AROOJ AFTAB, VIJAY IYER & SHAHZAD ISMAILY – LOVE IN EXILE
Se dovessi indicare quale disco ho rimesso su più volte in questi primi mesi del 2023, non avrei alcun dubbio: si tratterebbe certamente di Love in Exile di Arooj Aftab, Vijay Iyer e Shahzad Ismaily. Al lavoro, mentre cucinavo, nei momenti di svago, per strada o in casa, di giorno e notte: sono convinto di aver messo play troppe volte per un LP che, all’apparenza, sembra così semplice. Love in Exile, infatti, pare un un album che spinge per ridurre al minimo le possibilità di fuga dei suoi protagonisti: Aftab con il suo poderoso Vulture Prince aveva cercato di restringere e ingabbiare le divagazioni del ghazal in una orchestrazione minimalista che offriva il suo unico svago divertito nella (bellissima) Last Night con il suo incedere dub; Iyer, in tutti i suoi lavori dal suo passaggio a ECM nel 2014 con Mutations, sembrava essere perlopiù interessato a ridurre le deflagrazioni pirotecniche del suo superbo catalogo pianistico per la ACT in mulinelli meditabondi; Ismaily è un nome sconosciuto ai più, ma che vanta sotto la sua cintura collaborazioni nei Secret Chief 3, dischi con Thor Harris e con figure leggendarie del calibro di Laraaji.
Sarebbe facile declinare le coordinate del disco: l’appoggio ultra-minimale alla voce di Aftab è una tremolante impalcatura di elettronica e pianoforte, una serie di fili sospesi su cui gli altri due strumentisti non si ostacolano mai, riuscendo di volta in volta a guadagnare le luci della ribalta e ad avvicendarsi sotto di esse senza fare sì che nessuno dei tre emerga come assoluto protagonista. Love in Exile suona come uno sforzo collaborativo verso quella musica globale e senza confini che dilaga un po’ nel jazz e un po’ nella ambient, e con i suoi lunghi pezzi snocciola languidamente dichiarazioni appassionate di amori perduti cantate da Rumi per la prima volta secoli fa. È un disco che si crogiola nella semplicità con cui riesce a coniugare senza nessuno sforzo apparente campi di gioco così differenti come quelli della tradizione urdu/pakistana e del jazz contemplativo e d’avanguardia, creando uno spazio nuovo che si piazza in modo liminale e straniante tra entrambi, sottraendo e inglobando a sé punti di contatto che non si sentivano in dischi storici che partivano da concetti simili come, per dire, East Meets West. Questo anche perché sia Aftab che Ismaily non provengono da un background jazzistico, e perciò appare limitante voler rinchiudere le coordinate attraverso cui analizzare un disco del genere in quelle puramente jazz o in quelle della musica etnica, per la stessa preponderante presenza di Iyer all’interno dello sviluppo delle lunghe riflessioni di Shadow Forces o Eyes of the Endless. Eppure.
Eppure, come Borges dichiarava di non essere mai riuscito a leggere lo Ulysses di Joyce, non sono sicuro di aver ancora potuto ascoltare per davvero Love in Exile. C’è qualcosa che si aggira tra i solchi del disco, un’indefinibile e sfuggente figura che increspa le onde del tappeto elettronico, che mostra due piccoli, sfavillanti fari tra l’erba alta e secca quando meno te lo aspetti, da To Remain / To Return fino a Sharabi. Questa tigre, perché di tigri stiamo parlando, rimane in agguato e un brivido freddo ti corre lungo la schiena, perché sai che oramai puoi soltanto aspettare di essere attaccato. Ecco, questo è Love in Exile: la quietudine dell’erba nel vento fresco di primavera prima della battaglia per la tua vita.