REZZETT – MEANT LIKE THIS
La musica elettronica ballabile gioca la sua partita sotto regole un poco più rigide rispetto ad altri generi musicali. Sebbene con l’evolversi della forma d’arte e della sensibilità popolare le possibilità espressive per far muovere il culo alla gente si siano ampliate, certi elementi o emozioni sono piuttosto difficili da inserire dentro a un brano in una maniera che abbia senso. L’abilità di un musicista house o techno diventa allora anche il riuscire a caricare i propri pezzi di profondità timbrica ed estetica senza far perdere loro quella componente viscerale, riuscire a far stare in piedi castelli di carte che sembrano violare ogni legge della fisica. Ascoltando il nuovo lavoro del duo inglese Rezzett è impossibile non perdersi in considerazioni di questo tipo: il modo in cui beat dinoccolati vanno a contrastare campionamenti rumorosi e sfilacciati rende chiaro fin da subito come uno degli obiettivi principali del disco sia la creazione di una musica particolare e composita, a tratti quasi autistica, che però rimane sempre salda nel suo voler trascinare l’ascoltatore verso il movimento. Il duo gioca ad arte col rumore e la spanatura dei suoni, unendo l’ossessività meditativa della musica house più freak alla carica imprevedibile dei beat UK bass e jungle; sbavature armoniche e stramberie nelle scelte sonore introducono poi una costante punta di disagio, mantenendo chi ascolta perennemente sull’attenti. Meant Like This naviga ecletticamente un ampio bacino di influenze, passando da marcette metalliche sopra a cui incespicano spartani giri di synth (Spicy Pipes) a soundscapes eteree dove tappeti ambientali si mischiano a rumore statico, per poi venire ritmicamente squarciate da un pulsare elettronico che scandisce tutto il pezzo (Chirrup). La cosciente degradazione del suono porta alla mente una versione più addomesticata dei lavori solisti di Pete Swanson – forse non altrettanto capace di rompere gli stilemi dei generi cannibalizzati, ma comunque generatrice di un sound interessante e creativo. Per far funzionare una scelta così raffinata c’è bisogno di gestire le dinamiche dei brani con molta cura, facendo continuamente dialogare ritmo e melodia, a volte omogeneizzando i due, altre volte usando uno per far risaltare l’altro. Ci sono poi continui shift nei riferimenti musicali di base che mettono ancora altra carne al fuoco: pezzi come Hevvy passano improvvisamente dall’outsider house a una techno tinta di bassi dub, tenendo però il dipanarsi ambientale degli strumenti come fil rouge. A dirla tutta, nonostante le molteplici intuizioni interessanti disseminate lungo il disco, alla lunga i ghirigori sbilenchi di synth su cui così tanta di questa musica sembra basarsi finiscono per stancare un poco, e il disco sembra quindi suonare leggermente più monotono di quanto dovrebbe dato il gran numero di influenze. È però innegabile che Meant Like This diverta, coinvolga e faccia ragionare sul genere per buona parte della sua durata: non saranno certo un paio di pezzi più deboli a togliergli il suo valore.