MEDICINE SINGERS – MEDICINE SINGERS
La storia dei Medicine Singers è breve, risale al 2017, ma se dovessi fare due calcoli con tutti i nomi presenti nella formazione del disco di cui vi parliamo oggi dovrei lavorare molto di più. Il nucleo dei Singers consta in un gruppo di performer nativi nordamericani che suonano musica per i powwow, delle mastodontiche cerimonie che accomunano svariate comunità appartenenti al gruppo etnico. La musica suonata durante un powwow è particolarmente percussiva, generalmente si articola nel ritmo mantenuto con una host drum, un tamburo posto al centro dei performer, e nel comparto melodico/armonico, in cui le call dell’MC e le response del coro dei partecipanti sono fondamentali, anche se non per forza privi di ulteriori accompagnamenti strumentali. A questo nucleo di Singers nativi americani, che ha riscosso un certo successo nei festival dell’ultimo lustro, si sono accostate figure da tante realtà, e diverse: Yonatan Gat, chitarrista israeliano dei Monotonix, Thor Harris e Christopher Pravdica dagli Swans, la fu Jaimie Branch, trombettista dell’International Anthem e parte degli Anteloper, fino ad arrivare a personaggi un po’ più così come Ikue Mori, direttamente dalla No New York dei DNA e Laaraji, il pianista/zitherista/mbirista che potete ascoltare in Ambient 3 o in decine di uscitacce New Age. Ve l’avevo detto che non sarebbe stato così semplice.
Medicine Singers, l’effettivo debutto dell’ensemble, spinge. Racchiuso tra un’intro e un’outro fin troppo delicate (A Cry e il suo Reprise) il supergruppo si cimenta in un assalto di venticinque minuti che prende come standard dei brani tradizionali powwow e dei pezzi scritti dai Singers, ricamando su di essi delle variazioni e degli accompagnamenti che spaziano dal desert blues di Rumble (omaggio alla hit di Link Wray) a quell’indietronica rumorosa che quest’anno abbiamo già visto con i live dei Congotronics in Hawk Song e Sanctuary. Probabilmente il brano più seducente di tutta la partita è Shapeshifter, un vagheggiamento punk jazz che sabota e interrompe i cori dei Singers con la stessa antipatica malagrazia che avrebbe un DJ che si occupa di plunderphonics e mashup. Ma il personale del disco è abbastanza variegato e presente da lasciare un costante rumore di fondo nei suoi canali strumentali, che più che avventurarsi in continue digressioni verso questo o quell’altro genere tendono a impattare di faccia su dei generici muri di suono che lasciano una marinatura psichedelica a tutto campo, vera cifra stilistica comune dell’album.
Questo bel panino di mixing, idee e ospitate di lusso ha tante dinamiche interessanti (brani cantati in lingue in via d’estinzione, pezzi in cui collaborano Ikue Mori e Ryan Olson, canti che potrebbero risalire a più di un millennio fa – e così via), ma probabilmente la parte più divertente dell’album arriva proprio quando si confronta coi suoi limiti naturali. Il muro sonoro di cui sopra, che risulta dall’accumulazione di tutte queste dinamiche, tende a scaricare la tensione qui e lì con delle splendide farneticazioni elettriche che inciampano e si schiaffano per terra con entusiasmo in sezioni particolarmente avvincenti, come nella seconda parte di Sunset o nella stessa Sanctuary. Nulla di tutto questo ha importanza, però, poiché nel computo finale del disco, a timpani caldi, risuonano molto più tutti gli anthem accompagnati dalle percussioni powwow che i suoi esperimenti elettrici: l’espressività dei cori dei Medicine Singers sommerge completamente il resto dell’album, lasciandoci un po’ dimentichi di cosa sia successo, ma comunque molto carichi per un replay.
Il motivo principale per cui volevamo portarvi l’esempio dei Medicine Singers, però, non risiede tanto nella lodevole qualità del materiale sonoro, quanto nella riflessione generata dalla differenza specifica di questa amalgama di powwow e psichedelia elettrica. Medicine Singers non è un album che attinge all’immaginario nativo americano per lasciare degli svolazzi esotici su strutture rock statunitensi, non è nemmeno un missaggio di sperimentazioni elettroniche e musica tradizionale (altro genere su cui andiamo forti): è proprio un album di canti powwow, non ci sono cazzi. Il fatto che emergano fraseggi di blues grossolano dalla chitarra di Gat e che alcuni passaggi di Branch abbiano una salacia latin funk non può prescindere dalla verità alla base del disco: i Medicine Singers stanno dando vita ad una corpulenta danza powwow, monocorde nei contenuti, entusiasmante nella sua espressività – e stanno sfruttando tecniche, strumenti, canali più globalizzati per dare vigore alla propria idea musicale. Siamo distanti oceani da quel tokenismo tipicamente mainstream in cui l’artista di una data etnia viene posto a cavallo di una musica accessibile al mercato occidentale, sperando che la sua discendenza faccia parlare in giro di certe eco che non esistono granché (sto pensando ad Arca o a Silvana Estrada); ma siamo a una distanza balistica anche da certe inclinature world che in tempi recenti valgono come lucido da scarpe per dischi che altrimenti suonerebbero come una goccia nel mare (il klezmer dei Black Country, New Road è un buon esempio, ma anche tutti gli innesti di gamelan in tanta musica sperimentale).
Quello che ascoltiamo in Medicine Singers è, nella sua lettura più politicizzata, la riscossione di una piccola rata del colossale debito d’oppressione maturato nei confronti dei nativi nordamericani, mentre, rimanendo nel campo della musica considerata in quanto tale, è un’occasione per dare una certa potenza di fuoco e un certo tripudio di tecniche ad un genere di canto che fino a qualche anno fa era relegato alle raccolte etnografiche. Dal punto di vista della differenziazione dell’arte non rimaniamo con troppi dubbi: un lavoro che si appropria di tradizioni altrui e le occidentalizza sarà nel migliore dei casi qualcosa di già sentito (nel peggiore dei casi una merda vergognosa); ma dall’altro lato abbiamo chi si avvale di ciò che l’occidente può restituire per investigare nuove possibilità artistiche a partire dalla propria musica popolare, ampiamente ignorata dal grande pubblico – e possiamo dire che in questi luoghi ci sono decine di migliaia di commistioni inesplorate che possono accendersi e brillare. Qui non ci rimane che constatare l’ovvio: un’operazione di questo genere, anche con un’ossatura molto uniforme, non può che generare delle briciole di meraviglia.