etichetta ha fatto quasi un marchio di fabbrica della direzione sperimentale, parossisticamente avant-garde, di molti dei gruppi che distribuisce, e i Fleshvessel di Yearning: Promethean Fates Sealed non vengono meno a questa linea estetica. Nel loro caso, la gimmick è data da una scrittura labirintica, quasi opethiana, e soprattutto dall’adozione di una strumentazione estesa che offre una varietà di timbri inusuale per un disco death metal, avvicinandosi al mondo progressive o, addirittura, alla musica da camera. Nei soli primi due minuti dell’iniziale Winter Came Early, alla chitarra e al basso (rigorosamente fretless, ça va sans dire) si aggiungono pianoforte, un cuatro portoricano e una viola, ma nell’arco dei suoi quasi undici minuti si possono ascoltare anche chitarre acustiche, sintetizzatori, glockenspiel, flauti. Curiosamente, non c’è una batteria ma soltanto una drum machine, che oltre a essere una cosa un po’ assurda di per sé (riesci a reclutare ospiti che possono suonarti il clarinetto, il darabouka, l’ocarina e il glockenspiel, ma non conosci mezza persona capace di tenere in mano due bacchette?) ovviamente ammazza considerevolmente la dinamica e il colore della componente ritmica della musica dei Fleshvessel. È uno dei sintomi del vero problema di Yearning: Promethean Fates Sealed, che diventa lampante e accecante nel momento in cui si ascolta con attenzione il disco: una volta che si scava sotto la superficie patinata del lavoro progressive metal così intelligente e avanti, si scopre una mole di scelte infelici e patchy nell’elaborazione del materiale melodico, nello svolgimento dei brani, e nell’amalgama di tutte le diverse influenze. Le parti metal suonano sempre e comunque fiacche, mentre i brani sembrano venire slabbrati appositamente, ben oltre la soglia del necessario, per convogliare strategicamente un carattere onirico, sofisticato, maturo che in realtà la musica non ha. Soprattutto, però, il modo in cui gli strumenti esotici vengono integrati all’interno del tessuto estremo tradisce una visione dilettantistica di come il metal “evoluto” debba suonare (o, dubbio ancora più atroce, tradisce una conoscenza di terza mano di generi come il progressive rock e la musica da camera che comunque il gruppo si ostina a voler citare). Nell’economia generale del lavoro, non importa se le evoluzioni del basso fretless e il misterioso assolo di flauto all’inizio di A Stain possono far pensare alle atmosfere degli Aghora; non importano i richiami ai King Crimson che fanno capolino lungo l’intera Eyes Yet to Open; non importa nemmeno che l’istrionismo delle parti vocali, di tastiera e dei fiati su The Void Chamber faccia pensare a un mix tra La masquerade infernale, Keith Emerson e i Van der Graaf Generator: tutto suona amatoriale o, quando va meglio, semplicemente artificioso. Il press-kit della I, Voidhanger cita espressamente i Kayo Dot come possibile riferimento, e non hanno tutti i torti – il matrimonio tra progressive rock, musica da camera, e metal estremo è compiuto esattamente nelle stesse modalità perseguite da Toby Driver su Choirs of the Eye. L’unico problema è che io non lo intendo come un complimento.

Horrendous – Ontological Mysterium (Season of Mist)

La Season of Mist è una delle etichette di metal estremo per cui provo meno rispetto in assoluto. La seguo da tempo – molto più tempo di quello che il mio effettivo apprezzamento giustificherebbe – soltanto perché a un certo punto ha cominciato a licenziare i comeback album di un sacco di vecchie glorie del death metal tecnico, a partire dai Cynic nel 2008; ma veramente poco di ciò che distribuisce mi pare anche solo interessante. Innanzitutto, i dischi Season of Mist hanno quasi sempre quel caratteristico suono laccato delle produzioni metal più mainstream del nuovo millennio, talmente levigato da ammazzare ogni forma di dinamica e di grittiness (il che non è una grande mossa per lavori di metal estremo). Nel caso specifico del death metal, poi, la Season of Mist sembra particolarmente poco acuta nel selezionare i gruppi del proprio roster: praticamente tutti vogliono infondere velleità progressive all’interno del death metal, e praticamente tutti dimostrano inesorabilmente di conoscere veramente poche strategie per raggiungere questo scopo. Anzi, con qualche eccesso di semplificazione, sembra che conoscano esattamente due modalità: quella monodimensionalmente iper-tecnica introdotta dai Necrophagist (perseguita da gente come Beyond Creation, Archspire, Ophidian I), oppure quella più contemplativa e magniloquente in stile secondi Opeth (di cui i discendenti più noti sono i Ne Obliviscaris e i Nero di Marte). Il fatto che gli uni inseriscano arrangiamenti di violino, gli altri suonino con il basso fretless, o gli altri ancora abbiano inserito digressioni post-metal è un’inezia, nell’economia generale delle cose.
Gli Horrendous, all’inizio, non si inserivano propriamente all’interno dei due filoni: sono anzi partiti suonando praticamente un revival del death metal svedese d’antan, stile Grave e Dismember. Poi però sono approdati su Season of Mist, e la componente svedese del loro sound si è “evoluta” verso le sonorità contese tra il death metal melodico e quello più tecnico, simili a quelle degli Anata (e quindi per transitività a quelle degli ultimi Death). Comunque va dato atto agli Horrendous che Idol, pur con tutti i suoi difetti, si faceva ancora ascoltare; Ontological Mysterium invece manda tutto in vacca offrendo uno dei suoni più tronfi di tutto il panorama prog/death contemporaneo. Gli scintillanti arrangiamenti di chitarra, che fanno il verso ai dual lead degli Iron Maiden di Seventh Son of a Seventh Son, avvicinano la musica di Ontological Mysterium alle forme dell’heavy metal più tradizionale: quando  va bene, quest’operazione richiama alla mente quella attuata dai Dark Tranquillity, ma quando va male (cioè quasi sempre) il riferimento più azzeccato potrebbero essere dei Children of Bodom privati delle tastiere. Il senso melodico degli Horrendous, così tamarro e cheesy, corrompe più o meno tutto il disco – anche nei suoi momenti più estremi, come Chrysopoeia (The Archaeology of Dawn), Preterition Hymn o Exeg(en)esis; ma l’interludio Aurora Neoretica, con quei bending onirici in sottofondo che fanno tanto guitar hero anni Ottanta, è forse il momento in cui tutta la pochezza di gusto degli Horrendous colpisce con maggiore potenza. Una delle peggiori porcherie che potrete ascoltare quest’anno.

Sarmat – Determined to Strike (I, Voidhanger)

I Sarmat sono un neonato progetto newyorkese che all’uscita del loro primo EP (Dubious Disk, pubblicato ad aprile sempre per I, Voidhanger) ha fatto parlare un po’ di sé per la presenza tra le proprie fila del bassista/pianista Steve Blanco degli Imperial Triumphant e del chitarrista Oleg Zalman degli Artificial Brain. (Ovviamente, formule come “ha fatto parlare un po’ di sé” vanno sempre ricontestualizzate nell’ottica che si parla comunque di gruppi metal più che underground che escono per etichette sotterranee.) La loro intera raison d’être va rintracciata nell’ambizione di coniugare l’estremismo del death metal con le strutture improvvisate ed elaborate del jazz: è una missione ormai così abusata che il fatto di perseguirla non dovrebbe più far notizia, ma ogni volta si accolgono questi proclami roboanti come se ci si dovesse aspettare l’avvento dei nuovi Atheist. C’è da dire che almeno nell’unico brano di cui si componeva Dubious Disk, nonostante la natura piuttosto dozzinale del matrimonio tra elementi improvvisativi e sonorità estreme, i Sarmat sembravano distinguersi per un certo umorismo tongue-in-cheek molto raro in un ambiente in cui tutti i musicisti si prendono tremendamente sul serio: basti pensare che l’intera improvvisazione scaturiva dall’elaborazione di un’aliena interpretazione del tema del nascondiglio del Team Rocket dei giochi Pokémon di prima generazione. Determined to Strike però prende piede dalle parti più ortodosse dell’operazione Dubious Disk. Quello dei Sarmat è un death metal ipertecnico e dissonante-ma-non-troppo, più in linea con un’estremizzazione dei Voivod piuttosto che con il sound dei Pyrrhon o degli Imperial Triumphant, che soltanto occasionalmente arriva in territori gorgutsiani (ma quando succede, tipo durante il quarto minuto di Landform, il riferimento è particolarmente sfacciato e pedissequo). Del jazz si possono apprezzare soprattutto certe armonizzazioni, i vari assoli di chitarra straripanti di cromatismi alla maniera del Paul Masvidal di Focus, e gli interventi di strumenti tradizionalmente associati al jazz come tromba, pianoforte e sassofono che fanno capolino in più o meno ogni traccia del disco – anche se il loro ruolo è (come succede quasi sempre in questi ambiti) più affine al fornire un’altra fonte di rumori e skronkerie assortite piuttosto che quello di suonare assoli dalla marcata componente melodica e ritmica jazz. In questo senso, Determined to Strike è particolarmente carente: la gimmick jazz non sembra segnare profondamente l’estetica del gruppo, la scrittura privata degli orpelli tecnici citati sopra è quella del death metal tecnico by the numbers, e anche il passo ritmico – nonostante una buona prova strumentale di basso e batteria – è completamente privo dell’elasticità e ricchezza di colori che dovrebbe avere un metal che vuole suonare jazzato. Come se non bastasse, non si avverte più nemmeno lo humor di Dubious Disk – tant’è che la conclusiva Disturbing Advances cita soltanto la seconda metà dell’improvvisazione che occupava quell’EP, ovvero quella slegata dal tema principale dei Pokémon. Per un gruppo che vuole essere tanto complesso e ricco di sfumature, i Sarmat suonano incredibilmente prevedibili, addirittura noiosi: lasciate stare.

Thecodontion / Ceremented – Thecodontion / Ceremented (I, Voidhanger)

Questo piccolo lavoro edito dalla solita I, Voidhanger è uno split tra due realtà del panorama estremo che, con obiettivi molto diversi, stanno ripensando alle possibilità di un death metal suonato senza l’utilizzo di chitarre, alla maniera dei Neoandertals e dei Geryon. Nonostante la durata e il carattere evidentemente estemporaneo della missione di questo dischetto, si tratta di una delle produzioni più interessanti di un’etichetta che – come avrete ben capito dai trafiletti dedicati a Fleshvessel e Sarmat – è spesso condannata a un frustrante limbo di vorrei ma non posso. In realtà anche qua il risultato non è completamente riuscito, visto che tutto il lato dedicato ai Ceremented si può dimenticare senza troppe difficoltà: loro sono un gruppo dell’Arizona che si priva della chitarra (e aggiunge un altro basso) soltanto per cimentarsi in un death/doom metal dalle tinte smaccatamente old school che possa suonare ancora più incatramato e putrescente di quanto già non facesse quello degli Asphyx e degli Autopsy negli anni Novanta, sfiorando perfino il sound dei diSEMBOWELMENT su Disease.Death.Kontrol (Contravene of Death’s Hand). Per carità, è un suono che – come tanti nell’ambito estremo – parla il linguaggio della mia anima; ma i Ceremented non sono esattamente dei maestri né per quanto riguarda la scrittura (invero molto monodimensionale) né per quanto riguarda la costruzione di atmosfere morbose e raccapriccianti. In nemmeno quindici minuti, il loro materiale ha già esausto ampiamente la pazienza dell’ascoltatore.
Invece, il lato dei Thecodontion – un altro quartetto con due bassi, ma questa volta di stanza a Roma – è una roba molto più interessante. Già nel recente passato i Thecodontion proponevano sonorità molto diverse dai Ceremented, con una musica che coniugava il war metal delle produzioni Nuclear War Now! e il ritualismo esoterico e lo-fi dei Ride for Revenge, e con testi legati al mondo preistorico. Sulle tracce di questo split, la loro musica suona ancora più distante – e, personalmente, anche più interessante. Sulle prime due tracce di questo disco, il loro impatto è rimasto di base piuttosto feroce, ma la gestione degli spazi e delle dinamiche si è fatta più eterea e ariosa, mentre la peculiare costruzione delle linee melodiche giocata su un obliquo interplay tra i due bassi e le svolazzanti parti di sintetizzatore in odor di progressive rock (cortesia del tastierista Stefano Allegretti, dei Bedsore), allontana i Thecodontion dai riferimenti più torbidi come gli Antediluvian portandoli invece nell’orbita di gruppi di death metal “psichedelico” e atmosferico come i Diskord, gli Emptiness, e i primi Cadaveric Fumes. Sono nomi che però non rendono adeguatamente il carattere estremamente personale di un brano come Trilobite, che è senza esagerazione una delle robe più particolari che abbia ascoltato in ambito death metal nel 2023. Peccato solo per l’evitabile (e un po’ ridicola) cover di La torre di quel santone di Battiato.

Victory Over the Sun – Dance You Monster to My Soft Song! (n/a)

Victory Over the Sun è la one-man band di Vivian Tylinska, una giovane musicista transgender attiva ormai da diversi anni nell’ambiente americano. I suoi dischi hanno sempre espresso una personale visione della materia metal, profondamente segnata dalla sua esperienza di donna trans, con brani stratificati e ricchi di dinamiche che tradiscono l’influenza del mondo progressive, del noise rock, del totalismo e della musica classica contemporanea – quest’ultima, ravvisabile anche nella scelta di adottare la microtonalità su Nowherer, del 2021. Per quanto la si annoveri come una personalità della scena black americana, i contatti con tale ambiente sono piuttosto laschi: c’è ovviamente la manifesta influenza dei Liturgy, ma l’estetica di Victory Over the Sun è più affine a quella atmosferica, dilatata ed eclettica dei progetti di Toby Driver (Kayo Dot in primis), anche se declinata in una chiave più apertamente poppy – è il termine che usa lei stessa. Il che forse spiega perché la musica di Tylinska, nonostante le buone intenzioni e vari passaggi interessanti, mi abbia sempre lasciato freddino nel complesso.
Il suo ultimo album Dance You Monster to My Soft Song! è uscito a fine maggio, ed è simultaneamente il disco che offre alcune delle punte di estremismo più spinte di tutta la sua discografia (come le abrasive parti di drone metal al rumor bianco che si sentono in apertura a WHEEL e in tutta la conclusiva Black Heralds) e quello che concede maggiori aperture al lato più melodico di Victory Over the Sun: si può sentire nitidamente nel numero ethereal wave in 3/4 in conclusione a Thorn Woos the Wound; o nell’assurda commistione tra blackgaze e indie pop in stile C86 di The Gold of Having Nothing; o ancora nella seconda metà di Madeline Becoming Judy, che soppianta una interpretazione particolarmente progressiva del black metal cascadiano con una sensibilità esplicitamente post-punk, con tanto di sintetizzatori scintillanti e una linea melodica di chitarra venata di dolce malinconia. Il problema di Tylinska è che ancora una volta la sua musica pare molto più interessante sulla carta di quanto non lo sia poi alla prova dell’ascolto: l’evoluzione dei brani non sempre giustifica il minutaggio sostanzioso (spesso sopra i dieci minuti), e come se non bastasse il gusto melodico di Dance You Monster to My Soft Song! nelle sezioni meno estreme suona davvero troppo zuccheroso. Forse è una critica che ha più a che fare con ciò che cerco io nella musica metal piuttosto su ciò che dovrebbe fare Tylinska, che in praticamente ogni intervista sottolinea piuttosto onestamente che lei vuole fare soltanto la sua musica, che finora si è mossa all’interno degli steccati metal più per accidente che per programmazione. Ma a prescindere dal genere, la melassa che trasudano le melodie di Victory Over the Sun è davvero indigeribile; peccato, perché le potenzialità ci sarebbero pure.

SEPARATORE

I SALVATI

Abjeto – Dialética do caos (n/a)

Gli Abjeto si sono formati un paio d’anni fa a San Paolo, in Brasile, iniziando come progetto in solitaria del multistrumentista Mario Albino per estendersi a una più classica formazione in trio nel 2022. Come tanti altri gruppi di cui vi abbiamo parlato in passato, anche gli Abjeto si muovono in quella zona franca tra metal estremo (nel loro caso, il black metal) e l’elemento improvvisativo del jazz: tutta la musica di Dialética do caos è dichiaratamente quanto orgogliosamente registrata in presa diretta, a partire da libere improvvisazioni scaturite senza avvalersi del minimo materiale pre-composto; oltretutto, per ognuna delle cinque tracce di questo disco è stata scelta la prima take senza apportarvi alcun tipo di edit. Tuttavia, rispetto a più o meno tutti gli esperimenti analoghi in cui ci siamo imbattuti finora gli Abjeto non utilizzano l’improvvisazione per amplificare l’estremismo sonoro del black metal bensì per esaltarne la componente contemplativa, mistica e sfuggente. Agli Abjeto piace vagare senza meta lungo sentieri onirici che attraversano il territorio di un notturno jazz rock a tinte post (il riferimento che mi è balenato in mente più spesso durante l’ascolto è stato addirittura il trio anni Novanta di Nels Cline) e costeggiano i confini più psichedelici del black metal atmosferico. Ogni tanto, come su Argumento IV, gli Abjeto incrociano una radura dispersa al crocevia tra questi mondi e si fermano, rimuginando attentamente sulla strada percorsa fino a quel punto. In questi momenti, Dialética do caos si arena inevitabilmente nel pantano delle lungaggini esplorative tipiche delle jam session in sala prove dei gruppi alle prime armi; tuttavia, anche queste digressioni più annacquate sono venate di un umore peculiare, e si ha quasi la sensazione di star assistendo a un rituale esoterico compiuto al riparo da occhi indiscreti. E quindi si attende in solenne silenzio che il trio si rimetta in marcia, questa volta verso i paesaggi naturali della Cascadia (Argumento I) o verso la taiga norvegese (Argumento III). Indubbiamente non si tratta di un disco del tutto a fuoco, ma Dialética do caos rimane comunque un lavoro estremamente affascinante e alieno, con una dimensione onirica che raramente si apprezza in questo tipo di musica. In definitiva, una conferma del buon stato di salute dell’attuale scena metal sperimentale brasiliana.

Dead and Dripping – Blackened Cerebral Rifts (Transcending Obscurity)

C’è un intero filone di death metal brutale e simultaneamente iper-tecnico, generato negli anni Novanta da Suffocation e Cryptopsy e poi successivamente portato alle estreme conseguenze nel nuovo millennio da una pletora di nomi come Deeds of Flesh, Defeated Sanity e Disgorge, di cui a me non potrebbe fregare di meno. (Ho pure provato a dargli diverse chance, ma se alla fine di ripetuti ascolti l’unica cosa che mi piace dei Defeated Sanity è la loro interpretazione del death metal tecnico à la Atheist in Disposal of the Dead / Dharmata qualche conclusione la dovrò pur trarre.) Per questo, il mio interesse per Dead and Dripping, la one-man band dell’americano Evan Daniele, rappresenta una sorta di glitch nel mio sistema estetico: nonostante la mia indifferenza verso tutto quel trend di brutal death metal menzionato sopra in cui Daniele si inserisce piuttosto ovviamente, ho trovato immediatamente affascinante il suo precedente Miasmic Eulogies Predicating an Eternal Nocturne grazie alla sua prospettiva più peculiare, quasi psichedelica, allo stile brutal death metal.
Ad agosto, Dead and Dripping ha dato un seguito a quel lavoro con Blackened Cerebral Rifts, che è con ogni probabilità il suo disco finora più riuscito. Questa volta, anche se a prima vista non sembrerebbe, la scrittura dei brani si è fatta leggermente più lineare, in modo da far risaltare al meglio il senso melodico deforme e sghembo dei riff di chitarra e il trattamento polimetrico al groove del death metal. Per essere una one-man band, il livello di dettaglio e rifinitura delle parti di ogni strumento è particolarmente impressionante: in particolare la batteria assorbe con intelligenza la lezione di Flo Mounier (Cryptopsy), innestando sul suo stile dei breakdown di sotterranea ascendenza Meshuggah che giustificano, almeno parzialmente, gli ascoltatori che hanno descritto la musica di Dead and Dripping come slam death metal. La produzione, soffocante ma nitidissima, rinuncia ai trigger e ai campioni che sono abusati nel genere favorendo un approccio invece più naturale; così il suono di Blackened Cerebral Rifts risulta essenziale ma anche granitico, ed esalta l’atmosfera surreale e lovecraftiana alla maniera dei Demilich e dei Wicked Innocence. È, chiaramente, un sound sulfureo e poco accessibile, destinato a pochi infognatissimi – che essenzialmente possiamo identificare in quelli che amano sentire gargarismi con il petrolio al posto di una voce vera e propria, tipo me. Ma nell’ambito del brutal death metal, è anche una delle proposte più originali e riuscite che possiate trovare di questi tempi.

Demikhov – The Chemical Bath (Dio Drone/SweetOhm/Kontingent)

I Demikhov da Desenzano Del Garda (BS) sono una delle creature più interessanti del panorama estremo DIY italiano. Attivi ormai da una decina d’anni, la loro proposta ha finora coniugato le propaggini più abrasive e sludgy del noise rock (con echi che vanno dagli Unsane e i Zeni Geva fino ai nostrani Dead Elephant e Putiferio) con un immaginario industriale fatto di ferro e sangue, profondamente segnato dalla storia dell’Unione Sovietica. Il loro stesso moniker è dedicato a Vladimir Demikhov, il chirurgo che nella Russia degli anni Quaranta e Cinquanta ha compiuto passi da gigante nel trapianto di organi vitali (cuore, polmoni, perfino teste). Per il loro secondo album The Chemical Bath, uscito a gennaio, i Demikhov non hanno rinunciato ai riferimenti alla storia e alla scienza dell’Unione Sovietica: il chemical bath del titolo è quello cui ogni anno viene sottoposta la salma di Lenin nel suo mausoleo a Mosca, e in generale tutto il disco è esplicitamente dedicato agli sforzi dei cosmisti russi allo scopo di raggiungere un progresso tecnologico tale da sconfiggere la naturale condizione mortale dell’umanità. Rispetto al primo album Experimental Transplantation of Vital Organs, però, la musica dei Demikhov nel 2023 appare procedere in maniera ancora meno ortodossa lungo i binari tracciati dal filone noise rock nostrano (comunque ancora estremamente riconoscibili, per esempio nel groove terremotante con cui si apre The Leader Is Dead and Everyone Is Grieving). Grazie a un utilizzo pervasivo di elettronica arcigna e ominosa, che costruisce le fondamenta soniche su cui si erge il suono più rock di chitarra, basso e batteria, la musica di The Chemical Bath si spinge verso gli estremismi raccapriccianti del drone metal in stile Khlyst (cfr. Science! Science! Science!) e, soprattutto, verso l’apocalittico post-metal dei Neurosis della seconda metà degli anni Novanta. Sono questi ultimi il riferimento che viene in mente più spesso sul finale di The Leader Is Dead and Everyone Is Grieving, sull’intera Abrikosov Formula e in special modo sulla conclusiva, pachidermica Mausoleum, che alterna le cadenze fangose dello sludge metal a sfuriate a metà tra screamo e black metal e, ovviamente, a folate desolanti di elettroacustica radioattiva. A confermare la vicinanza concettuale con i Neurosis, in un’intervista per ImpattoSonoro il gruppo ha rivendicato l’enorme lavoro in fase di post-produzione per la realizzazione delle infiltrazioni elettroniche  «che potrebbero da sole costituire un disco a parte», per cui il pensiero va con ancora più decisione verso l’analogo esperimento realizzato con i Tribes of Neurot ai tempi di Times of Grace. Come accade molto spesso a chi si cimenta in quest’ambito, a volte i Demikhov si impantanano eccessivamente nella ripetizione ostinata tipica di molto sludge più moderno; loro però sono molto bravi a sopperire a questi limiti in fase di scrittura grazie a un impatto timbrico rumorosissimo ed esplosivo, che con l’utilizzo sagace del noise convoglia il clangore dei primissimi Swans e dei Godflesh. Bello avere gruppi così in Italia.

Demoniac – Nube negra (Edged circle)

Il thrash metal, specie nelle sue varianti più prossime al black e al death metal, ha sempre avuto un rapporto piuttosto stretto con l’America Latina: basti pensare alla scena brasiliana di Sepultura e Sarcófago, che è giustamente una delle più celebrate al mondo. In questo senso è forse poco sorprendente il fatto che, in un periodo storico in cui il thrash mondiale non gode di una forma esattamente smagliante, l’America del Sud sia tornata centrale nelle sorti del genere. Come menzionavamo di sfuggita alla fine del nostro ultimo articolo sui King Gizzard & the Lizard Wizard, negli ultimi anni il panorama cileno si è imposto come uno degli epicentri del rinascimento thrash grazie a un nugolo di formazioni, spesso legate incestuosamente da uno o più elementi in comune, che ne hanno rivisitato più o meno ogni declinazione – da quella più classica legata ai primi Metallica (Critical Defiance), a quella più estrema nella vena degli Slayer (Parkcrest) se non in quella della prima ondata di black metal (Hellish), fino a quella più progressiva (Ripper). I Demoniac appartengono all’ultimo di questi filoni e, nonostante un’irruenza estrema molto kreatoriana, sono i più sofisticati del lotto: l’eloquio melodico, il gusto elaborato e quasi neoclassico degli assoli (di chitarra soprattutto, ma anche di basso e – talvolta – pure di clarinetto) e l’architettura dei brani sono ovviamente discendenti della tradizione di Coroner e Mekong Delta.
Il loro ultimo album Nube negra è stato pubblicato a inizio settembre, e nonostante vari rimpasti nella line up prosegue più o meno fedelmente nel solco del precedente So It Goes. A voler fare i sommelier a tutti i costi, si può osservare una leggera riduzione del tasso tecnico e un maggiore gusto per digressioni melodiche avvolte in un’atmosfera sinistra, come sul finale di Ácaro, sul grottesco esperimento progressive/circense di Synthèse d’accords (con tanto di tastiere e fisarmonica a suggerire il riferimento dei Peste Noire di L’ordure à L’état pur) e su Granada, che è forse il momento più luminoso di tutto Nube negra. Ciò non cambia comunque il fatto che per chi conosceva i Demoniac già dai tempi di So It Goes, questa volta ci sono relativamente poche novità – il che riduce di molto il fattore sorpresa che aveva giocato un ruolo cardine nell’apprezzamento del suo predecessore: d’altronde, abbiamo avuto tre anni di tempo per assimilarne e metabolizzarne le peculiarità timbriche e stilistiche (e perché no, anche per imparare a sopportarne certe tecnicaglie un po’ piacione). Quindi il consiglio è il seguente: se vi piace il thrash metal e non conoscete i Demoniac, ascoltate So It Goes. Se già li apprezzate, invece, provate anche Nube negra senza indugio – rimane ancora tra il meglio che il thrash metal abbia da offrire nell’anno del Signore 2023.

Formless Mass – Invalide (Edgewood Arsenal)

La Edgewood Arsenal è una minuscola realtà americana che dal 2016 assolve a un unico ruolo: licenziare i più disparati progetti che coinvolgono Tony Petrocelly, multistrumentista di stanza in Virginia nonché fondatore dell’etichetta. Per la maggior parte, i vari gruppi allestiti da Petrocelly si sono mossi nell’ambito del death metal e del grindcore; questi Formless Mass, però, sono tutta un’altra bestia. Il loro debutto Invalide è, a grandi linee, un concept album sulla malattia mentale: non mi è ben chiaro quanto i Formless Mass siano interessati a descrivere l’esperienza alienante della psicopatologia in sé, e quanto invece vogliano esprimere l’esperienza disumanizzante e degradante del trattamento sanitario dentro a un manicomio – ma a giudicare dalle atmosfere brulle e apocalittiche che una musica tanto estrema convoglia propenderei per la seconda. Lungo quattro tracce di durata estesa ma variabile (si va dai quasi otto minuti di Démence ai quindici di Catatonique), Invalide fagocita il lessico del metal estremo più frastornante e rumoroso (che sia black, death, sludge o drone metal poco importa) rileggendolo però tramite la sintassi della power electronics e dell’harsh noise: rombi di batteria che fanno pensare ai Khanate vengono sommersi da ispide dissonanze elettroacustiche; il suono iper-saturo del basso elettrico si confonde tra le soffocanti distorsioni della power electronics; uno scream torturato emerge tra caotiche frequenze di rumore bianco. Rispetto ad analoghi esperimenti di commistione tra metal estremo e noise risalenti al recente passato, come quello (invero più riuscito) dei Plasmodium di Entheognosis, i Formless Mass di Invalide suonano sensibilmente più affrancati dal panorama rock e sembrano dirigersi con decisione verso i territori bazzicati dai Black Vomit, dagli Abruptum, o addirittura dai Ramleh, e forse è proprio per questo il motivo per cui la loro musica suona discretamente più originale e sinceramente raccapricciante di molti altri competitor nell’ambito estremo. È altrettanto vero che quarantacinque minuti sono un po’ troppi rispetto alla quantità di idee e alla varietà di prospettive da cui i Formless Mass approcciano la propria formula: nelle fasi finali dell’ascolto, Invalide finisce per suonare più estenuante che terrificante. Rimane comunque un ascolto consigliato a chiunque sia curioso delle propaggini più curiose e bizzarre della materia metal.

Martre – Ofelia (These Hands Melt)

Il danese Michael Andersen – colui che si cela dietro il moniker Martre – ha cominciato a calcare la scena black metal europea intorno al 2018 pubblicando alcuni singoli ed EP di cui non conosco mezza nota, e sinceramente mi sorprenderebbe se anche solo uno dei nostri lettori potesse vantare il contrario. Verso la fine dello scorso febbraio il progetto Martre ha pubblicato il suo album d’esordio Ofelia tramite la These Hands Melt, una neonata etichetta nostrana: forse è per questo che, delle tre recensioni di questo disco che si possono trovare su internet al momento della stesura di questo pezzo, una sia proprio quella di Metalitalia che mi ha fatto scoprire questo disco. Ofelia è un lavoro assolutamente bizzarro: di base, si avrebbe la tentazione di inquadrarlo come un’interpretazione quasi parossisticamente raw e oltranzista del black metal a tinte industriali dei Mysticum di In the Streams of Inferno, talmente accelerato da sconfinare nel grindcore degli Anaal Nathrakh in più di un’occasione, ma il senso melodico è quello struggente e sanguinante di Leviathan. Al fine di convogliare un’emotività tanto negativa, oltretutto, Andersen opta per una scelta dei suoni eccezionalmente torbida – talmente lo-fi da generare un impasto distorto che qua e là risulta semplicemente inintelligibile (cfr. Silence of the Damned). Il tremolo picking grattugiato sulle chitarre si confonde con il battito (spesso, in realtà, piuttosto elementare dal punto di vista ritmico) della drum machine, con lo scream lacerato e filtrato alla maniera di Burzum, e con una pletora di suoni e radiazioni di fondo di cui si fa fatica a riconoscere l’origine: sono tastiere, campionamenti di rumori assortiti o assurdi effetti di chitarra quelli che si sentono per tutta la title track?
Eppure, in questo marasma così opaco e confuso, può emergere un inquieto arpeggio di chitarra acustica (Show Me Your Darkness), una digressione che si libra dal tessuto black metal per congiungersi a sonorità più affini al rock gotico e dark in stile primi Cure (Voices in the Ashen Winds), dei canti gregoriani deformi (I Dødens Have, Pt. I), qualche dolorosa apertura melodica nella vena dei Malvery (I Dødens Have, Pt. IV). Complessivamente, Ofelia è un ascolto contraddittorio – e non potrebbe essere altrimenti, visto che per buona metà del disco non si capisce bene che cosa si stia ascoltando. Eppure, viene difficile non riconoscere il fascino curioso che suscita una prospettiva così ermetica al black metal, soprattutto alla luce della varietà di soluzioni che Martre impiega invece lungo i quattro movimenti di I Dødens Have. Bisogna vedere se in futuro Andersen riuscirà a tramutare questa curiosità in effettivo interesse.

Odz Manouk – Bosoragazan (Բոսորագազան) / Ծուռ (Tzurr) (Blood Coloured Beast)

Tra il 2010 e il 2013 – prima di sparire senza lasciare alcuna traccia – Odz Manouk ha incarnato una delle personalità di punta della scena Black Twilight Circle californiana. Sull’esordio omonimo, sulla compilation Odour of Dust & Rot pubblicata per Rhinocervs – di cui è egli stesso fondatore – e soprattutto sullo split con Tukaaria (probabilmente, uno dei più grandi documenti del black metal americano degli ultimi quindici anni), Odz Manouk ha ripreso l’idioma più ruvido e crudo della scuola black californiana dei primi anni Duemila (Leviathan e Xasthur in primis) declinandolo però sotto una prospettiva più serpentina e sfuggente. Le strutture dei suoi brani sono discretamente elaborate, mentre il riffing delle sue chitarre, così stratificato e dissonante e reso ulteriormente esoterico da una produzione lo-fi che annega le melodie in un riverbero glaciale, conferisce alla musica un’aura aliena e vagamente psichedelica: è uno dei suoni più peculiari dell’underground americano, e infatti ha continuato a fare scuola negli ultimi anni – ne parlavamo non a caso proprio in apertura al nostro pezzo su Kostnatění.
Quest’anno, con stupore generalizzato tra le 500 persone al mondo che lo seguono, Odz Manouk è tornato da un oblio di dieci anni con due dischi – Bosoragazan (Բոսորագազան) e Ծուռ (Tzurr) – entrambi registrati tra il 2020 e il 2022, entrambi pubblicati lo scorso 6 luglio. Contando anche la forte omogeneità manifestata dal materiale nell’arco dei due dischi, nonostante non sia sicuro al 100% che l’autore li voglia considerare come un effettivo doppio album, viene facile interpretarli come due parti della stessa opera. A livello stilistico, non siamo su territori troppo distanti da quelli che Odz Manouk bazzicava una decina di anni fa, anche se a questo giro la fedeltà della registrazione è decisamente migliorata: la rawness caotica e malvagia che connotava i dischi passati si è sublimata in un suono più scintillante, per quanto comunque tagliente (abbastanza prossima a quella degli Skáphe, per dire). Questa scelta intacca un po’ l’impatto del materiale presentato su Bosoragazan (Բոսորագազան), che essendo quello maggiormente radicato nel lato old school di Odz Manouk perde un po’ quegli spigoli arcigni che conferivano fascino alla musica del disco eponimo. Ma nei momenti in cui la scrittura si fa più progressiva e gli arrangiamenti diventano più stratificati, lambendo quasi l’erudizione dei Cobalt, un suono così nitido valorizza tanto il melodismo sinuoso delle parti di chitarra quanto i germogli di tastiere che fanno da controcanto sullo sfondo, riuscendo felicemente nella missione di aggiornare il sentimento struggente di un pezzo come The Sloth (dallo split con Tukaaria) ai mezzi tecnici del nuovo black metal americano. Brani come The Last Bastion of the Serpent’s Tongue e Requiem for a Kingdom That Never Was (da Bosoragazan (Բոսորագազան)), e la quasi totalità di Ծ​ո​ւ​ռ (Tzurr) – con vertice indiscusso nella conclusiva Անուլիոս (Anulios) – sono tra il meglio che potrete ascoltare in ambito estremo nel 2023: recuperateli.

Thantifaxath: Hive Mind Narcosis (Dark Descent)

Dei Thantifaxath si sa molto poco, a parte che sono in tre, che sono canadesi, e che da una dozzina d’anni suonano una delle forme di black metal più cerebrale sulla piazza. Ai tempi del loro primo album Sacred White Noise, uscito nel 2014 per la Dark Descent Records, si erano distinti per una peculiare declinazione del filone technical e dissonante del black metal che, pur mantenendo alcuni punti di contatto con i riferimenti più comuni del genere come Deathspell Omega e Krallice, esibiva un sound glaciale, algido e industrialeggiante più affine a quello dei Blut Aus Nord o degli Abigor del bellissimo Time Is the Sulphur in the Veins of the Saint. Sul successivo EP Void Masquerading as Matter, del 2017, le loro velleità sperimentali e poliglotte si erano addirittura sublimate in un pezzo di orrorifica musica corale (nulla di speciale in realtà, ma tanto è bastato per parlare di classica contemporanea a una buona fetta di ascoltatori).
Quest’ultimo Hive Mind Narcosis, pubblicato a giugno dopo quasi sei anni in cui i Thantifaxath sono completamente spariti dal mondo del visibile, prosegue quanto iniziato con Sacred White Noise proponendo di nuovo un’interpretazione particolarmente chirurgica del verbo black metal. I riff sono dissonanti e convoluti, finendo per ricordare da molto vicino certe cose di Jute Gyte; l’interazione tra chitarre, basso e (occasionalmente) tastiere produce disarmonie oblique che discendono direttamente da quelle dei King Crimson (ovviamente, epoca Larks’ Tongues in Aspic e Red) e della Mahavishnu Orchestra (sentite se la cadenza su Burning Kingdom of Now non vi ricorda The Dance of Maya); l’andamento ritmico è ondivago e fratturato, con continui sbandamenti metrici e cambi di tempo a rendere ulteriormente frastornante l’evoluzione di brani che raggiungono senza difficoltà i sei, sette, a volte pure dieci minuti di durata. Anche la tensione surreale e angolare che serpeggia strisciante per tutta la durata di Hive Mind Narcosis, dal sapore tipicamente canadese, è quella che già si poteva apprezzare su Sacred White Noise: su brani come Hungry Ghosts si può pensare pure di star ascoltando una mutazione in chiave black metal della musica dei Voivod dell’epoca 1988-1993. A questo punto la domanda sorge spontanea: per quale motivo si dovrebbe ascoltare Hive Mind Narcosis anziché Sacred White Noise, se sono tanto simili? La risposta è, molto prosaicamente, che i Thantifaxath questa volta si sono dati una regolata e hanno ridotto le tendenze centrifughe della loro musica, dosando con più oculatezza le sinistre aperture di tastiera ed elettronica, centellinando gli esperimenti più avant-garde di ispirazione accademica (che, purtroppo, ai Thantifaxath non riescono così bene), e in generale rendendo meno fitto il volume di stimoli nei brani. Alla fine dell’ascolto ci si arriva comunque esausti e provati, soprattutto a causa di una Sub Lilith Tunnels che mette a dura prova i nervi dell’ascoltatore, ma sembra che i Thantifaxath siano molto prossimi a sfornare un definitivo monumento del black metal tecnico contemporaneo. Li aspettiamo frementi.

Thy Darkened Shade: Liber Lvcifer II: Mahapralaya (W.T.C.)

Il duo Thy Darkened Shade si è formato ad Atene nel 1999, ma ha cominciato a pubblicare dischi soltanto recentemente – a partire dal 2012. La loro musica è salita all’onore delle cronache degli addetti ai lavori con Liber Lvcifer I: Khem Sedjet, che nel 2014 aveva proposto al mondo una curiosa formula di black metal contesa tra l’afflato melodico dei Dissection e le partiture più progressive degli Emperor di Anthems to the Welkin at Dusk, con in più un livello di sofisticazione esecutiva talmente elevato da suggerire paragoni con l’attuale panorama del death metal tecnico (anche per via della presenza del batterista Hannes Grossmann, già nei Necrophagist e negli Obscura). Il risultato, però, non era ispido o aspro come quello di altre formazioni technical black metal contemporanee: il suono rotondo e l’equalizzazione professionale esaltavano una componente più morbida della loro musica, che aveva la gentilezza degli Opeth e quel melodismo, struggente e romantico ma comunque epicheggiante, tipico di diverso black/death greco degli anni Novanta (qualche riferimento esplicito per i più curiosi: Varathron, Rotting Christ, Horrified e Nightfall). In questo senso, anche se privi della dimensione sinfonica e magniloquente di Septicflesh e Necromantia, è indiscutibile il legame tra i Thy Darkened Shade e la classica scuola ellenica di metal estremo: non è un caso che su una traccia figurasse come ospite proprio George Zacharopoulos, uno dei numi tutelari del black metal greco di fine millennio. Se spendo così tante parole per quel disco è soltanto perché il suo seguito Liber Lvcifer II: Mahapralaya, uscito a nove anni di distanza, riprende in maniera estremamente fedele lo stile esibito nel primo volume di Liber Lvcifer; per non farsi mancare niente c’è pure di nuovo Grossmann come ospite alla batteria, a dare di nuovo un twist death metal, anche se a essere del tutto sinceri Liber Lvcifer II suona più propriamente black del suo predecessore. Le differenze più sostanziali si osservano nella durata complessiva dei brani e di tutto il disco: rispetto al primo capitolo di Liber Lvcifer, i Thy Darkened Shade hanno sfrondato un quarto d’ora netto, non avventurandosi oltre la soglia dei dieci minuti. In questo modo, la loro formula suona più compatta, diritta al punto, e più efficace. Si tratta di lavori comunque molto simili dal punto di vista stilistico e qualitativo, perciò nel caso apprezziate uno dei due il consiglio è quello di recuperare anche l’altro. 

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia