JOHN ESCREET – SEISMIC SHIFT
Il pianista John Escreet è nato nel 1984 a Doncaster, in Inghilterra, ma si è trasferito a New York nel 2006, giusto in tempo per mancare l’eruzione di popolarità dell’emergente scena jazz inglese. L’approdo alla East Coast, dove ha completato i suoi studi musicali, l’ha quindi formato come artista a 360 gradi, tanto come musicista quanto come compositore: la sua cifra stilistica è stata fortemente influenzata dalla visione di alcuni dei più illustri esponenti della scena newyorchese degli ultimi vent’anni, che vanno da Jason Moran a David Binney e Tyshawn Sorey. Nei dischi incisi a suo nome, a partire da Consequences del 2008, è sempre rintracciabile lo stesso approccio eterodosso che coniuga un approccio ritmico nerboruto di estrazione più funk e popular con un’elaborazione armonica più sofisticata, egualmente legata alle esperienze del free jazz e della classica contemporanea. Anche per questo, abbiamo eletto Exception to the Rule come uno dei nostri dischi preferiti degli anni Dieci.
Quest’ottobre, Escreet è tornato sulle scene con Seismic Shift, il suo nono album in studio e il secondo licenziato dalla Whirlwind Recordings (che tante soddisfazioni ci ha dato in passato) dopo Sabotage and Celebration del 2013. Soprattutto, però, Seismic Shift è il suo primo lavoro registrato nel tradizionale formato in piano trio, con cui prima o poi qualsiasi pianista jazz è destinato a confrontarsi. Per Escreet questo momento è arrivato inusualmente tardi nella sua carriera, e il fatto diventa ancor più sorprendente se si pensa che la motivazione che traspare dalle sue parole nel press-kit sia da imputare a una certa insicurezza della sua abilità di dirigere un gruppo. In effetti, nei suoi album precedenti la front line era sempre composta di qualche sassofonista o trombettista di grosso prestigio – tra quelli che si sono misurati con la musica di Escreet, oltre al già citato Binney, ci sono anche Greg Osby, Evan Parker e Ambrose Akinmusire, per dire – ma è comunque curioso scoprire che questa scelta dipendesse anche da una mancanza di fiducia nelle proprie capacità come pianista e leader, soprattutto considerando la scrittura creativa e le importanti capacità tecniche manifestate fin dal suo esordio su full-length.
Ciò nonostante, complice un estensivo periodo di pratica su un pianoforte a coda durante il lockdown, questa consapevolezza è infine arrivata; anzi, il John Escreet che si mette alla prova nelle nove tracce di questo Seismic Shift sembra essere sempre stato a suo agio nella dimensione del piano trio, che interpreta in maniera estremamente moderna e originale. Da un punto di vista ritmico è evidente l’influenza sostanziale esercitata dai dischi per la ACT del trio di Vijay Iyer, soprattutto per come il contrabbassista Eric Revis (che vanta un’esperienza in ogni punto dello spettro avant del jazz americano) e il batterista Damion Reid (che magari conoscerete soprattutto per il suo magistrale lavoro nei Sélébéyone di Steve Lehman, di cui vi abbiamo parlato a più riprese) interpretano i loro compiti. Di Reid abbiamo imparato da tempo ad amare lo stile frenetico, esplosivo e all over the place, e qui abbiamo nuovamente l’occasione di apprezzarlo tra scariche tonanti sul rullante e rumorosi colpi sul crash che sovente mettono in mostra una delle sue influenze meno chiacchierate, quella di Dave Lombardo; ma è probabilmente Revis la personalità che gioca il ruolo più rilevante nell’impostare il peculiare groove di Seismic Shift. Le linee di basso che suona su questo disco sono radicate in quella concezione moderna dello strumento, venata anche di sfumature hip hop e popolarizzata in ambito jazz da musicisti come Tarus Mateen (del trio di Jason Moran) e da Stephan Crump (del trio di Iyer): è in questa tradizione del contrabbasso jazz che va interpretato l’elastico tempo ternario che imbastisce su Digital Tulips, o il walking bass che si fa strada sotto ai temi di pianoforte in RD.
È proprio Revis ad ancorare la musica di Seismic Shift a una dimensione più materica e pulsante, visto che la musica del leader è rivolta a tendenze ben più cerebrali – tant’è che, quando Revis imbraccia l’archetto e gioca con tecniche più oblique, la musica volge verso un camerismo astratto che richiama le atmosfere contemplative del trio di Tyshawn Sorey. In generale, il pianismo di Escreet sembra favorire un recupero di quell’intensità aggressiva che era propria di Cecil Taylor, filtrandone l’influenza tramite l’esperienza dei gruppi di Matthew Shipp: il suo fiero approccio allo strumento indulge volentieri in dinamiche forti e fortissime, il che conferisce alla sua musica un’aura minacciosa che persiste anche quando il materiale melodico di per sé rimane ancorato a contesti meno estremi (cfr. RD). L’elaborato linguaggio armonico adottato da questo trio, che si colloca in una zona franca contesa tra le aspre dissonanze della libera improvvisazione e la gentilezza della scrittura tonale, non aiuta a mitigare l’attacco del pianoforte; anzi, il modo in cui queste due anime si ritrovano sistematicamente a coabitare gli stessi spazi fa percepire una tensione latente anche nei momenti più distesi, che infatti il più delle volte si risolvono effettivamente con l’approdo verso territori post-free. L’esempio paradigmatico, in questo caso, è Perpetual Love, che si apre quasi come ballad per poi trasformarsi in uno sfilacciato esercizio improvvisativo, con soltanto un assolo di contrabbasso a separare le due differenti sezioni del brano; ma è un approccio che può essere ritrovato anche in Digital Tulips, che parte come un incalzante post-bop sulla scia di Andrew Hill e si increspa progressivamente, fino ad arrivare a una piena turbolenza tayloriana sul finale. L’unico vero momento di pace in questo senso è Equipoise, non a caso l’unico numero non originale in tutto Seismic Shift: la composizione è infatti di Stanley Cowell, uno dei più influenti pianisti della scena jazz americana dalla fine degli anni Sessanta in poi, da uno dei suoi più celebrati dischi solo – cioè Musa – Ancestral Streams. La pronuncia di Escreet è estremamente fedele all’originale: solo l’aggiunta della parte ritmica e di un’elucubrazione puntillistica sul tema nella seconda metà, vagamente più dissonante, la distingue dalla versione di Cowell su quel disco.
Ancor più che questo utilizzo libero dell’armonia, però, a sorprendere è l’interazione melodica tra le parti indipendenti della mano destra e della mano sinistra. Escreet, in certi punti del disco, sembra simultaneamente due pianisti diversi che seguono partiture che interagiscono per contrappunti lineari e controtempi: una mano traccia temi ostinati sul registro acuto dello strumento, l’altra ribatte con accordi dissonanti che perseguono un andamento ritmico fratturato e inintelligibile, in un processo che può rimandare tanto ad Anthony Davis (sullo splendido finale di Outward and Upward) quanto a Matt Mitchell (come intorno a 2:00 su The Water Is Tasting Worse, che ha più di qualcosa a che spartire con certe partiture di A Pouting Grimace). In generale, per tutta la durata di Seismic Shift si rimane senza fiato per le continue invenzioni strumentali del trio e in particolar modo del suo leader, che restituiscono un disco complesso, sofisticato, ma sempre dotato di un’irruenza sonora che non si trova spesso in formazioni così ridotte. Si tratta con ogni probabilità di uno dei più bei dischi in piano trio dai tempi di Accelerando: se siete interessati alle ultime tendenze del pianoforte jazz, fatelo vostro.