IL SOLE NERO DEL MEZZOGIORNO: INTERVISTA A MAI MAI MAI

Ascoltando Rimorso, l’ultimo album di Toni Cutrone a nome Mai Mai Mai, si capisce di avere per le mani un disco bello e importante. Chi lo aveva seguito fino a qui poteva aspettarsi musica elettroacustica industriale crepitante di rumore e carica di sample e presagi come lo erano i brani del precedente Nel Sud. Invece Cutrone, che è una di quelle personalità di cui si può dire che hanno fatto un pezzo di storia dell’underground italiano e di cambiamenti ne ha vissuti parecchi, ha fatto evolvere il proprio suono e ampliato il proprio orizzonte in maniera sorprendente. Togliendo buona parte del rumore la sua musica non ha perso potenza, anzi, ha guadagnato ulteriore profondità evocativa nella propria dimensione rituale. Rimorso è innanzitutto questo, un incontro per nulla scontato tra primitivismo tribale e sound design elettronico che trova pochi pari in Italia (tra gli artisti che calcano terreni simili, pur con umori differenti, vengono in mente Heith, Lucy e Donato Dozzy, più sul lato dancefloor le varie incarnazioni di Cristiano Crisci). Per di più, l’aspetto esoterico di questa musica non è solo strumentale alla definizione di una certa atmosfera, ma costituisce un riferimento culturale ben preciso: nasce infatti da un forte legame con le tradizioni autentiche del Sud Italia, da sempre permeate da una connotazione magica e spiritica che ancora oggi si insinua nella vita quotidiana. Cutrone mette in scena la sua versione dell’incontro tra moderno e arcaico, tra esoterismo incantatore e tecnologia tentacolare, e lo fa andando a riprendere con rispetto e ispirazione molti elementi del folklore meridionale. Dal suono degli strumenti tradizionali campionati diffusamente alla centralità dei canti popolari, passando per il richiamo ad esperienze di spirito affine come i Musicanova, Rimorso pesca a piene mani da una tradizione ricchissima e, reinterpretandola, contribuisce a mantenerla vitale e attuale. Si può omaggiare la cultura del passato senza suonare passatista, anzi, cercando di trovare dei significati nuovi: qui succede. A questa operazione partecipa inoltre una grande varietà di contributi musicali. Preponderante è la presenza di giovani artiste del Sud Italia, come Maria Violenza, Vera di Lecce e Nziria, evidenziate sia dalla scaletta che, soprattutto, dalla forza dei pezzi a cui partecipano; ci sono progetti che lavorano da anni sul dialogo con le musiche della tradizione, come le Faraualla e Youmna Saba; addirittura collaborano musicisti con percorsi decennali come Lino Capra Vaccina e Mike Cooper, che certificano la dimensione ormai internazionale che ha raggiunto la musica di Mai Mai Mai (come se non bastassero gli apprezzamenti di The Quietus, The Wire e Kevin Martin orgogliosamente e meritatamente riportati su Bandcamp). In un contesto così ricco, anche il fatto che i pezzi a cui partecipano i due “senior” siano forse quelli che funzionano meno è da interpretare come un segnale positivo: evidenziano il valore delle proposte di una generazione di giovani artistə dalla creatività consapevole e curiosa, che dalle esperienze precedenti hanno tratto ispirazione. Insomma, Rimorso è un disco grosso. Abbiamo incontrato Toni Cutrone a Bologna in occasione del Maple Death in the Park, festival dell’etichetta per cui è uscito questo suo ultimo lavoro, per fare una chiacchierata tra una birra e uno sguazzone.


R: Ciao Toni, eccoci qua. Domanda poco disinteressata: che rapporto hai con il fare interviste?

T: Ciao! È un aspetto che mi piace. Fortunatamente facciamo per passione cose belle, in cui siamo molto dentro, e fa piacere avere l’occasione di parlarne.

R: Tu poi di cose ne hai fatte tantissime. Hai avuto tre vite, o anche di più!

T: Beh, è tanto che sono in questo mondo qui. Fin da ragazzo ho incanalato la passione per la musica e l’ho sempre vissuta con l’atteggiamento del: “Facciamo, facciamo, facciamo!”. Il mio ambiente di riferimento è il mondo del Do It Yourself, senza l’assillo di dover crescere come visibilità o essere famosi… questo è il giro che mi piace e quello in cui voglio stare. Si parla spesso di gruppi emergenti, ma emergere non è una strada obbligata: puoi stare sott’acqua tutto il tempo, basta che fai le cose bene e lo rendi sostenibile. 

R: Anzi, spesso chi riesce a “emergere” parla poi di burnout riguardo a tutte le energie e risorse necessarie per mantenere quella posizione.

T: In tutto il mondo del lavoro ormai ci sono pressioni crescenti che generano stress trasversale, e la musica non fa eccezione. Non a caso l’idea stereotipata dell’artista è di una persona che a un certo punto scapoccia e si suicida, o che è sempre drogatissima… ma possono essere manifestazioni clamorose dello stress se vivi questa cosa con l’assillo della celebrità. Io personalmente questo pensiero non l’ho mai avuto, suono perché è bellissimo farlo, poi mi piace tutto il rapporto che c’è con la gente con cui suoni e con chi ti viene a vedere. Per questo mi va benissimo suonare nei posti piccoli, perché quando vai ai festival su palchi più grossi si viene a perdere il rapporto con il pubblico. Per carità, è figo, hai visibilità, promozione, girano più soldi… sono cose che servono, ma non è il senso finale secondo me. Si perde un po’ di rapporto umano che invece è una caratteristica fondamentale del mondo DIY, o underground se vuoi. Ovviamente ci devi ritornare economicamente, ma puoi trovare i modi per farlo senza dover diventare ricco per campare.

R: Ho letto qualche tempo fa un articolo su Stereogum sul ginepraio social che si è scatenato quando una band statunitense ha pubblicato il resoconto di spese e guadagni per andare in tour. Nonostante iniziassero ad affacciarsi al cosiddetto midstream e avessero fatto un giro di concerti a un festival piuttosto grosso (di cui solo uno pagato), ci andavano in perdita netta. Certe risposte erano allucinanti: gruppi che suggerivano il proprio metodo di fare consegne di cibo da asporto tra un concerto e l’altro per coprire le spese, gente che criticava la scelta di dormire in degli albergazzi o degli ostelli perché dormendo in furgone si risparmia. Come se chi suona dovesse per forza vivere di merda per poter fare quello che fa. 

T: Allora, sicuramente gli Stati Uniti sono una realtà molto tosta, quasi distopica rispetto alla nostra e il mondo della musica non fa eccezione. Però è vero che sono sempre più diffuse situazioni come queste in cui c’è un business e tu per farne parte devi pagare. Queste cose per me sono odiose, a tutti i livelli, eppure sono fenomeni normalizzati: pagare per far parte di un festival o di uno showcase, per suonare come spalla, per convincere un’etichetta a stampare dei dischi o l’etichetta stessa che paga per piazzare le proprie band in degli slot a un festival… se ci pensi, è scioccante. Nell’ambiente musicale in cui cerco di stare, invece, funziona che chi organizza un festival e vuole farti suonare, ti chiama e ti dice quanto può darti; se ti va bene accetti, altrimenti no. Qui ti parlo sempre di mondo DIY, poi certo non faccio tutto da solo: mi aiutano con il booking quelli di Swamp Booking, che però sono tutte persone che conosco da una vita e con cui si parla faccia a faccia. Per questo ho la fortuna di collaborare con persone che sono professionali ma umane, che sarebbe l’ideale sempre; quando mi propongono una data non mi stanno vendendo al mercato per farci i soldi, ma dicono: “Toni, vuoi fare questa data qua? Ci sono meno soldi ma il posto è figo, poi magari ci infileremo quest’altra data che ti dà qualcosa in più” e così via. Anche con le etichette, ora con Maple Death e prima con Boring Machines e tutte le altre mille esperienze, sono persone che ci mettono i soldi e la faccia e investono su di te per supportare l’attività e rendere il tutto sostenibile. Ci devi comunque guadagnare qualcosa, devi vendere, girare… non è un mondo magico in cui i soldi non servono, ma neanche quello becero in cui sei trattato come merce da piazzare, che spesso è quello che succede quando sali al livello di grandi distribuzioni o festival grossi. Quando suoni nel club con 100 persone che sono venute proprio per vedere te e dopo il concerto sei al banco del merch a chiacchierarci… dopo tanti anni è ancora la mia parte preferita.

R: Mi tornano in mente i tuoi racconti di quando si organizzava Thalassa al DalVerme, che è stato un po’ il momento di celebrazione della scena di Roma Est, e vi scriveva gente dall’estero con richieste di prenotazioni allargate senza sapere che c’erano meno di 100 posti in totale!

T: Ah sì guarda, nel secondo e terzo anno di apertura ha iniziato a esserci questo scollamento surreale con le persone che venivano da fuori e chissà cosa si aspettavano! Quando è venuto Stannard, il critico di The Wire, noi pensavamo proprio “Mo’ questo si aspetta una roba tipo il Liverpool Psych Festival che fa tremila persone, invece qui siamo in novanta e stipatissimi…”. Poi in realtà è un tipo tranquillissimo, dormì a casa mia con il mio cane Foetus, che ora non c’è più ma era famoso all’epoca perché si accollava a tutte le band che dormivano nella stanza. Piano piano si infilava nel letto e loro si svegliavano la mattina avendo di fianco questo bull terrier bianco…e toccò anche a Stannard.

R: Una presenza importante, insomma! Nel periodo del DalVerme tu eri impegnatissimo nell’organizzazione e nella gestione del locale, allo stesso tempo eri dentro vari progetti musicali; come facevi a stare dietro a tutto?

T: Conta che abbiamo iniziato in tre, siamo diventati quattro con Claudia e poi hanno iniziato ad aiutarci anche Francesca e Mario… sostanzialmente eravamo noi, quando venivi al DalVerme non c’era lo stacco tra i ruoli. Io ero al bar e chiedevo le sottoscrizioni all’entrata e intanto mandavo le mail al gruppo del giorno dopo per gli orari, Claudia la trovavi al bar ma faceva pure la fonica, anche Marzia e Marziano facevano di tutto. Questo ci permetteva di autogestirci in autonomia e di fare tutto questo proprio come volevamo, d’altro canto però ci occupava davvero tanto tempo. Perciò all’inizio abbiamo rallentato con il suonare dal vivo in prima persona: prima che aprisse il DalVerme con i vari progetti facevamo anche 100 o 120 concerti l’anno, poi giocoforza la gestione di tutti gli aspetti del locale è diventata importante. Se metà di noi fossero stati in giro a suonare invece che al locale, sarebbe stato impossibile andare avanti. Con il Marziano suonavamo negli Hiroshima Rocks Around, poi c’erano i Trouble vs Glue con Lady Maru che però faceva anche la dj techno, i Metro Crowd con quelli del Fanfulla, che gestivano l’altro locale simbolo di Roma Est… insomma, un sacco di casini per incastrare tutto. Poi c’era anche la NO=FI Recordings, quindi i pomeriggi che passavo a casa li spendevo tra il booking del locale e tutte le operazioni dell’etichetta.

R: Cerco di mettermi nei tuoi panni e mi gira la testa. Un assorbimento totale nelle cose che facevi, immagino anche una notevole dose di stress. Eppure ne parli come di un’esperienza che ti ha dato moltissimo, che ti ha formato oserei dire.

T: Sai, il DalVerme è stato uno di quegli amori giovanili… noi stavamo sempre lì, anche se avevi il giorno libero andavi lì. Oppure andavo al Fanfulla, che stava a trecento metri, e poi di nuovo al DalVerme a farmi l’ultima bevuta della serata con tutta l’altra gente che c’era. Nel mentre magari parlavi di un gruppo che ti piaceva e iniziavi a pensare di invitarlo a suonare là… era la nostra vita. Ancora adesso parte del mio lavoro è organizzare le attività nei locali, ma con un taglio completamente diverso. Al DalVerme non c’era “direttore artistico”, eravamo tutti tutto; ora invece posso occuparmi della direzione artistica di un certo evento, e se poi suonano gruppi che mi piacciono ci vado pure, altrimenti sistemo una scaletta e posso anche non esserci. È un lavoro che mi piace ma è comunque lavoro, mentre prima era più un’estensione del mio essere, qualcosa da cui non avrei potuto staccarmi.

R: Questo si rifletteva anche nel tipo di ambiente che cercavate di creare. Per me che non l’ho vissuto in prima persona, sentendo i racconti di chi c’era mi pare proprio che il DalVerme fosse gestito con l’idea di avere un locale in cui voi per primə avreste voluto suonare. Già il fatto che il locale non chiedesse nulla per ospitare chi suonava e che una volta sistemato il booking musiciste e musicisti trovassero da bere e da mangiare in compagnia: mica cazzi.

T: Nonostante la risonanza che poi ha avuto è sempre rimasto un ambiente molto intimo. Era un posto piccolo e per noi era importante trattare bene, umanamente, chi veniva a suonare e a sentire chi suonava. Il discorso che ti facevo prima riguardo al rapporto umano nella musica, per me è fondamentale ancora adesso. Quando arrivi nel localone gigante trovi spesso grande professionalità sopra e sotto al palco, però ti capita di parlare con qualcuno che sta lavorando e magari non è chi ti ha chiamato… a me fa strano quando incontro quello che mi dice: “Ciao, lì c’è da mangiare, c’è il free drink, suoni fino a mezzanotte, ciao”. Mi piace chi ci mette la faccia e ci si mette in primo piano: ad esempio qui stasera c’è Jonathan [Clancy, ndr] della Maple Death, uno che tra lavoro, famiglia ed etichetta trova comunque il tempo di fare un festival di tre giorni e lo trovi qui a organizzare tutto, collabora con il Freakout, lo vedi insomma che ci tiene moltissimo.

R: Sì, senti di avere un ruolo che va oltre al semplice discorso di quanta gente porti e in che evento stai. Tu stasera sei qui a fare un dj set come Mai Mai Mai; questo progetto è iniziato proprio nel periodo di massimo impegno con il DalVerme, giusto?

T: Sì, diciamo che dover togliere il piede dall’acceleratore con i concerti, in quel periodo, probabilmente ha fatto sì che ci fosse un approccio più selettivo sui progetti a cui dedicarsi. Mai Mai Mai di fatto è nato in quel momento, perché con poco tempo a disposizione era difficile organizzarsi per suonare con altre persone; così nel tempo libero andavo nella sala del DalVerme e provavo per un’ora o due, con gli strumenti, con le idee che avevo. È partita quindi come un’esigenza dovuta a quel momento particolare, che però mi ha fatto trovare un modo per riuscire ad esprimermi anche da solo. Questo era prezioso quando era difficile fare altrimenti, ma anche una spinta in più per quando c’è stata più libertà di andare a suonare in giro, perché se mi chiedevano: “Ci sei per questa data?”, potevo rispondere di sì senza dover cercare di far combaciare mille cose. Quindi mi ha facilitato il rientro per ricominciare a suonare tanto, che sarebbe stato più complicato con le band. Lì devi spostarti in furgone e incastrare le date: magari hai un concerto a Parigi ma non ci arrivi dritto, quindi passi a suonare per Milano, Torino, Ginevra, Lione e quando hai suonato a Parigi tornando indietro fai Strasburgo, Marsiglia… alla fine sono 10 giorni che ti devi prendere e che devi organizzare. Con Mai Mai Mai posso fare date secche e spostarmi anche in treno o, se si organizza qualcosa all’estero, muovermi molto più agilmente portando la strumentazione con me. Posso andare a un festival a Berlino, o fare un weekend di concerti in Olanda, e tornare il giorno dopo. Questo mi permette alla fine di suonare di più e in più posti.

R: A Roma insomma hai dato il via a tante connessioni, idee, situazioni. Quando ti sei trasferito là da Crotone?

T: A diciott’anni, per l’università. Poi sono andato un po’ in giro ma di base si può dire che sto a Roma da quell’epoca [1999, ndr]. Da ragazzini suonavamo a Crotone ma poi abbiamo conosciuto il Marziano, che era più grande di noi e stava a Roma già da anni, e abbiamo iniziato a suonare con lui d’estate quando tornava in Calabria; trasferirsi a Roma voleva dire avere la possibilità di proseguire questo discorso musicale, da cui poi sono nati gli Hiroshima Rocks Around, la NO=FI, il DalVerme e tutto il resto.

R: Immagino che andare a Roma sia stato un passo enorme in termini di stimoli e di persone affini con cui trovarsi a suonare. Eppure tutte queste esperienze significative le hai vissute lontano dal tuo luogo d’origine. Questa distanza come ha modificato il rapporto con la terra in cui sei nato, e in maniera più ampia con il Sud Italia? 

T: Si dice spesso che quando ti distacchi da qualcosa, è allora che inizi a capirla veramente. Anche nel mio caso è stato così con la Calabria, dove ho casa mia e la mia famiglia, ma più in generale per l’amore verso il Sud. Quando me ne sono andato da Crotone è stata la classica fuga per odio: ero in un gruppo di adolescenti decisamente fuori rispetto alla norma di quel mondo, eravamo una decina e quindi “autosufficienti”, non soffrivamo tanto l’isolamento e la solitudine quanto piuttosto l’alienazione di non entrarci nulla con tutto quello che avevamo intorno. Quello che succedeva nella nostra città non parlava a noi. Quindi come spesso succede ho vissuto la fuga come una liberazione, poi distaccandoti inizi a vedere più oggettivamente le cose ed è da allora, ad esempio, che cerco sempre di sforzarmi di organizzare cose giù. Quando sono in Calabria a suonare per me è sempre bellissimo. Ti parlo della Calabria perché, ad esempio, in Puglia e Sicilia c’è una realtà più avanzata a livello culturale, a partire da una questione di maggiore disponibilità di fondi da dedicare a questo tipo di iniziative.

R: Parli di canali già avviati che invece in Calabria fanno fatica a strutturarsi.

T: Sì, per dirti: già a Crotone è difficile accedere ai fondi, se poi riesci per miracolo ad ottenere dei fondi dal Comune e cerchi di organizzare un festival musicale come questo, i tuoi interlocutori si mettono a ridere e ti dicono: “Ma perché non organizzi una sagra? Una cosa medievale?”. È una storia realmente successa! In Calabria i posti dove si suona più facilmente sono Cosenza, che comunque è una città universitaria e ha un bacino un po’ più ampio, o Reggio Calabria. Le altre sono piccole realtà che provano a lottare ma sono comunque circondate da tante difficoltà. Anche per questo è così bello ritornarci a suonare.  Avendolo vissuta in vari ruoli, sento molto i limiti del Sud e la sua difficoltà ad evolversi. Certamente c’è tutto un discorso di cause storiche che hanno portato a queste situazioni e che giustamente vanno esposte; c’è però anche un aspetto più sottile e diffuso che è quello di accettare lo stato delle cose così com’è, perché comunque dà la possibilità di lamentarsi se qualcosa non va e piangersi addosso senza cambiare. L’arretratezza di cui parliamo ha comunque tutto un suo rendiconto per certe categorie di persone e per un certo tipo di pensiero. Questo ambiente statico sarebbe bellissimo cambiarlo, però non è facile capire come fare…

R: Impresa titanica. Qualche spunto dall’esperienza romana?

T: Titanica, sì. Su Roma abbiamo cambiato tanto, al Pigneto, a Roma Est, abbiamo tirato su una realtà. Tutto è partito da un gruppo ampio di persone che si sono dette: “Ma com’è possibile che siamo nella capitale e manca tutto quello che vorremmo?”, per cui si sono messe a crearlo. Poi ovviamente lì c’è il bacino di ricchezza umana di una capitale, una città che sta crescendo, per cui se hai le persone giuste con cui collaborare riesci a fare cose di questo tipo. Certo non parlo di Roma come di un mondo idilliaco, alla città manca ancora tanto, almeno rispetto ad altre capitali europee. Forse dieci o quindici anni fa era pure più facile realizzare degli spazi come i nostri: negli ultimi anni le varie direzioni politiche – Cinque Stelle in testa – hanno ammazzato certe realtà, tra locali chiusi, squat sgomberati e via dicendo. È una città piena di tante persone che hanno voglia di fare, belle idee e tanta energia, che si trovano a fronteggiare una carenza di posti e spazi in una città che non aiuta le iniziative in musica. Anzi, lì è più una questione di “lasciar fare”: noi non puntiamo neanche a un discorso progressista del tipo “dacci i soldi per investire sull’arricchimento culturale della città”, ci basta proprio che le istituzioni non rompano i coglioni, poi ad organizzarci e finanziarci per fare qualcosa di interessante pensiamo noi. Quindi è complicato, è sempre una guerra, però a Roma c’è terreno per battagliare in questo senso e posso dire che un po’ abbiamo cambiato le carte in tavola, sono soddisfatto di cosa abbiamo fatto e di come ce lo siamo goduto. Al Sud invece le difficoltà sono diverse e di più. Ma di questi aspetti potremmo parlare per delle ore…

R: E quanto di questo si ritrova nella musica di Mai Mai Mai, dove il Meridione ha una presenza fortissima in molti aspetti? Non solo nell’ispirazione e nei temi, ma proprio come scenario spirituale e spiritico su cui si riflette ciò che fai. 

T: Il discorso che faccio con Mai Mai Mai è più culturale in senso ampio, qualcosa che va molto oltre la quotidianità della società del Sud, con tutte le sue difficoltà. Mi interessa la cultura antica, arcaica del Sud e il fatto che ci sia un rapporto quotidiano e reale con questa tradizione. Una diversa concezione della vita e del lavoro, un rapporto stretto con il religioso e il magico che non si ritrova altrove. 

R. È vero, si parla spesso di arretratezza del Sud con accezione negativa, ma c’è tutto un altro significato che parla della storia e dell’identità di questi luoghi. Gli aspetti rituali della tua musica mi hanno fatto tornare in mente varie testimonianze di come esoterismo e magia siano rimaste parte del tessuto vivo del Sud Italia. I documentari che hai proiettato durante il tour di Nel Sud, così come le ricerche di Ernesto de Martino, parlano di riti e incantamenti che non sono stati totalmente cancellati dalla modernità. Dalla necropoli delle Fontanelle fino al paganesimo sardo, passando per la possessione della Taranta e le ombre misteriche di Palermo, tutto si compenetra nel mondo odierno. La presenza ancora radicata di fenomeni come malocchio, fatture e fascinazioni può essere l’esempio più evidente, ma è segno di una tradizione profonda che influenza ancora la realtà.

T: Sì, è un aspetto che mi affascina molto e in un certo senso sta alla base di quello che faccio, ripescare elementi di questa tradizione. Nei dischi passati questo si esprimeva molto di più attraverso campionamenti e registrazioni, ad esempio proprio con Nel Sud si è fatto un lavoro di comunicazione audio/video che voleva trasmettere la conoscenza di questo mondo. Quando facevo le date all’estero del tour, c’erano persone che rimanevano sconvolte a sapere che quei documentari degli anni ’60 erano stati girati in Italia; credevano di stare guardando video di villaggi del Nordafrica o del Sud America! Quello è stato un momento in cui riprendevo contatto con questa realtà storica, che colpisce molto ed è interessante da esplorare. Ora però il Sud non esiste più per com’è fotografato lì, sono passati 60 o 70 anni e, per quanto si sia evoluto poco questo mondo, comunque un’evoluzione c’è stata. Perciò sto cercando di non rimanere in compagnia di quei fantasmi ma di orientarmi nel contemporaneo e di raccontare quanto di quella intensità e di quella magia c’è ancora oggi. 

R: Su Rimorso infatti hai riunito l’attualità di molte anime musicali con sensibilità diverse e complementari: giovani artiste meridionali, numi tutelari della musica sperimentale e progetti che lavorano a stretto contatto con la tradizione. Come ti hanno influenzato queste collaborazioni?

T: Per Rimorso volevo lavorare con realtà che ci sono adesso, anche a livello di musiciste e musicisti, per questo le voci e i contributi sono di artiste e artisti in attività con cui condividiamo una visione comune. Loro si sono divertiti a farsi plasmare dalla mia musica in questo disco ed io a farmi ispirare da loro. Ma ci sono tanti stimoli che vanno oltre il discorso musicale in senso stretto, non solo fare dischi e suonare, mi interessa molto l’aspetto etno-musicologico. Nel Sud ci sono molte realtà musicali fantastiche e ancora vive tra le varie regioni, per dirti, gente che sull’Aspromonte ancora canta in grecanico, il vecchio greco che ancora si parla in Calabria, o suona la lira calabrese, o che ancora costruisce tamburi piegando il legno e usando le pelli degli animali per creare i diversi suoni… il processo magico per me è rievocare gli spiriti di queste tradizioni, certamente per non farle dimenticare, ma soprattutto per poterle vivere e poterci dialogare adesso, in questo momento. E vedere cosa succede. 

R: Ascoltando Nel Sud penso a un contrasto forte tra la ritualità storica e lo sconvolgimento della modernità, un cortocircuito dell’immaginario che potrebbe trovare un corrispettivo negli altari di cemento degli edifici incompiuti disseminati per il Meridione. In Rimorso risalta invece il dialogo tra questi due mondi, si sente proprio il tentativo di creare una continuità tra moderno e tradizione in cui cultura popolare e circuiti elettronici si parlino in maniera aperta e stimolante da entrambe le parti. Dai canti del folklore alla ripresa degli strumenti tradizionali, c’è un’eredità grandissima che ha molto da dire anche nelle produzioni contemporanee. A questo proposito ti chiedo: quali sono le potenzialità di lavorare con il materiale della tradizione? Quanti significati si possono scoprire, e quanti ancora creare?

T: Penso che altrove questo processo faccia parte della normalità, penso ad Africa, Sud America, anche all’Asia… non c’è mai stato questo stacco tra contemporaneo e tradizionale, piuttosto è come se la tradizione si evolvesse sempre. Pensa a tutti i suoni nuovi dall’Africa, come la Nyege Nyege… anche fuori dalle grandi città si continuano a suonare le musiche tradizionali ma con strumenti nuovi, e così in Sud America con le varie deviazioni elettroniche della cumbia. L’Italia, ma diciamo anche l’Europa, invece con le sue tradizioni ha sempre lavorato in modo un po’… museale, tenendole come in una teca. Puoi avere la sagra in cui trovi la musica tradizionale proprio come veniva fatta una volta, la tarantella o la pizzica con gli abiti tradizionali… però spesso rimane confinata a una rievocazione di quel tipo, difficilmente viene considerata qualcosa da ascoltarsi a casa. C’è stata insomma pochissima ripresa dalla musica contemporanea, anche perché spesso i tentativi più sdoganati in questo senso hanno coinciso con degli esperimenti terribili, vedi ad esempio negli anni ’80 o ’90 l’idea di provare a portare “l’etnica” nella dimensione Sanremo con dei Frankenstein tra cantautorato e taranta… cose mostruose. È sempre mancato tanto il lavorarci a livello sperimentale per tenerle vive, cioè attualizzarle ma in senso giocoso, provando a far coesistere la musica tradizionale con una drum machine o un sintetizzatore per vedere cosa può venirne fuori. Ad esempio nel folklore del Sud ci sono delle ritmiche incredibili, è un peccato non lavorarci su. Ora per fortuna vedo che c’è una wave di ripresa di questi aspetti, nel senso buono, e cioè dire: abbiamo un’eredità vasta e fighissima, proviamo a recuperarle con gli strumenti di adesso. Penso ad esempio a Go Dugong, con cui abbiamo fatto alcune cose, o DJ Khalab che con la Hyperjazz fa tutto il suo lavoro di ripresa, o Alfio Antico…

R: E succede anche fuori dal Sud! Un disco di cui abbiamo parlato molto è la collaborazione di Silvia Tarozzi e Deborah Walker uscita quest’anno, dove i canti della tradizione popolare di Centro e Nord Italia si uniscono a improvvisazioni d’archi e musica da camera. Musica che sperimenta con rispetto e curiosità, ti ritrovi ad ascoltare i cori delle mondine di Bentivoglio e i canti partigiani in contesti diversi e stimolanti. 

T: Bello!

R: Allora mi viene spontaneo chiedere: perché questa ripresa non avviene di più e più in grande, anche al di fuori di contesti sperimentali? Banalmente a livello di ritmi e melodie, anche vocali, c’è un tesoro pazzesco che potrebbe ispirare tanti gruppi, anche fuori dall’underground. Invece non mi pare che succeda, a parte i pasticci di cui parlavi tu in cui c’è giusto una spolverata di musica meridionale per acchiappare pubblico. Come mai secondo te la bellezza di questo potenziale espressivo non viene ripresa in maniera più diffusa?

T: In effetti è vero, di progetti di questo tipo ce ne sono parecchi ma non hanno molto risalto, almeno in questo momento. Però la ripresa della nostra etnica musicale nel senso di cui ti ho parlato viene fatto da pochi anni, adesso ci si approccia in un modo che è rispettoso per la tradizione ma anche per il risultato di quello che fai uscire, nel senso di voler fare cose che belle e attuali anche se parlano del nostro passato. Quindi secondo me è questione di tempo.

R: Tornando a Rimorso, ho sentito delle percussioni bellissime in alcuni pezzi, corpose e metalliche, e visto che siamo qui devo chiederti come le hai fatte e da dove le hai prese! Mi sono piaciute molto su Il Cattivo Passato e Il Futuro Perduto, che sono anche gli unici pezzi di cui non si parla nel presskit, per cui sono curioso.

T: Ecco, mi fa piacere che nomini quei pezzi perché sono tra i meno citati quando si parla di Rimorso, forse perché sono tra i più difficili. Lì mi sono un sacco divertito a lavorare con strumentazione acustica e rielaborarla a contenuto elettronico, il punto di partenza è sempre acustico. Nel Cattivo Passato ho preso una cupa cupa, che è una scatola di legno con un bastoncino che quando si muove fa questo ritmo…

R: E dentro ha dei semi, dei sassolini? 

T: No, no, ti basta muovere il bastoncino per suonare il tamburo. L’ho suonato dal vivo, quindi con lo strumento originale e non il suono ricreato, poi me lo sono campionato e l’ho messo a ritmo cambiando i pitch e lavorandoci un po’. I drone che senti sono delle zampogne, che è uno strumento perfetto per questo, insieme a campane di vacche e altre cose metalliche, tutto rilavorato elettronicamente. Il Cattivo Passato l’ho chiamato così perché è tutto materiale acustico rilavorato con l’elettronica, Il Futuro Perduto è praticamente lo stesso pezzo che però ho trattato con dei cut-up alla Burroughs, quindi mi sono messo a tagliare i pezzi, a rimontarli, anche i cantati sono tutti rimontati con pitch diversi, le zampogne cambiano le frequenze… ho rimontato tutto come se fosse un puzzle che a un certo punto hai fatto esplodere. E quindi da una parte hai questo passato che ti pesa tanto, che è la tradizione in tutti i significati e le ambiguità di cui abbiamo parlato, e dall’altra un futuro che è perduto perché neanche te lo riesci a immaginare. Poi queste sono anche interpretazioni a posteriori, però l’idea era comunque quella: fare un pezzo con tutte cose acustiche e poi provare a distruggerlo mettendoci però sotto questa cassa lentissima sempre uguale, come se avessi memorie sfasate di un passato che non riesci a ricordare e premonizioni di un futuro che non arriva… sai, come quando nei sogni ha dei momenti in cui si fondono i due piani.

R: È sempre interessante parlare con chi la musica la fa e vedere che idea c’è dietro a un pezzo, rispetto a quello che evoca in me che lo ascolto. In casi come questi c’è una timbrica o un suono particolare da cui parti e che ti dà l’ispirazione per costruirci sopra un pezzo, oppure hai un’idea e cerchi di trovarle una forma in suono che ti piaccia?

T: Direi che è il suono a suggerirmi quello che c’è da fare, parto da lì. Con la cupa cupa ad esempio è stato così, parto spesso da registrazioni semplici che poi uso per creare delle ritmiche che mi piacciono. E in quel pezzo il primato va proprio a loro, è quasi tutto ritmo. Poi ho iniziato a lavorare con i canti arbëreshë, sono le voci che senti, è un cantato albanese di un paese della Basilicata che si sposava benissimo. Da lì ho cominciato a giocare con le zampogne, per ricreare l’atmosfera dei canti tradizionali accompagnati da zampogne e percussioni, ma assemblando tutto in modo nuovo. In altre canzoni, ad esempio Fimmene Fimmene, il punto di partenza è stato il canto, in quel caso un canto di lavoro salentino che trasferisce sentimenti molto tristi, cupi, per cui è venuto fuori un pezzo quasi gotico. Se penso al mediterranean gothic, per me è questo: le donne che lavorano il tabacco, sfruttate, e intanto il sole nero che ti distrugge…

R: Rimorso è il primo album di Mai Mai Mai uscito su CD. Come mai questa scelta?

T: Quello è un problema storico! In questo momento stampare i vinili è veramente complicato, ci sono pochissimi posti che lo fanno e contemporaneamente le major sono tornate forte sulle edizioni in vinile, che fanno stampare con tirature molto superiori rispetto a quelle del nostro mondo. In questo modo riescono ad avere priorità nelle fabbriche. Il meccanismo, e succede veramente, è che il rappresentante della major si rivolge alla fabbrica e fa: “A quanto lo mettete un vinile? Un euro e trenta a copia? Io vi do due euro a copia, però per un mese mi assicurate l’esclusività su tutti i macchinari”. Tutto il mondo indipendente, che anche quando fa numeri grossi non li fa così grossi – e soprattutto non hanno gli avvocati che ti fanno il culo – passa quindi in secondo piano ad aspettare. Poi ci sono mille altri casini, da fabbriche bruciate a macchine che si rompono e nessuno le rifà… tutte queste cose si sono sovrapposte e così rispetto a due-tre anni fa, quando mandavi un vinile in stampa e in tre mesi ce l’avevi, adesso abbiamo raggiunto un momento in cui c’è un anno di attesa. Rimorso lo abbiamo mandato in stampa a gennaio e, nonostante avessimo degli slot prenotati in anticipo, ci ha messo comunque sette mesi ed è uscito a luglio anche se l’avevamo programmato per maggio. Pensa al lavoro delle etichette che con questi tempi devono per forza pianificare adesso cosa far uscire tra due anni, quando nel nostro mondo due anni dopo non sai nemmeno se uno ancora suona… è tutto diverso. Questo per dire che quando ad aprile ho fatto un tour di una quindicina di date il vinile ancora non c’era, erano anche già uscite le prime tracce e allora abbiamo deciso di stampare il CD. Così almeno ai concerti avevo i CD e il merch da vendere, altrimenti sarei andato a mani vuote. E poi c’è effettivamente un ritorno del CD, non è una cazzata… un po’ per queste difficoltà del vinile che hanno portato molta più gente a stampare CD, un po’ per quelli che non l’hanno mai abbandonato, perché possiamo farci tutte le pippe che vogliamo, ma la musica in CD si sente da paura, non c’è un cazzo da fa’. 

R: Come oggetto è bruttino, ma come qualità audio effettivamente…

T: Conta che quando giravo nel 2005/2006/2007, nessuno mai mi ha chiesto CD, solo vinili e cassette. Da un po’ di anni c’è gente che chiede il CD, anche perché costa meno. Rimorso comunque è un doppio vinile, al banchetto anche tenendolo basso io lo metto a 25 €, nei negozi sta a 30-35, ma il CD lo metto a 10. Per cui se uno a cui il disco è piaciuto vuole supportarmi portandosi a casa una roba senza poter spendere certe cifre, ha comunque il CD che va via a 10 €. 

R: A parte le esigenze del caso, tu sei molto legato al formato fisico, giusto?

T: Io compro solo vinile. Il CD non mi interessa, per il vinile in passato ho avuto manie da collezionista tipo drogato ma ora ne sono uscito (risata condivisa), quindi non sto a cercare l’edizione con il vinile colorato… però se voglio proprio avere in casa la copia di un disco compro un vinile. Ovviamente ti parlo di copie fisiche, per il digitale mi basta avere una certa qualità audio, come su Bandcamp dove puoi comprare in WAV o FLAC e va benissimo, con i soldi che vanno direttamente alla band.

R: Noi qualche tempo fa abbiamo intervistato quei matti del Megastore Sonic Belligeranza, che qui a Bologna hanno uno spazio che definiscono “un WWF della musica in formato fisico”. Lì trovi di tutto, da vinili e cassette fino ai formati più esoterici, ma il bello è che all’ingresso c’è un giradischi e chiunque può mettere su qualcosa, magari ti trovi lì e metti su un disco che hai appena scoperto e che ti incuriosisce. Le altre persone intorno lo ascoltano con te e magari ti chiedono cosa hai messo su, cosa ti piace e si finisce a parlare di musica. La percezione è proprio che anche nell’era digitale, in cui sicuramente puoi dare supporto a delle produzioni inculatissime ma allo stesso tempo hai una marea di dischi che ti travolgono e competono per la tua attenzione, la musica in fisico abbia senso anche proprio come contatto fisico, umano, per una fruizione meno… ipertestuale, meno frenetica.

T: Quando vai in un negozio di dischi è un’esperienza completamente diversa, hai una persona che ti guida e ti devi fidare, e se funziona è la ragione per cui magari un negozio di dischi è più noto rispetto a un altro. Ad esempio se a Roma va da Radiation Records, loro stanno super in fissa per tutto quello che succede in città e se viene uno da fuori lo coinvolgono molto su questo, poi se capiscono che genere ti piace ti consigliano gran cose, ci tengono tantissimo. Il problema di molti canali presenti su internet è che sono governati da un algoritmo, o cerchi un nome perché hai già l’interesse tu oppure sarà l’algoritmo che ti consiglierà… e tu pensi che sia legato ai tuoi gusti musicali ma no, in realtà i consigli sono tarati su parametri slegati dal tuo percorso di ascoltatore o ascoltatrice. Una volta magari seguivi un’etichetta con una direzione musicale precisa, per cui potevi dire la Skin Graft mi piace, la Touch and Go mi piace, allora la seguo. Anche quando c’era MySpace, sai, con la colonnina dei migliori amici ti potevi fare un viaggio tra le etichette e i gruppi, se seguivi qualcuno esploravi i gruppi con cui andava in tour, scoprivi un sacco di belle cose. Però non eri indirizzato a farlo, eri tu a fare una ricerca in base a quello che ti interessava. Invece se vai su Spotify e cerchi Mai Mai Mai, tra i consigliati c’è roba che io neanche conosco o che nemmeno mi ascolterei, perché è l’algoritmo che crea i suggerimenti. Poi certe cose le azzecca, non dico di no, ma è comunque un’intelligenza artificiale che sta dicendo a te cosa ascoltare. Per non parlare di Netflix, Prime e via dicendo…

R: Allora l’ultima domanda calza a pennello: consigliaci tu qualcosa da ascoltare, magari uscito da poco.

T: Intanto inizio da un disco che non so se non l’ho capito o se mi ha deluso… però il nuovo Burial non mi ha fatto impazzire.

R: Sfondi una porta aperta. Un giorno vorrei scrivere un pezzo sulla parabola sentimentale che è la carriera di Burial.

T: Boh, da più parti lo stanno osannando, io lo ascolto e non capisco perché. Se devo mettere un disco suo, ancora metto i primi. Un disco di quest’anno molto bello secondo me è quello di Floating Points con Pharoah Sanders… vabbè, poi mi ascolto un sacco di roba pallosa ultimamente, quasi tutte cose dilatate. Però se vuoi un disco un po’ più giovane…

R: Non ti fare problemi, qui su Livore la musica dilatata va alla grande.

T: Intanto ti parlo di questa etichetta di Milano, la Heimat Der Katastrophe, che sta facendo solo cassette, prima pubblicava dungeon music e adesso sta passando a roba vecchia italiana ripresa da loro, molto interessante. Ho preso tre cassette, una più bella dell’altra. Ecco, un disco bello, poi con lei ho suonato anche insieme al FRAC, è l’ultimo di Marina Herlop.

R: Ah sì, quello con la lumacona in copertina.

T: (annuisce)

Vengono a chiamare Toni per preparare la serata, la conversazione sui lumaconi rimane un territorio inesplorato. Ma forse va bene così. Salutiamo Toni e gli permettiamo di dedicarsi al set.

Mai Mai Mai suonerà di nuovo a Bologna il 21 ottobre al Tank e in generale sarà un po’ in giro in quel periodo. Beccatelo.

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto