REPLAY VALUE

Quando la Warp pubblicò la compilation Artificial Intelligence, mise in copertina una figura robotica antropomorfa che, accomodata su una morbida poltrona, appare totalmente immersa nella contemplazione sensoriale della musica. La scelta dell’immagine era perfettamente funzionale alla proposta dell’etichetta: una musica elettronica la cui finalità non è il movimento del corpo ma lo stimolo della mente, che abbraccia sofisticatezze compositive e approdi ambientali. Una musica elettronica che, quindi, non ha il suo spazio elettivo nei club ma nel comfort degli spazi domestici. Non a caso appare in copertina The Dark Side of the Moon (che in quel periodo era facile trovare dentro molti salotti inglesi) affiancato da Autobahn dei Kraftwerk, ad indicare una transizione progressiva (una “elettronificazione”, se me lo concedete) della musica per audiofili, fino ad arrivare alla morbidezza sintetica della proposta Warp.

A chiunque indossi un paio di cuffie nel 2022, quella immagine sembra semplicemente anacronistica. La fruizione della musica oggi è in maniera preponderante distaccata da uno spazio o un tempo dedicati. Nell’era della flessibilità multitasking, l’ascolto accompagna spesso l’esecuzione di altre attività; in epoca di progettualizzazione del proprio tempo libero e massimizzazione della produttività, l’idea di fermare tutto per dedicarsi a un disco sembra un lusso. Spesso l’esperienza musicale prescinde anche da un supporto specifico, con il flusso audio che arriva attraverso servizi di streaming dallo stesso smartphone o computer sul quale nel frattempo stiamo scivolando tra blocchi di dati. Non di rado questa sovrapposizione finisce per diventare bulimica, proteiforme, specchio di una mente finita e facilmente distraibile alle prese con una infinità disponibilità di informazioni. Come parte di questo meccanismo si tende a privilegiare il singolo brano rispetto al contenitore discografico da cui proviene, in una dominanza della brevità e della fluidità. Questo cambio di prospettiva fa sì che ogni pezzo sia sovente estrapolato rispetto all’espressione artistica d’insieme in cui era originariamente inserito, diventando una semplice coloritura a mo’ di mattoncino nella playlist secondo i desideri dell’utente e l’indirizzo dell’algoritmo. Ciò non consente di risalire compiutamente all’intenzione artistica che lo ha generato e di cogliere il senso del contesto da cui proviene: ad esempio, ascoltando solo Song to the Siren quanto si capisce del Tim Buckley di Starsailor e degli intenti di quel disco? Ben poco.

Ascoltare per la prima volta un disco (inteso qui come formato che racchiude ed identifica una precisa testimonianza artistica) è un’esperienza avvincente, sempre colma di un certo potenziale disorientante, che mette a contatto la nostra percezione con nuove manifestazioni espressive tra le infinite possibili nell’arte musicale. Chi è appassionatə di musica (destinando questa espressione a chi non vive la musica solo come intrattenimento o piacere dei sensi, ma ne fa esperienza all’interno di un preciso quanto personale percorso di ricerca critica ed estetica) spende gran parte della propria attività di ascolto, com’è logico se non si vive di pura nostalgia, a riprodurre per la prima volta dischi non ancora ascoltati. Il giudizio sull’oggetto dell’ascolto sarà sempre soggettivo, ed è naturale pensare che verrà derivato esattamente dal modo in cui il disco in questione si inserirà nelle coordinate tracciate dal nostro gusto estetico e dalle nostre conoscenze: sull’ambito musicale di riferimento, sulle influenze storiche, sui parallelismi di certe tecniche espressive. Tuttavia credere che la valutazione che facciamo di un disco al primo ascolto derivi completamente dal nostro bagaglio critico è fuorviante.

Passando da un brano al successivo (o da una sezione alla successiva), la riproduzione del file audio affluisce progressivamente dalla sfera dell’esperienza a quella del ricordo. Arrivati al brano 7 su 11, ad esempio, il modo in cui recepiremo i brani che ci rimangono da ascoltare sarà giocoforza influenzato dal ricordo dei precedenti e da come questo ricordo è stato caratterizzato. Questo processo inoltre non avviene nel vuoto, ma nel frammento di realtà quotidiana entro cui scegliamo di esperire quell’ascolto. E la formazione dei ricordi, così come le connotazioni che questi possono avere, è influenzata da molti fattori esterni rispetto alle nostre conoscenze. Se durante l’ascolto ci dedichiamo ad altre attività che richiedono la nostra attenzione focalizzata, per forza di cose ci sfuggiranno alcuni degli elementi della musica che stiamo ascoltando e potrebbero mancarci alcune chiavi di lettura. Lo stesso accade se l’ascolto avviene in momenti in cui è la nostra attenzione complessiva ad essere ridotta, come quando abbiamo fretta. Tutto questo a pensarci sembra ovvio, eppure ha un effetto subdolo sulla nostra percezione. Ci sono inoltre dinamiche che influenzano quasi a priori l’idea che ci facciamo durante il primo ascolto.

Se prima di premere “play” abbiamo vissuto esperienze che ci hanno emozionato o scosso, o che hanno richiesto una profusione di energie, faremo fatica a tornare allo stato stazionario. È il meccanismo dell’attentional blink: se un’azione richiede intensamente la nostra attenzione, una volta risolta ci sarà un periodo refrattario in cui non riusciremo a concentrarci al meglio delle nostre capacità. Oltre a questo, è molto diverso dedicare ad un disco il primo ascolto della giornata o arrivarci dopo aver già ascoltato altra (o molta altra) musica durante il giorno: in quest’ultimo caso, la nostra mente sarà più stanca perché già sovraccaricata dalla processazione di una certa quantità di informazioni provenienti dallo stesso canale. Anche qui, qualcosa verrà lasciato per strada. Non solo: il nostro umore può a sua volta incidere su come recepiamo l’ascolto di un disco. Non si tratta solo di un discorso di consonanza tra stato d’animo e tono emotivo della musica (es. se sono arrabbiato valuto più positivamente un disco hardcore punk, se mi sento dolcino meglio il twee pop); riguarda piuttosto un fattore di riverbero del vissuto sulla percezione. Nel corso di una giornata in cui abbiamo già dovuto digerire qualche smacco o fronteggiare aspettative deluse, tenderemo ad innalzare la nostra soglia critica e saremo più propensi a notare con insofferenza i passaggi stantii e le soluzioni più derivative; se invece si tratta di una giornata in cui siamo di ottimo umore, ci approcceremo all’ascolto più bendisposti (più “ottimisti”, appunto) e tenderemo a valutazioni più positive, magari accogliendo con piacere anche idee non originali ma ben eseguite.

Va da sé che, considerando tutti i possibili fattori incidenti, non avviene spesso di ascoltare per la prima volta un disco nelle condizioni ideali. Siamo tuttə col tempo contato e la musica si ritaglia gli spazi che trova: a volte questi sono scomodi o già affollati, ma si fa quel che si può. Al termine dell’ascolto avremo fissato l’idea del disco come ricordo, con associato un giudizio di valore secondo i nostri canoni; ma il nostro ritmo di vita e il nostro stato emozionale avranno influenzato pesantemente quel giudizio. Ecco allora che il riascolto diventa una pratica preziosissima.

Quando arriviamo al riascolto il disco ha già dei connotati, più o meno precisi nella nostra mente. Non ci ritroviamo a dover fissare tutto man mano che procede il minutaggio; avremo già delle sensazioni pregresse, verificabili nei vari passaggi, su cui ricostruire un approccio confidenziale alla musica. Se il primo ascolto ha la fascinazione dell’avventura e l’eccitazione della scoperta, il riascolto offre la costruzione di un significato sotto il riparo della familiarità. Tra una riproduzione e l’altra avremo avuto modo di inquadrare meglio il disco e le sue intenzioni, oltre che la scena o il movimento musicale da cui deriva; se sarà trascorsa una congrua quantità di tempo tra i due momenti, ci saremo arricchiti anche noi e potremo volgere la nostra maggiore consapevolezza ad una lettura più profonda. È inoltre dimostrato che con il passare del tempo i ricordi vedono smussati i propri caratteri negativi. mentre tendono ad emergere con più chiarezza gli aspetti positivi. Ecco che allora il riascolto può fornire l’occasione per uno sguardo più paziente, attraverso il quale far emergere all’attenzione idee e soluzioni che inizialmente non avevamo notato o valorizzato. L’avere già un appiglio mnemonico riduce il peso dei fattori confondenti estemporanei.

Non va sottovalutato anche il beneficio di andare a riprendere un disco a debita distanza dai polveroni dell’hype. Potremmo essere arrivati ad ascoltare una nuova uscita guidati da una recensione entusiastica, ed essere rimasti delusi perché invece di un capolavoro ci siamo ritrovati tra le mani giusto un bel dischetto; tempo dopo possiamo approcciarci al riascolto senza aspettative gonfiate e dire che beh, sai che c’è?, in fondo è proprio un bel dischetto. Per questo il riascolto non è necessario tanto per i dischi della vita, quelli che portiamo nel cuore al di là del valore artistico e che riascoltiamo primariamente per godere della loro bellezza e per rivivere le sensazioni che evocano in noi; l’opinione su questi dischi cambierà solo se nel frattempo è cambiata radicalmente anche la nostra vita e noi con lei. Del riascolto beneficiano soprattutto quei dischi che stanno in equilibrio sulla soglia tra notevole e marginale: quelli che sappiamo esserci piaciuti ma di cui per qualche ragione non ci ricordiamo una nota, quelli che ci hanno colpito con trovate interessanti ma che sono rimasti sepolti dal flusso di uscite più compiute, più decisive.

In quest’ottica, il cosiddetto replay value non è soltanto il valore aggiuntivo che può essere estratto da un prodotto artistico in virtù della sua capacità di invogliarci a ripetere l’esperienza una volta terminata. È anche, da un punto di vista più personale, il valore del recupero, la ricchezza di significato a cui si può accedere dedicando nuova cura a ciò che già si pensa di conoscere. Ripercorrendo, concedendosi tempo. Riascoltando.

Una delle tensioni più forti per chi è malato di musica è il brivido della ricerca costante, la potenzialità della scoperta, il sapere che, oltre il continuo colmare le lacune con ascolti di classici e capolavori di nicchia, la sorpresa della meraviglia potrebbe attenderci dietro ogni disco misconosciuto. Spesso non è così, ovviamente: una caratteristica abbastanza trasversale dell’ascoltare con appassionata curiosità non è tanto il numero più o meno enorme di dischi che passano per le cuffie, quanto piuttosto il numero di dischi brutti o scialbi che si è dispostə ad ascoltare per trovare una perla.

È naturale che, nell’affrontare un flusso costante di nuove uscite, ristampe e consigli disparati, il primo ascolto serva da filtro necessario per scremare ciò che rimarrà e ciò che potrà essere dimenticato senza rimpianti. Tra questi due poli c’è però una zona grigia di prime impressioni che restano come ritratti abbozzati, disegni fatti a matita tra ippocampo ed amigdala. Ecco perché recuperare un disco che non si ascoltava da tempo e tornare a connettere i puntini tratteggiati dalle sue note è, in molti casi, la vera essenza del rituale. È un atto d’amore e di impegno, che non conferisce nessuna credenziale se non il conoscere meglio qualcosa che era già lì con noi; fare luce su qualche recesso in penombra nella memoria e scoprirvi nuove bellezze in attesa, che poi diventeranno parte del nostro sapere. E quindi, del nostro essere.

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto