SOUL GLO – DIASPORA PROBLEMS
Allora, praticamente.
Voglio parlare di Diaspora Problems più o meno da quando è uscito, ma ci sono state un paio di cose che mi hanno impedito la mossa. In primo luogo sono usciti dischi importanti da coprire e stroncare, in secondo luogo l’esclusiva è stata fottuta da più o meno ogni big player del giornalismo musicale internazionale, infine: come cazzo si parla di questo album?
Vi giuro che ho passato un paio di settimane in un’interminabile, patetica avventura: provare a mappare coerentemente le influenze e le analogie che i Soul Glo hanno rigettato su disco in questa primavera. La ragnatela costruita aveva propaggini che si estendevano in ogni direzione, in misure anche elaborate e ragionate: non volevo fare la fine della zine che si sente in dovere di paragonare la band ai Bad Brains, un’operazione superficiale e tutto sommato razzista. E allora giù le coordinate sul tavolo: il primo nome che un esperimento post-hc di questo tipo scampanella sono i Refused dell’iconico The Shape of Punk to Come, gli Orchid e i Nails per il lato Emo-Powerviolence, gli Armed, i primi Turnstile e i Code Orange per recuperare delle coordinate più recenti su cui scrivere dei lati più hardcore punk e di quelli più metallari portati in cuffia dai Soul Glo. A partire da queste coordinate, altre esplorazioni: il basso crunchy e funereo di Gianmarco “GG” Guerra striscia pericolosamente tra i Meshuggah più groovy e il noise rock in secca dei Show me the Body; le urla grottesche e catartiche di Pierce Jordan se la giocano nel campionato dei Deadguy – o, esempio più recente, dei Fucked Up; le strutture esotiche e n-polari dei brani richiamano persino il mathcore di Converge e Gaza; ci sono dei brandelli che mi sanno per assurdo di Atari Teenage Riot; VUOI IN TUTTO QUESTO CHE NON ABBIANO ASCOLTATO BACKXWASH E DANNY BROWN, tralasciando i Cannibal Ox citati in Coming Correct is Cheaper? Argh.
La mia sanità mentale giunge al totale collasso nel momento in cui il frontman della band, in una splendida intervista per broooklynvegan, dichiara al grande pubblico che l’influenza principale nella sua scrittura sono i WAR di Eric Burdon, quelli di Why Can’t We Be Friends? e delle jam funk/soul da una decina di minuti. Capisco a quel punto che niente ha senso, che ha ragione chi scrive di pancia e che i Soul Glo hanno fatto il botto proprio grazie al loro percorso indecifrabile, stortissimo, che sfonda in tutti i modi ma non mescola niente. Qualcosa che non sarebbe successo in altre epoche e che per questo conserva un grande valore, per certi versi paragonabile ad una raccolta di anthem hardcore punk con annesso esoscheletro di plunders di altre musiche belle aggressive. Qualcosa che non ha l’obbligo di incastrarsi in una corrente, citando Pierce Jordan nell’intervista di cui sopra:
Like, punk and hardcore people wanna dress like hip hop fans and rappers wanna dress like punks. I was talking about this, we were at a brewery last night doing a tour of it, and I was talking to this dude who works with the brewery, and he was saying he was in Florida a few weeks ago to see Bjork — Bjork is one of his favorite artists — and he was wearing some metal shirt and people were looking at him funny. And it’s like, we’re all here to see Bjork, we’re all Bjork fans. And I was like, yeah dude, I saw Yo La Tengo a few months ago, and I had my grillz in and shit, and I’m also just like, very much a nigga, and it’s all these old white dudes from the fucking ‘burbs just staring at me. And it’s like yo we all have the internet.
Se tutti abbiamo internet è lecito che il disco che sfonda di una band hardcore parli a chi è capace di digerire ogni tipo di hardcore possibile, inteso in senso lato – concetto rafforzato dalla scelta di mettere in feat. tantissimi musicisti di background diversi della scena di Philadephia. Prima di quest’anno i Soul Glo si limitavano a foraggiare l’underground della loro città con una take metodica ma un po’ sterile sullo screamo, con la notevole eccezione dell’ultimo disco, The Nigga in Me is Me, comunque acerbo. La tavola viene sparigliata con il nuovo Diaspora Problems e al timone vanno le mani estremiste e allo stesso tempo eclettiche del cantante e frontman Pierce Jordan: i Soul Glo generano così una tempesta incontrollabile e grezza di pulsioni differenti e il disco viene fuori come un patchwork di piccoli opali di hardcore che si danno il cambio all’occhio di bue con la stessa velocità con cui cambia l’mvp durante un ladder match della WWE. A sovrastare questo maelstrom di euforia e cattiveria c’è lo screamo gorgogliante e rocambolesco di Jordan, accompagnato qui e lì dagli ospiti, ma vero protagonista indiscusso di tutta l’operazione – a legare con una rabbia perfettamente sfogata discorsi musicali molto diversi che ruotano senza sosta in canzoni da tre/quattro minuti.
Questo il concept strutturale di base della scrittura di Diaspora Problems. Andare ad approfondire direttamente i brani è rischioso, perché mi vado a perdere senza dubbio nelle scintille che esplodono quando le diverse anime dei pezzi fanno contatto e quando la band decide di sbrodolarsi e inciampare su se stessa per disorientare l’ascoltatore. Vi parlo del febbrone trap/horror di Driponomics oppure di The Thangs I Carry, in cui Bearcat esce da una cascata di chitarre post-hardcore per dei break in cui fa Nic Endo? Metto l’accento sul momento di gloria degli ottoni di Thumbsucker che tradisce l’impostazione ska con un basso da Godflesh mentre le percussioni hintano I Want Candy oppure vi racconto come si evolve Gold Chain Punk, che parte dai Sonic Youth, mima David Comes to Life con un verso solare e rumoroso per poi rigassificarsi in metal con gli accordi in palm mute del primo chorus, tutto quanto nel giro di un minuto? Sembra una cosa sconclusionata e deficiente, ma in realtà è una cosa sconclusionata, deficiente e anche bellissima. Gli spunti arrivano a mitraglia sotto Jordan che ciarla di politica e incazzo ed è francamente impossibile tenere la guardia alta tutto il tempo: Diaspora Problems prima o poi riesce a cogliere alla sprovvista con un arsenale di mazzate che i Soul Glo maneggiano con la stessa delicatezza di chi vuole mescolare una zolletta nel caffè con un piede di porco. E, almeno a mio giudizio, non c’è neanche un singolo brano in cui questa operazione risulta noiosa, pedante o, dall’altro lato, over the top.
Questa cosa accade per un motivo abbastanza preciso: gli altri gruppi del post-hardcore recente hanno adottato un approccio più vagante ed esplorativo, come gli Armed e gli Show Me the Body, recuperato e potenziato da quei Refused di cui parlavamo, ma anche dalle prove sardoniche e scollacciate dei Nation of Ulysses o dei Blood Brothers. Diaspora Problems, invece, si fa carico di uno dei pregi più importanti dell’hardcore punk e della powerviolence: è continuamente in the face, carnivoro, criminale – è un attacco completo ai danni di chi voleva distrarsi. Ogni smagliatura dall’hardcore originario serve a scombare e a fare più disastro, ogni volta che la sezione strumentale devia dalla curva descritta nei dischi precedenti i Soul Glo inanellano una serie di microtracce che moltiplicano l’emotività e la frustrazione che hanno scelto di riversare in quest’ultimo album. Non ci sono breather, non ci sono momenti di calma e non c’è nessun compromesso. Così tutti i brandelli di metal, punk, rap, noise sono incastonati in una faglia eterogenea e imprevedibile, senza alcuna continuità e senza nessun fil rouge che non sia il carro di bestemmie urlate di Pierce Jordan, che a giudicare dall’intervista di brooklynvegan aveva tutto il disco in testa da qualche anno. Bisognerebbe chiedersi: come ha fatto?
La domanda non è semplice, e per rispondere mi tocca fare un ultimissimo tentativo con il lavoro di mappatura che ho cominciato due settimane fa: il Grime/Punk di Bob Vylan? No, non va. Sniping Pigz dei Plutocracy, in quella traccia in cui mixa grind e dub? Nah. Gli Ho99o9, che con Skin hanno proposto quest’anno un blend degli hardcore di hip hop e punk? Per niente a livello. No, no, no…
Basta, mi arrendo: non ho mai ascoltato nulla di simile. E questa, a casa mia, è una delle cose migliori che ci possa capitare. Non c’è molto altro da aggiungere.
I don’t like being appraised.
Coming Correct Is Cheaper
Don’t even fucking look at me nigga.
Remember what I said about the everyday.
At my big age I’ve learned how to behave,
but the tests stay reinventing themselves always.
I’m used to losing control and feeling detained
but the glow of my soul’s worth more to me than my name