Chiunque tra di noi sia mai stato a un festival almeno una volta nella vita si sarà fatto delle domande fondamentali e senza risposta come: chi avrà scelto questa line-up, e perché? Ma perché proprio questa location? E lo staff, come l’avranno scelto? Ma con che voglia? Ecco, se ve lo siete mai chiesto oggi abbiamo la risposta per voi. Questo perché siamo riusciti a contattare e intervistare Shape, l’associazione culturale che oramai da più di un decennio ha il proprio nome indissolubilmente legato a doppio filo con il RoBOt, il festival di elettronica che si è appena svolto in questo fine settimana a Bologna. Negli anni, l’evento ha ospitato artisti di fama internazionale come i Pan Sonic, Alva Noto, Jon Hopkins, Oneohtrix Point Never e chi più ne ha più ne metta, avendo sempre un occhio di riguardo per tutto quello che audacemente prova a muoversi all’interno degli sventurati confini nazionali. Alle nostre domande hanno risposto Elisa Trento, presidentessa di Shape; Andrea Giotti, direttore esecutivo del festival; e Marco Ligurgo, direttore artistico di questa edizione.
Qual è il ruolo dell’organico di un’agenzia come Shape nella creazione di un festival? Quali sono le fasi fondamentali (e le più complicate, secondo voi) del processo organizzativo di un evento di una portata simile?
Andrea Giotti: Sicuramente uno dei valori aggiunti e dei punti di forza dell’associazione Shape, e che quindi poi si è trasferita nella bontà dell’organizzazione del RoBOt Festival o dei vari eventi in cui si è cimentata, è quella dello staff. La Shape è un’associazione che ormai è attiva dal 2002: nonostante tutto nel corso degli anni molte figure sono rimaste sempre le stesse; quindi c’è un gruppo coeso che organizza il festival che man mano si è confermato nel corso degli anni. Noi le consideriamo sicuramente come un valore aggiunto perché sono persone che credono nel progetto, che mettono molta più passione di quella che può essere quella richiesta a un collaboratore esterno, che sono cresciute insieme a noi e insieme al progetto. Persone che magari hanno iniziato come volontari dieci anni fa adesso sono parte integrante e fondamentale del festival: la vicinanza del personale dello staff è un ulteriore valore aggiunto alla nostra mission.
Quali sono le fasi più difficili? Sono tutte difficili [ride]. Tra le fasi di organizzazione di un progetto di questo genere, sicuramente la progettazione è quella cruciale. Una cattiva o errata progettazione non si risolve poi in corso d’opera con la realizzazione: si possono dopo tappare dei buchi, si possono fare delle azioni correttive, ma se è sbagliata la progettazione fin dall’inizio ne risente poi a caduta tutto il processo di lavoro. Dopo la progettazione, la fase più complicata è la realizzazione stessa. Sicuramente la parte di direzione artistica è fondamentale in una manifestazione come la nostra, perché è evidente che i contenuti in un ambiente come questo la fanno da padrone: se non siamo capaci in qualche modo di rispecchiare l’attualità, o comunque di soddisfare la richiesta del pubblico, questo può essere un problema. In ogni caso, tutte le fasi del progetto sono importanti allo stesso modo per la buona riuscita del festival.
Da dove nasce l’idea della riqualifica degli spazi urbani di una città come Bologna, che per quanto avanguardistica rimane fortemente storicizzata e “conservatrice” in luoghi come il Palazzo di Re Enzo o l’Oratorio di San Filippo Neri?
Elisa Trento: Quest’anno, la nostra visione è quella di un festival diffuso che andrà a far respirare la città di Bologna al proprio pubblico attraversando spazi anche non convenzionali, che è un po’ anche la mission di Shape: nei nostri vent’anni di attività abbiamo portato la musica elettronica ed elettroacustica in luoghi come chiese, musei, e altri spazi considerati normalmente come più istituzionali, e di certo non specificatamente adibiti all’ascolto o al ballo. Così facendo cerchiamo di intercettare anche nuovi pubblici, poiché quelli che normalmente frequentano alcuni dei luoghi che abbiamo scelto probabilmente non sono abituati a vivere e a usufruire di proposte artistiche, sonore e musicali all’interno di questi. Allo stesso modo, chi è abituato a frequentare più propriamente i luoghi dedicati alla musica avrà l’opportunità di vivere la città in chiave di esplorazione: una visione inedita dei propri palazzi, della storia che respira la città, delle architetture tipiche di Bologna. Il nostro obiettivo, quindi, è quello di diversificare proposte artistiche e pubblico per compiere una sorta di esperienza diffusa e condivisa con la volontà di arricchire l’esperienza del festival per tutti coloro che lo frequentano.
Lo scouting degli artisti è in assoluto uno dei punti cardine della buona riuscita del festival: come decidete le line-up di ogni edizione? Reputate che il successo di RoBOt vi abbia spinto verso scelte più coraggiose oppure verso un tentativo di abbracciare una fetta di pubblico più popolare e inclusiva? O magari un mix di entrambe le cose?
Marco Ligurgo: La line-up di ogni edizione del festival nasce dalla ricerca che io, come direttore artistico, effettuo in primis andando in giro in diversi festival internazionali europei e italiani di musica elettronica come anche dai miei costanti aggiornamenti a 360° su ogni tipo di scena e realtà. In linea di massima, quindi, RoBOt è sempre stato un mix tra artisti emergenti, act internazionali consolidati e le nuove proposte, diciamo anche in base ai nuovi dischi che escono, a progetti che abbiano comunque qualcosa da presentare. La novità degli ultimi anni è quella di iniziare a proporre delle produzioni che noi specificamente commissioniamo ad alcuni artisti, come lo sono stati per questa edizione Laura Agnusdei e Daniele Fabris, grazie a una coproduzione ideata assieme al team dei ragazzi di Dancity [festival di musica elettronica che si tiene due volte all’anno a Foligno, ndr], a Riccardo La Foresta e James Ginzburg, ai Salò [neonato collettivo tra i cui membri figurano anche il giornalista Demented Burrocacao e Toni Cutrone, in arte Mai Mai Mai, che abbiamo già intervistato su queste pagine, ndr]. Ovviamente c’è una rete anche di artisti, specie sul territorio italiano, con cui collaboriamo già da diversi anni e che ritornano al festival come fossero una sorta di resident: creare una comunità di artisti all’interno del festival è per noi essenziale e una delle cose che ci rende più felici. Il successo di RoBOt è figlio di un percorso di ormai tantissimi anni, visto che siamo alla tredicesima edizione, e quindi ha avuto tantissime evoluzioni, siamo passati senza soluzione di continuità da edizioni ridotte a eventi grandissimi; evoluzioni che sono state anche dettate da eventi come la pandemia e che ci hanno spinto a organizzare diversi modi di pensare un festival di musica. E nonostante tutto, siamo orgogliosi di dire che le scelte restano sempre quelle che ho appena spiegato, cioè un mix di scelte che possono essere ambiziose, audaci, come quella di cercare di portare comunque musica sperimentale davanti ad un pubblico sempre nuovo. È ovvio che avere la garanzia di avere un certo numero di pubblico ci permette di poter fare delle scelte a volte più di “ricerca”, più coraggiose: però appunto alternare questi artisti con altri musicisti più famosi permette a RoBOt di far arrivare a un pubblico sempre più grande dei performer che normalmente non potrebbero avere lo stesso tipo di palco. Essere inclusivi è nella natura del RoBOt, quindi cerchiamo sempre di poter parlare a più pubblici, sia quelli abituati a frequentare eventi un po’ più mainstream sia ad appassionati di vera e propria ricerca sonora; all’atto pratico, la scelta principale che effettuiamo avviene soprattutto differenziando le location, come anche l’offerta del cartellone del festival. Per cui ci sono eventi più di nicchia, come possono essere stati quelli di quest’anno all’Oratorio san Filippo Neri o nella serata conclusiva del TPO, ed eventi che invece possono abbracciare anche un pubblico più mainstream come può essere l’evento di chiusura che faremo quest’anno al DumBO. Però l’obiettivo del festival è di aprirci a sempre più fette di pubblico, parlando linguaggi sempre diversi.
Quali sono i progetti per il futuro di RoBOt? Qual è il sogno proibito che sperate di riuscire a realizzare con un evento come questo?
Marco Ligurgo: Bisogna precisare che un tipo di evento come quello del RoBOt, comunque, parla a un pubblico di nicchia: stiamo parlando certo non di un pubblico mainstream o di artisti che, per quanto nel nostro genere possano essere famosi, non sono in cima alle classifiche di vendita o che fanno un genere musicale pop. Per questa ragione, parlando comunque a un pubblico di nicchia, l’obiettivo da sempre è sempre stato quello di riuscire a coinvolgere più persone possibili in una vera e propria mission culturale. Quindi il sogno resta quello: che ci sia sempre più gente che ama questa nicchia di mercato, si incuriosisce ad essa, e che ci dà totale fiducia per poterci permettere di lavorare al massimo e portare proposte culturali e artistiche sempre nuove che ci piaccia proporre all’interno del festival. Ecco, il sogno sarebbe arrivare a un limite come quello che vedo già in festival internazionali, soprattutto in giro per il Nord Europa, per cui quasi a scatola chiusa vengono venduti tutti i biglietti e il cast artistico viene svelato a sold-out quasi raggiunti. Sapere di avere la fiducia del pubblico così ben riposta nei confronti della nostra esperienza che, anche in una condizione di totale incertezza, si possa assistere a un evento che lasci sempre, comunque, felici.
Ma cos’è RoBOt, in definitiva? Grazie a Shape, ci siamo intrufolati nella serata del 7 ottobre al DumBO, la vecchia rimessa ferroviaria di Bologna rimodernata e aggiornata per contenere al suo interno realtà sovversive come questo festival. C’è da dire che fin da subito il colpo d’occhio è stupefacente: i capannoni per i vagoni dei treni, illuminati da faretti LED multicolore, ricontestualizzano l’industrialità di edifici simili e li proiettano in uno spazio liminale a metà tra il rave e il palazzetto. Dopo un breve giretto attraverso il cortile, nella quale si sta già consumando un sudaticcio DJ set che spinge ostinatamente una cassa in quattro, decidiamo di affrontare la coda per il capannone numero 4, quello dove frementemente attendiamo che la line-up della serata dia il via all’evento vero e proprio.
I primi a salire sul palco sono i già citati Laura Agnusdei e Daniele Fabris: la loro esibizione è una vetrina soffusa ma efficace, con il sax di Agnusdei che si muove tra momenti di breve sclero, pressioni di tasti di chiaro ascendente Colin Stetson, piccoli slanci lirici e meditativi che rimandano alla mente i passaggi nebulosi dell’ultimissimo Pharoah Sanders (un sommesso tributo?) o quelli del Vangelis più romantico. La parte del leone, però, la fa Fabris: il suo suono è il collante attraverso cui l’intera performance mantiene coerenza; la filigrana disegnata dal suo synth è avvolgente e conturbante, mentre i found sounds recuperati dal palco vengono immediatamente rispediti nel mix e verso il pubblico, creando inaspettate armonie e rimbalzi di ottone sul cemento.
Dopo il duo Agnusdei / Fabris, è la volta di Ben Frost: uno dei nomi davvero di punta di questa serata, visto il curriculum più che illustre del musicista australiano (non ultimo l’ingresso nella più recente formazione degli Swans). Se si potesse raccontare un suono così spiazzante come quello che fuoriesce dalle casse non appena il set di Frost a inizio, credo che il paragone più adatto sarebbe quello di avvertire un sonic boom a un metro di distanza: i bassi industriali smuovono letteralmente qualsiasi cosa, fino a far tremare le colonne delle pareti di cemento. Sfortunatamente, è anche una delle pochissime cose che Ben Frost riesce a proporre in questa serata: un problema tecnico frigge i suoni a partire dal secondo brano, e nonostante il ripetuto intervento dello staff tecnico, sembra impossibile continuare l’assalto sonoro del producer americano. Solamente l’ultimo brano, un gigantesco build-up di pad ambientali che si accartoccia su se stesso nel finale, riesce a restaurare una abbacinante, splendida normalità: ma la scaletta è inesorabile, e questi brevi momenti sono tutto quello che riusciamo ad avere da questo spezzone di serata.
Un rapido cambio di palco lascia spazio a quella che è indiscutibilmente l’headliner della serata di questo RoBOt, ovvero Caterina Barbieri: un setup interamente analogico si staglia contro uno sfondo di quello che crediamo sia cellophane, mentre le macchine del fumo ingolfano il palco nella nebbia del ghiaccio secco. Un singolo raggio di luce disegna la silhouette di Barbieri, che indossa un completo che non sfigurerebbe nel guardaroba di Björk. Quando l’arpeggiatore inizia a costruire l’arazzo del primo brano, l’immagine mentale che si forma è quella dell’equivalente extraterrestre di una suoneria del Nokia 3300. Una sorta di futuro perduto si perde tra gli echi riverberati, tra i cicli infiniti che spediscono in trance la totalità del capannone: sullo sfondo, dei video riproducono fondali indefiniti che potrebbero essere aurore, alberi nei campi, o semplici sprazzi di colore interstellare. Il set di Barbieri prosegue serenamente, con la tranquillità circolare di una macina in pietra: stupisce in positivo per la propria varietà di mood, specialmente quando confrontato con il progetto Punctum che era stato presentato durante la scorsa edizione del festival: i sintetizzatori saranno anche gli stessi, ma qui l’impressione non è quella di una estrema rarefazione del clubbing berlinese, bensì quella di un abbraccio omnicomprensivo e caldo che rilassa e distende. Forse anche perché Ben Frost sembrava aver reso tutti quanti un po’ nervosi.
Ci vuole giusto il tempo di far sfumare le ultime note di uno dei brani da Patterns of Consciousness, che già è in arrivo l’ennesimo act a scombussolare le carte in tavola: verso le 1:30 di notte è l’ora dei Giant Swan e della loro “not-techno” imbizzarrita. Potranno chiamarla come pare a loro, ma a noi sembra che l’effetto sia soprattutto quello di un grande, ossessivo tappeto di clangori industriali e urla distorte spalmate sopra un four on the floor implacabile: la performance è una metamorfosi di dettagli, minuzie che vengono divorate dall’energia instancabile del duo di producer inglesi, che saltano senza tregua nei pochi momenti in cui non si tuffano sui circuiti delle console. Il loro set è costantemente col piede sull’acceleratore: quando il beat sparisce per qualche breve istante, il pubblico continua a oscillare ciecamente aspettando che i due ripartano ancora più sbragati e violenti. Iniziamo quasi ad avere paura che non si possano mai fermare, relegandoci a un’esistenza di movenze sconnesse sul parterre, quando ecco che quello che senza dubbio è il set più energico della serata chiude tutto per lasciare all’ultimo act la fine della serata.
Sentiamo i breakbeat di Skee Mask solamente per qualche minuto: il DJ tedesco si sa giostrare con la sua rinomata competenza tra gli scenari glaciali di Compro e quelli più intricati di Pool, infilando sottili manipolazioni e loop come da sua inimitabile firma nel b2b set con i fondatori della Ilian Tape, i fratelli Zenker. Però oramai l’ora è troppo tarda e la stanchezza si fa sentire: decidiamo di avviarci verso l’uscita, riattraversando il cortile in cui la gente si sta accalcando verso gli scampoli del DJ set sudaticcio nell’area esterna. Per pietà dei performer, per fortuna c’è stato un cambio di palco anche lì. Fuori dal DumBO, la quiete è spiazzante: le orecchie ora sembrano funzionare in maniera diversa, captando frequenze che forse non esistono, mentre figure di ogni tipo, genere e età attraversano la strada in direzione via Zanardi, e poi chissà. Qualcuno pronto per la serata del giorno dopo, qualcuno per l’anno successivo. Persino le poche stelle della luminosa notte bolognese ora sembrano lucine di un synth che sfrigolano: caro RoBOt, ci vediamo l’anno prossimo.