CÉCILE MCLORIN SALVANT – GHOST SONG
Non siamo dei grandi interpreti della storia del jazz vocale qua sopra, e immagino che pochi di quelli che ci leggono maneggino l’argomento con rosea grazia. Cécile McLorin Salvant, però, è veramente difficile da schivare: è dal 2010 che in studio caccia un disco come lead ogni tre anni mentre contemporaneamente viaggia in dei gran tour tra Europa e Stati Uniti – un’attività che immagino non le tolga comunque il tempo per celebrare tutti i premi di critica e pubblico che gli arrivano addosso dalle grandi kermesse statunitensi (tra tutte spiccano la nomination del 2013 e la vittoria del 2016 ai Grammy!). Per essere una cantante così apprezzata dal grande pubblico Salvant è riuscita negli anni a incidere dei dischi la cui dignità difficilmente traballa, complici gli strumentisti che accompagnano le sue performance e lo spirito frequentemente sfacciato e scintillante della sua voce, che si trova a suo agio sia nei growl più allusivi di For One to Love (2015) sia nelle armonie geometriche e allo stesso tempo ammalianti che caratterizzano The Window (2018), che ad oggi è sicuramente il lavoro più sorprendente dell’artista.
La prova di quest’anno è l’intrigante Ghost Song, un long play che, pur caricato dell’ingombrante palmarès ereditato dei suoi predecessori, si inquadra su di una decisa quanto semplificata biforcatura. Da un lato lo spirito jazz pop del retaggio di Salvant imposta i brani più mellow del disco in una dimensione sofisticata, da night club, che raramente riesce a spingere oltre la mera calligrafia (succede in alcuni passaggi di piano di Moon Song, e nei luoghi dell’album in cui la prestazione vocale si fa un po’ più acrobatica). Dall’altro lato ci ritroviamo con dei piccoli quadri connotati da colorate venature art a fior di pelle, qui mutuate dal bop e dal vaudeville (Until, Optimistic Voices, The World Is Mean), lì sistemate ad evocare spiriti un po’ più genuinamente avanguardisti: ne sono esempi lucidi la bella Obligation, la spettrale intro di una Wuthering Heights in formato nature e la conclusiva Unquiet Grave, un toccante spiritual ad occhi chiusi che riprende l’omonima canzone popolare inglese. C’è spazio perfino per un cibernetico richiamo alle epopee di una Esperanza Spalding in salsa Holly Herndon nell’inciso di I Lost My Mind, brano in cui il timbro dell’organo imperversa in un refrain spettrale e lancia alla cantante una sfida di interplay ben più aspra di quelle reiterate dalle formazioni jazz con cui la Nostra ha avuto a che fare in Dreams and Daggers o For One to Love.
Tutte queste situazioni sono sempre un po’ al limite del colpo di coda, in costante tensione. I continui enjambement di Ghost Song fanno un po’ il ruolo di una pistola di Cechov pronta a sparare, ma la constatazione inevitabile giunge dopo vari ascolti, e tende a raffreddare gli entusiasmi: la pistola non esplode il colpo, tradendo così la sua promessa narrativa, e Salvant non riesce a gettarsi oltre i limiti della sua inesperienza in questo campo innovativo che, evidentemente, non è ancora del tutto suo. Bagnandosi i piedi in questo nuovo ambito, per giunta, i centri squillanti ed elastici che spadroneggiavano qualche anno fa in The Window lasciano il passo a una scrittura vocale più incerta, frequentemente dispersa negli acuti, e anche questo è un grande peccato. D’altra parte il tentativo di Ghost Song non può essere bocciato, poiché fare un passo indietro sui risultati al fine di particolareggiare la propria musica è chiaramente la scelta giusta per l’artista di Miami, che è ancora piuttosto giovane e può ritrovare la sua dimensione anche al di là del Village Vanguard. Se qualche anno fa la grandezza di Salvant come interprete di jazz vocale è stata nettamente confermata, questo doloroso cambio di rotta potrebbe fissare la musicista nel cielo delle starlet più promettenti del pop contemporaneo. Speriamo ne sia valsa la pena.