YASUAKI SHIMIZU – KIREN
Il fatto che le case editrici scelgano quali libri mandare in ristampa in base alle tendenze di #BookTok è ormai parte della normalità. Dovremmo quindi sorprenderci che le ristampe di certi dischi possano essere orientate dalla popolarità che riscuotono su Youtube? Certamente no, pazzu ragazzu del web. Guardiamo ad esempio ai casi di Midori Takada e Yasuaki Shimizu, due pionierə della commistione tra musica tradizionale giapponese e nuove forme di sintesi elettronica, che nell’ultimo decennio hanno visto capitoli importanti della propria produzione di inizio anni Ottanta assurgere ad una vasta quanto inattesa popolarità tra le giovani generazioni di ascoltatrici e ascoltatori occidentali. Per dischi come Through the Looking Glass di Takada, Kakashi di Shimizu o Utakata no Hibi dei Mariah, gruppo che ha visto l’importante contributo proprio di Shimizu, il motivo pare proprio risiedere nel modo in cui alcune loro caratteristiche si incastrano favorevolmente alla realtà di Youtube:: copertine fascinose e colorate che catturano l’occhio e la curiosità (nel caso di Kakashi addirittura un gatto, che come sappiamo è un credito di attenzione sempre valido su internet), musica sognante che flirta con l’ambient e che si presta più facilmente ad essere lasciata andare in sottofondo durante il supplizio di Tantalo del multitasking quotidiano, generando così “visualizzazioni prolungate” che portano l’algoritmo a premiare il contenuto. Per i tipici meccanismi a loop, questi dischi hanno iniziato ad essere suggeriti ad una gamma sempre più vasta di utenti e i video dei full album avevano accumulato oltre un milione di visualizzazioni, prima che Youtube tirasse giù tutto generando un sottobosco di playlist; le ristampe sono arrivate dopo lo stabilirsi di questo fenomeno mediatico e sono andate a ruba, portando con sé anche un rinnovato interesse a livello di critica. Come conseguenza, Takada ha ripreso a fare tour e pubblicare dischi dopo più di dieci anni di silenzio, fino al recentissimo You Who Are Leaving to Nirvana di cui abbiamo già parlato con incanto; molte più persone hanno potuto apprezzare i mezzi miracoli sui cui ha messo le mani Shimizu, dal territorio sonoro immaginifico creato su Kakashi attingendo da dub, jazz e loop elettronici in maniera personalissima e innovativa, alla trasformazione dei Mariah da gruppo AOR a sintesi raffinata di new wave, synth pop e kayōkyoku. Viva l’assurdità del mondo, tutto è bene quel che finisce bene.
La pubblicazione di Kiren nasce proprio da questo rinnovato interesse verso la musica di Shimizu, non a caso viene dato alle stampe da quella Palto Flats che si era occupata della riedizione di Kakashi nel 2017. Si tratta di uno dei tanti album quasi-ultimati eppure mai-pubblicati della storia della musica, categoria che solitamente può eludere con ottime ragioni l’interesse contemporaneo, se non fosse che questo materiale è stato registrato da Shimizu nel 1984 e cioè teoricamente al proprio apice creativo: Utakata no Hibi è dell’82, Kakashi esce l’anno successivo, le plasticosità pop di Dementos arriveranno solo nell’86. Lecito dunque avere delle aspettative e ancor di più dopo che l’apertura di Ashita mostra subito il meglio di Shimizu: una solennità presa direttamente dalla musica cerimoniale giapponese ma resa vibrante e giocosa dalla resa sul sintetizzatore, bassi salterini in bella evidenza che mandano in diretta ricordi di Talking Heads e ricami di melodie percussive di scuola minimalista. Dall’altro lato della scaletta gli fa eco Ore No Umi, che usa in maniera ingegnosa un breve sample di chitarra e un insistito drone circolare di sassofono per preparare il palcoscenico a una brillante interpretazione gagaku in veste synth funk, come se fosse la cosa più normale del mondo. Insomma, due pezzi assolutamente a livello di Utakata no Hibi, che possono essere visti come un’ulteriore elettrificazione danzante delle atmosfere di quell’album. I due fratelli minori di questi brani, Asate e Shiasate, hanno idee simili e sono più frenati a livello di soluzioni e sonorità, ma forse proprio in virtù di questa maggior semplicità evidenziano in maniera chiara l’importanza della ripetizione nella musica di Shimizu: fondamento per supportare e potenziare melodie spesso bellissime, ma anche importante tramite espressivo. Quest’ultimo è uno dei principali punti di interesse di Kiren, su cui trovano spazio alcune delle produzioni più scure ed ossessive ad opera di Shimizu. Il tema di sintetizzatore che apre Momo No Hana vive di una desolazione difficile da immaginare tra questi solchi, eppure eccolo lì che volteggia nel vuoto, ancora, e ancora… gradualmente, come se li raccogliesse nel suo trascinarsi, inizia a portarsi dietro dei campionamenti che, oltre ad avere differenti qualità audio, sembrano provenire da contesti molto diversi tra loro. La varietà del cut-up è una luce sonora che fa emergere ancor di più l’ombrosità di fondo del pezzo, producendo un contrasto che riesce man mano a diventare significato coerente, seguendo le direzioni già tracciate tra i solchi di My Life in the Bush of Ghosts. Altrove l’ossessione è puramente ritmica, come in una Peruvian Pink che non sfigurerebbe nelle compilation tra industrial e dancefloor ad opera di Trevor Jackson, o ancor di più in una Kagerofu che fa esercizio di spiazzamento: esordisce con un sample di voce e percussioni che sembra presagire una danza brasileira ma il cui destino è invece quello di piantarsi in una palude, ripetendosi incessantemente tra sintetizzatori dalla gravità di organi da chiesa e cadenze ritmiche ottuse stile Justin Broadrick ante-litteram.
Si tratta pur sempre di registrazioni rimaste negli archivi per più di tre decenni, per le quali in più di un frangente si percepisce di stare ascoltando qualcosa che non ha raggiunto la propria forma definitiva: probabilmente manca dell’editing a Peruvian Pink, per cui gli otto minuti di durata suonano eccessivi, così come ci sono ampi spazi per sviluppi mancati tra i temi a pennarello grosso di Asate e Shiasate. O forse sono semplicemente brani minori, chi lo sa. Sappiamo però che Kiren è colmo di idee, alcune delle quali poco esplorate nella discografia di Shimizu, che c’è più di un momento che fa drizzare le orecchie e che questi suoni hanno mantenuto lo scintillio originario eludendo la polvere del tempo. Da ascoltare anche senza suggerimenti dell’algoritmo.