ARCHIVI / CONCERTI / RACCOLTE

Anche se seguire con regolarità le ultime novità discografiche significa attribuirsi una quota minima di brutti ascolti per amor di comprendonio, non c’è mai davvero penuria di dischi interessanti di cui parlare. Per questo nelle recensioni che spargiamo durante la settimana prediligiamo trattare musica fresca, che risiede saldamente nel comparto più recente della contemporaneità, per cercare di dare un quadro di ciò che sta succedendo e si sta suonando nel qui e ora. Bisogna però avere consapevolezza che “è uscito il nuovo album con i nuovi pezzi di artista X” è solo una parte della musica che si riversa ogni giorno alla nostra portata, e non è detto che sia per forza la più interessante. C’è infatti tutto in capitolo dedicato a pubblicazioni attuali di musica registrata in altri momenti e in altri contesti che sfugge a una storiografia così lineare e permette di moltiplicare le prospettive possibili. Possono esserci edizioni di concerti particolarmente significativi che danno una chiave di lettura differente rispetto alle registrazioni in studio; il vastissimo mondo di criteri tematici, artistici e culturali con cui può essere compilata una raccolta di brani di diversa provenienza e tutti i percorsi che attraverso questi si possono tracciare; l’uscita di materiale d’archivio che non ha ancora trovato la strada verso la pubblicazione, uno stimolo a rintracciare nuovi aspetti della creatività di artistə che apprezziamo già o da cui attendiamo di essere sorpresə. Alcune uscite notevoli che ricadono tra queste categorie sono già state trattate qui e , ma in questa prima metà di 2022 sono comparsi abbastanza esempi di valore da meritare un articolo a parte per segnalarli. Buona lettura e buon ascolto.

SEPARATORE

Anna von Hausswolff – Live at Montreux Jazz Festival (Southern Lord Recordings)

Se avete seguito fin qui il percorso di Anna von Hausswolff, prima di ascoltare questo live vi conviene mettere da parte la vocazione esoterica, gli organi a canne del XX secolo, i concerti nelle chiese. Ignorate anche il fatto che l’esibizione fosse al Montreux Jazz Festival, perché qui l’artista svedese è nella sua versione più Rock Am Ring possibile. La voce di von Hausswolff si erge magnifica e adamantina dal podio di basalto di un suono gonfio e compatto, con la band che la sostiene disegnandole attorno massicci doom e cadenze marziali à la Swans senza disdegnare peregrinazioni dronanti. Mai come in questa veste l’abbiamo sentita così istrionica e carismatica, capace di irretire il pubblico nei momenti più dilatati per poi liberare tutta la propria forza in cavalcate ricamate dall’organo che risuonano di un’epicità diretta e sincera. Questa presenza scenica è strumentale nel far acquisire nuova energia ai pezzi che, se nella resa dal vivo perdono alcune delle sfumature atmosferiche presenti nelle versioni registrate in studio, riescono però a convogliare un entusiasmo estatico libero da ogni velleità macchinosa di compiacimento. Si sente ad ogni passaggio che chiunque qui si sta divertendo un mondo, dal pubblico giustamente entusiasta a von Hausswolff che gode a intorbidire le parti vocali con dei growl da fatality. Dopo la reinterpretazione granitica e trascinante dei Dead Can Dance in Ugly and Vengeful e la commovente ascesi lirica di Källans återuppståndelse, al termine di una Come Wander With Me / Deliverance che pare ispirata dai frangenti più rumorosi degli Electric Wizard sentiamo un fulminante assolo di chitarra allacciarsi ai mulinelli vocali in mezzo a un fantastico casino, e allora viene proprio spontaneo dirlo: concertone.

Nashenas – Life Is a Heavy Burden: Ghazals & Poetry From Afghanistan (Strut)

Poche esperienze sono irradiate di fascino destabilizzante come l’ascolto di musica proveniente dalla periferia del Primo Mondo e risalente a più di mezzo secolo fa. La bellezza non canonica di quest’arte sa toccare la nostra sensibilità pur attraverso forme espressive spesso molto lontane dal nostro sentire abituale: differenti strumenti e metodi compositivi, linguaggi che sfuggono alla comprensione, contesti di origine diversissimi dalla nostra realtà non inficiano l’emozione pura che la musica può trasmetterci. Questi elementi sono anzi in grado di ricamare sentieri per l’immaginazione, peraltro sostenuti dalle storie avvincenti e non di rado tortuose che queste testimonianze hanno dovuto percorrere per arrivare fino a noi. La Canary Records di Baltimore ha un catalogo che è niente meno che un forziere di tesori di questo tipo e in cui vi invitiamo a immergervi per perdere magnificamente la cognizione del tempo e dello spazio. Uno dei reperti più interessanti di quest’anno arriva però dalla Strut, che ha pubblicato Life Is a Heavy Burden: Ghazals & Poetry From Afghanistan per celebrare l’arte di Mohammad Sadiq Fitrat. Lo pseudonimo Nashenas, che significa letteralmente “sconosciuto”, ha origine quando l’artista inizia ad avere uno spazio fisso su Radio Kabul in cui presenta rivisitazioni di colonne sonore di film e proprie composizioni di poemi d’amore cantati (tradizionalmente chiamati ghazal) con l’accompagnamento di svariati strumentisti alle tabla e agli archi, più Fitrat stesso all’harmonium. Le registrazioni, inizialmente realizzate solo per essere trasmesse via radio, vengono pubblicate in seguito come singoli in piccole tirature, sufficienti a rendere Nashenas un nome di culto nella capitale e dintorni. Tuttavia la sua arte rischia tristemente di attenersi allo pseudonimo quando le registrazioni diventano pressoché introvabili durante i tanti sconvolgimenti che il paese affronta nei decenni successivi, e lo stesso Fitrat è costretto ad emigrare; ma attraverso canali di collezionismo di ultranicchia e un po’ di fortuna, le incisioni sopravvivono fino ad oggi e vengono ora unite in questa raccolta. Se potessimo capire qualcosa dei testi potremo elaborare maggiormente sulla vena pessimistica con cui Nashenas narra le molte stanze del sentimento, ma la musica di per sé basta per lasciarsi trascinare. Pastosa come un dolce di mandorle e ammaliante come un sogno venato d’oppio, si mescola perfettamente alla voce salmodiante di Fitrat, che scandisce tutte le venature emotive delle proprie storie a metà tra cantante e confidente. Dal lirismo dolente di Flower Had a Torn al trasporto mellow della splendida I Am Happy Alone (riproponibile come inno malinconico dell’era digitale?), ce n’è abbastanza per emozionarsi a prescindere dal dove, dal come, dal quando.

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Reinier van Houdt – drift nowhere past / the adventure of sleep (elsewhere, 2022)

Durante i vari lockdown imposti dalla pandemia sono fiorite molte iniziative per cercare di recuperare il senso di comunità e di condivisione fisica che anima il mondo della musica. Mentre live in streaming e rave virtuali cercavano faticosamente di riprodurre attraverso schermi bidimensionali l’immediatezza dello stare insieme, Amplify 2020 è stata un’occasione originale per accettare i tempi dilatati della distanza e volgerli a proprio favore. Si è trattato di un “festival” dedicato alla creazione invece che all’esibizione: a una variegatissima platea di artistə è stato chiesto di condividere in maniera gratuita il materiale composto appositamente per l’occasione nei lunghi giorni di quarantena. Chi ha seguito la pagina Bandcamp ha così potuto avventurarsi attraverso più di 80 ore di nuova musica caricata nel giro di sei mesi, con un senso di esplorazione e continuità di cui non c’era esattamente abbondanza in quel periodo. I pezzi realizzati per Amplify 2020 da Reinier Van Houdt hanno ricevuto una certa attenzione anche fuori da quel contesto, ed è facile capire perché: questi microcosmi elettroacustici suonano come dei veri e propri viaggi nella nostra psiche ai tempi di animazione sospesa del primo lockdown. Pianista virtuoso di formazione classica e poi innamorato delle fughe dalla tradizione di John Cage, Tony Conrad e Robert Ashley, Van Houdt negli ultimi anni ha intrapreso un percorso di sperimentazione che lo ha visto collaborare con Micheal Pisaro-Liu ed integrare sempre di più radio, nastri e strumentazione elettronica nelle proprie composizioni. I brani delle Amplify Sessions sono però un vero e proprio attraversamento dell’Acheronte creativo verso una landa spettrale dove il significato del tempo e delle note decade per lasciare spazio a forme liminali. Van Houdt è un tessitore molto abile, lavora con suoni minimi che giocano con la percezione attraverso un’effettistica studiata e dettagliata; non indulge mai nel rumore o nella a-musicalità, dissemina stimoli aurali secondo schemi percettibili ma non evidenti. I brani acquisiscono sfumature di familiarità mentre i suoni appaiono e scompaiono come appigli mutevoli, creando momentanee epifanie di senso sempre pronte a dissolversi. Le note di piano suonano lontane, irreali, e nella loro assurda presenza melodica evidenziano per contrasto l’indeterminatezza dell’insieme; le interpolazioni di dialoghi da vecchi film francesi rafforzano l’idea di trovarsi in una dimensione sospesa dove la lucidità vacilla. Nel baluginio di queste composizioni Van Houdt riesce a creare una personalissima forma di hauntology pandemica, che richiama la rappresentazione della mente umana impressa da Leyland Kirby nel capolavoro Everywhere at the End of Time: come lì si poteva ascoltare l’angoscioso declinare della cognizione in demenza attraverso il faticoso degrado della musica in rumore, qui attraverso un dormiveglia sonoro si naviga lo stato di stasi e nebbia mentale che costituiva gran parte del nostro terreno emotivo durante il primo lockdown. Ora che questi brani sono stati meritatamente raccolti e pubblicate su disco insieme ad altri quattro realizzati successivamente (comunque interessanti), i brividi sono assicurati.

VOX Populi! – Psyko Tropix (Touch Sensitive Records)

Sono pazzi questi francesi. I VOX Populi! si presentano come una di quelle entità underground che sfuggono con naturalezza a ogni incasellamento, avendo dato sfogo lungo tutti gli anni ’80 a umori mutevoli e inafferrabili che li vedono in teoria partire come formazione post-punk/minimal wave per raggiungere poi approdi esoterici con vista su tribalismo industriale ed esot(er)ismo ambientale. Quando la creatività umorale e prolifica di un gruppo semisconosciuto come questo viene rievocata attraverso la pubblicazione di materiale d’archivio, può sempre trattarsi di una scommessa intrigante: chissà a quali idee del loro arsenale non abbiamo ancora prestato orecchio? La mezz’oretta di Psyko Tropix ne contiene abbastanza, e abbastanza stralunate, per stuzzicare l’appetito. Il territorio prevalente in questo caso è quello di una psichedelia sognante che dipinge visioni drogate di musiche pastorali, ora percorse da afflati asiatici (Holistikoholic) ora impregnate di umidore tropicale (Getting To Know Mars & Venus), quasi sempre piccole meraviglie dai suoni saturi ed effettati che fanno ben presto perdere i punti di riferimento. Eppure il disco si apre con la bella cavalcata sghemba in odore di kraut di Caballo Blanco e una discesa nella palude dub di Mush Dubby Gnarls & Vrooms, una mossa rivelatoria che fa capire ancora prima di infilarsi nel caleidoscopio di psych-synth-folk che ci saranno detriti devianti sparsi un po’ dappertutto: momenti freak zappiani, i Taj Mahal Travellers in jam con i Suicide, strumentali che potrebbero arrivare dai connazionali Ilitch in un raro momento di presa bene. Se questa impennata di namedropping vi fa girare la testa ci sentiamo di garantire che il disco in sé è capace di fare altrettanto, e oltre ad essere una bella e fedele introduzione al mondo dei VOX Populi! è anche un invito irresistibile ad esplorare il resto della loro discografia: il che, per una pubblicazione d’archivio, è un doppio successo.

AA. VV. – Lèspri Ka: New Directions in Gwoka Music from Guadeloupe 1981-2010 (Time Capsule)

Abbiamo recentemente percorso alcune tappe in giro per il mondo per mostrare quanta incredibile varietà e ricchezza di scene musicali c’è in posti a cui di solito non pensiamo mai. Ma per ogni scoperta inaspettata ci sono ancora mille distanze da percorrere, per cui ben vengano compilation come questa che ci offrono uno sguardo su tradizioni ed evoluzioni fuori dal nostro radar. Gwo ka è il nome della musica tradizionale della Guadalupa e, nonostante significhi letteralmente “grande tamburo”, si è sviluppata proprio per poterne fare a meno: nel periodo coloniale le leggi francesi vietavano espressamente l’utilizzo di percussioni allə schiavə che lavoravano nelle piantagioni. Così nacque un tipo di canto esuberante e ritmico, basato sulla ripetizione e sul meccanismo del call and response, proprio per dare la cadenza durante il massacrante lavoro manuale. Quando poi, decaduta l’assurda legge, i tamburi iniziarono ad essere introdotti nelle manifestazioni musicali, la musica gwo ka si strutturò sulla base di sette pattern ritmici corrispondenti a determinate coordinate espressive (lavoro, lotta, amore, satira e così via, con moltissime sfumature intercorrenti) che fungono da punto di partenza per l’improvvisazione. Attraverso la selezione di questa raccolta viene messa in mostra la vivacità delle caratteristiche fondanti della musica gwo ka, nei rituali ipnotici delle voci e in alcune delle prove percussive più esaltanti che vi possano capitare tra le mani; basta ascoltare Yo di Kalindi Ka per capire che questo semplice intreccio è sufficiente per evocare la magia. Il merito di questa pubblicazione è però anche quello di mostrare l’evoluzione di questo stile man mano che la tradizione si è aperta alle influenze esterne. Procedendo con l’ascolto in scaletta si incontrano infatti corpose iniezioni di funk che si innestano a meraviglia sui tappeti di poliritmi variopinti, l’aggiunta di fiati che pescano sia tra gli ottoni sia tra vari tipi di flauti africani, tastiere elettriche che danzano su movenze jazzate ma sanno anche evocare le linee di synth della disco. Mentre l’albero del folklore si arricchisce di nuovi frutti e gli ensemble di nuovi strumenti, le radici rimangono sempre ancorate nella potenza di canto e ritmo che parlano la stessa lingua. Tra questi due poli, come tra la selvaggia foresta pluviale di Basse-Terre e le piantagioni di canna da zucchero di Grande-Terre, si trova la natura del Lèspri Ka, lo spirito della musica di una terra che adesso conoscete un po’ di più.

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto