Edit (27/09/2023): pensavo, genio io, di essere la prima persona del MONDO ad aver scelto di chiamare britpunk la corrente di post-punk revival post-brexit. Ho fatto qualche ricerca un paio di giorni fa e ho scoperto che la prima paternità di questo termine va a un connazionale che scrive (anche bene) su Myspiace. Addirittura l’intero articolo sul post-punk revival è intitolato britpunk. Ho contattato Paolo via mail e ci siamo chiariti immediatamente, andatevi a spulciare la sua zine.
Oh: ogni volta che esce un disco dalle isole britanniche noi dobbiamo fare quelli col broncio, a cui non piace un cazzo, che non sono contenti né quando il disco è una normalata tranquilla tipo le Wet Leg né quando si comincia a parlare di roba più elaborata e dinamica come i black midi. Siamo dei contrarian, delle testine di cazzo che per nessun motivo vogliono aderire a quello che piace al grande pubblico. Oppure c’è dell’altro?
In questo articolo voglio approfondirvi l’argomento di quel genere che sotto forme diverse è diventato una gabbia per uccelli per la musica del Regno Unito, che ogni anno si rinnova in un sabba diabolico dalle note sospettosamente simili e che ho deciso di nominare pro forma britpunk, per le motivazioni che scrivo più sotto. Sia per evitare di incappare sempre negli stessi discorsi, sia per dare un punto di vista differente a chi magari è un grandissimo fan di questo genere e non coglie la nostra insofferenza a riguardo.
Ma andiamo con ordine.
È il 2014, su internet imperversa Twitch Plays Pokémon, i Marnero sono in tour per suonare Il Sopravvissuto, succedono cose molto particolari in Crimea e a Odessa, Snapchat è al suo picco. Il post-punk revival degli anni ’00, quello danzereccio e ignorante portato avanti da Franz Ferdinand, Arctic Monkeys, Interpol, Bloc Party, è solo un terrificante ricordo, memento di quanto l’11 Settembre sia stato tutto sommato un momento piacevole degli anni ’00. Solo qualche avanzo di galera sognante e vago porta avanti senza troppo successo quell’estetica vetusta: i Vaccines, gli Iceage e poco altro. Ai tempi non era uscito il concetto di “ci siamo salvati, è finita!” perché alcuni gruppi della stessa nullità concettuale erano occupati ad esplorare le nicchie più inutili del post-rock e a giocare con gli effettazzi shoegaze solo perché suonava bene ed era una cosa carina, ignorando totalmente la componente meditativa e psichedelica dei gruppi degli anni ’90.
Dicevo, è il 2014. I Post-war Glamour Girls (che più avanti partoriranno gli Yard Act) fanno dischi di merda in quel di Leeds e nessuno se li fila, giustamente. Non hanno contratti e non credo fossero interessati ad averne, non c’è nulla per cui esplodere. Nell’anno in questione, però, cominciano a emergere i battiti di una nuova corrente, banalizzante come il dance-punk revival, zero-dinamica come quei gruppetti dream pop/post-gaze che giravano nel decennio precedente. A marzo il debutto degli Eagulls per Partisan, una munnezza post-punk-gaze che ho paura a rimettere in stereo, ad aprile esce il primo disco degli Ought, per Constellation; a giugno il secondo dei Total Control (una versione estremamente addomesticata del loro debutto); a ottobre il botto lo fa Matador con Plowing Into the Field of Love degli Iceage, un disco totalmente dimenticabile che si cannibalizza sul post-punk sardonico à la Birthday Party. Le label pagano bene, i magazine pompano su un prodotto a colpo sicuro: entrano soldi in cassa, è nato un business. Se ne accorgerà più avanti Mark Stewart che nel 2015 pubblicherà quell’aborto di Citizen Zombie, uscito in una congiuntura storica particolarmente fortunata, rifacendosi di una lunghissima carriera da nicchiaiolo.
Dal 2014 in poi il post-punk comincia a diventare la regola numero uno dei dischi suonati con le chitarre che escono dall’Inghilterra, sembra quasi che ci sia quella che ai giornalisti piace chiamare scena. Profezia che si auto-avvera, nasce un modo nuovo (vecchio) di fare musica (vecchia): da questo momento in poi chiameremo la corrente BRITPUNK, per evitare di dire post-post-punk e perché richiama quello schifo lavato con perlana che è stato il britpop. Se l’unico disco post-punk degno di attenzioni uscito nelle isole britanniche l’anno precedente era il debutto degli Eagulls, dal 2015 in poi arrivano gli Algiers, gli Shopping, i Girl Band, i SEXWITCH, per poi aprire ai Savages nel 2016 e soprattutto ai più aggressivi IDLES, che tra Brutalism e Joy As an Act of Resistance riescono a consacrare il genere come portabandiera contemporaneo del rock britannico nel pieno della Brexit. Dal successo che gli IDLES hanno fatto avere a Partisan, stesso successo che i moderatissimi Eagulls non erano riusciti a vincere a metà degli anni ’10, il mercato anglosassone si evolve e tutte le etichette che si stanno occupando del nuovo fenomeno cercano una next big thing capace di rompere con tratti identitari ben definiti la monotonia della nuova ondata britpunk che sta impestando le isole.
L’intuizione arriva sempre a Partisan, ma viene perfezionata da Rough Trade: nel 2019 escono il debutto dei Fontaines D.C. e soprattutto Schlagenheim dei black midi, un vero e proprio fenomeno della rete. Per capire cosa abbiano in comune il primo gruppo, una band indie-punk irlandese da quattro soldi e il secondo gruppo, un poligono di nerd di vizi avant e voglia di matematica di poco conto, dobbiamo confrontarci con chi ha mixato i due dischi: Dan Carey, collaboratore di Kae Tempest, musicista già nei SEXWITCH, nume tutelare della scena negli ultimi anni. Il tocco di Carey al disco non è particolarmente pesante, ma la sua produzione, legata a doppio filo a quel compromesso bianco e furbetto che è l’UK hip hop, si sente in un dettaglio specifico: quello che TheQuietus denuncia come Sprechgesang ma che qui per comodità chiameremo spoken word (leggasi: perché conosciamo il significato delle parole). Quando Carey sceglie di confrontarsi con gruppi che hanno vocalizzi meno delicati e acuti delle corde stirate sulla beat poetry di Tempest il riferimento principale diventa un altro progetto nato nel contesto hip hop che ha inanellato una serie molto lunga di dischi nel decennio appena passato: gli Sleaford Mods, arrivati alle orecchie del grande pubblico – fatalità – proprio in quel 2014, con Divide and Exit. Lo spoken word arido e sarcastico dei Mods trova una casa assolutamente accogliente in quei gruppi che vogliono emulare le atmosfere metalliche di alcuni tipi di post-punk: il Lydon dei Public Image Ltd., lo Shaun Ryder degli Happy Mondays, il Mark E. Smith dei Fall non sono affatto lontani da questo genere di beat. Il britpunk, che prima vagheggiava solamente sulle spalle larghe di gruppi più darkettoni e rumorosi, ha un suo nuovo timbro vocale d’elezione.
L’intuizione portata a tavola da Carey funziona e nello specifico la versione adattata alla scena britpunk della caciara da battaglia black midi diventa un fenomeno che raccoglie a sé sia i fan della musica più geometrica e complessa sia quelli di questo fiacco revival che in un disco cercano le chitarre fatte così e il cantante fatto colà. Negli ultimi anni la mossa funziona in continuazione, basta cambiare di poco i parametri: i Cool Greenhouse, i Working Men’s Club, i Legss, i dischi più recenti dei Melt Yourself Down, gli Squid, gli Yard Act, le Wet Leg emergono dalle pozze del post-punk inglese a forza di spoken word asciutti e specificità bidimensionali. Dall’anno scorso il modus operandi è lo stesso anche nell’universo Black Country, New Road, che, in quanto band di Cambridge, non può esimersi da prendere il suo post-rock vagamente sperimentale e farne un blend con le attuali cifre stilistiche britpunk nazional-popolari. Come per i black midi, i Black Country, New Road diventano un compromesso super accettabile per i music nerd che vogliono che il loro disco preferito non abbia cassa in 4 e per le persone troppo legate alla propria comfort zone per andare a immergere le braccia fino al gomito dentro all’avanguardia più pensata.
Il risultato finale di tutti questi anni di evoluzione del genere? Al di là degli act principali, siamo passati da una marea di gruppi che emulano Siouxsie a una marea di gruppi che emulano i Fall. Questa cosa non ci piace, sembra scontato, ma in questo articolo voglio approfondire il problema.
Intendiamoci: non tutti questi dischi sono merda, ci sono alcune robe che non ci dispiacciono e altre sono state addirittura innalzate nelle top dei nostri anni di attività. Però stiamo andando avanti con questo tipo di musica da quasi un decennio oramai e non ne possiamo più di ritrovarci l’ennesimo gruppo britpunk come fenomeno da baraccone per svuotare portafogli e riempire stomaci poco schizzinosi. Ok, c’è Bright Green Field, un disco che riesce a spogliarsi di quella biscottosità tipo Gang of Four e che esplora località più oscillanti, per certi versi a patta con i Minutemen – ma nello stesso anno escono gli Shame, i Nun Gun, Billy Nomates, tre act che riescono a essere tragicamente mediocri ognuno nel suo fantastico sottogenere. Per ogni 100% Yes – in cui il parlato/urlato è immerso nella solita caotica poetica dei Melt Yourself Down – c’è un susseguente Pray for Me I Don’t Fit In – una versione sciacquata e spogliata di ogni dinamismo, quasi un ritorno ai peggiori Arctic Monkeys. I black midi con Cavalcade danno segno di volersi emancipare da questo mercato lineare e blando con un album molto più zolo e particolare? Gli IDLES dall’altro lato si adegueranno alle vendite e cacceranno un disco ben al di sotto delle aspettative, parlo di Ultra Mono. C’è in atto un evidente mulinello, un moto centripeto che porta tutte le stelle del britpunk a rimanere ancorate a certi tipi di compromessi e di bigiotterie sonore. Il nome del moto non è troppo diverso dal solito, è un miniboss del capitalismo e riusciamo senza troppi problemi a intravederne nomi e cognomi.
Qual è la differenza principale tra le uscite al microonde del britpunk e le grandi gesta dei gruppi post-punk che sono passati alla storia della musica sperimentale mondiale?
Il britpunk è molto, molto, molto sotto contratto. Un pugno di etichette si contendono la maggior parte delle band più famose dell’inghilterra: la Domino ne ha tanti (Sorry, Fat White Family, Wet Leg, Franz Ferdinand), il gruppo Beggars la fa sostanzialmente da padrone nella scena con Dry Cleaning, Algiers, Savages, Girl Band, Sleaford Mods, Black Midi, King Krule, Goat Girl e molti altri, la Partisan degli Eagulls si smazza anche i Fontaines D.C. e gli Idles, e non approfondisco altre etichette che hanno scelto di specializzarsi nella distribuzione del genere come il Secretly Group e Fatcat. E quando fioccano i soldi fioccano recensioni, quando fioccano recensioni il pubblico si inebetisce ed ecco a voi in che modo si costruisce un’onda lunga di poco conto travestendola da scena musicale epocale. Direte voi: è sempre stato così, funziona così – guarda il punk rock, guarda il britpop, guarda il grunge, e così via. Vero. Ci sono però alcune differenze, di cui la più fondamentale, allarmante e irogena è il fatto che nessuno di questi generi, che nel bene o nel male sono pilastri della storia della musica popolare, sia mai stato ufficialmente foriero di una retromania che ha riscritto la storia e ha tolto spessore a un altro genere che è stato probabilmente uno dei capisaldi più forti delle avanguardie di tutti i tempi. Il post-punk originario aveva una germinazione proteiforme, un fortissimo livello di coinvolgimento intellettuale, quasi zero spazio per un grande pubblico che spesso era occupato in altre realtà.
Cosa fa il mercato a un mf.
Giusto: cosa fa il mercato a un mf?
Il mercato livella, appiattisce, gioca al gioco del ribasso, si intorpidisce nei suoi trend e blocca le rotative della creatività.
Innanzitutto il britpunk stesso diventa un genere autoreferenziale legato solamente a come esso stesso dovrebbe suonare. È palese nelle reclusioni di creatività che si possono vedere pari pari con l’addormentamento degli IDLES nella scena, con il progressivo imborghesimento degli Sleaford Mods e in generale con tutte quelle uscite pettinatissime che salgono alla ribalta solo grazie a un legame con il britpunk come le Wet Leg di quest’anno o la folksinger irlandese Sinead O’ Brien, sempre prodotta da Carey. E non mi metto a citare tutti quei gruppi che potevano trovare un’evoluzione interessante ma che sono stati condannati alla mediocrità per compiacere tutto il pubblico che li segue (Penso soprattutto ai Fontaines D.C. stessi, ma anche i DITZ e i Working Men’s Club sono dei buoni esempi).
In secondo luogo, più in generale: la musica elettrica, il rock britannico tutto e le uscite elettroniche meno ispirate vengono inglobate all’interno della scena. Per dire, ad oggi sembra che qualsiasi disco suonato con le chitarre che provenga dalla sfera britannica debba circoncidere la propria musica con una lametta di post-punk da salumieri: i LICE potevano sputare noise e avant-prog senza compromessi ma si sono trovati catalogati nello stesso campionato dei black midi, perdendo spessore; i Black Country, New Road potrebbero tranquillamente essere una college band sperimentale senza fronzoli ma Cambridge è in Inghilterra e quindi ci si imbriglia in una struttura britpunkish con lineamenti più puliti e abbottonati; le uscite di Snapped Ankles passano da una versione synth-punk di se stessi radicata nei Suicide alla fanfara revivalista, ottantona di Forest of Your Problems, che si avvicina più agli ultimi Melt Yourself Down.
E in tutto questo nessuno si accorge che la “Crank Wave”, il periodo più brillantato e recente del britpunk, quello su cui ha messo le mani Carey, non è davvero una wave – con buona pace di NME: quantomeno, non è un’onda culturale organizzata da gruppi con un simile indirizzo, con un simile sentimento. Non è un movimento che viene storicizzato ex post e che racconta i disagi della Brexit incasellandosi in un mix di chitarre appuntite e spoken word. È tutto partito in studio ed è tutto proseguito – immediatamente – nelle tavole rotonde delle etichette che scelgono i trend nel Regno Unito, non c’è un sentire comune, c’è una produzione musicale indirizzata a una specifica nicchia di consumatori. All’effettiva consumazione su disco, togliendo il cantato parlato nasale delle nuove star dell’ondata e prendendo atto che certi hook non sono altro che pezzetti di brano messi appositamente per far sorridere chi pensa di saperne un botto di musica, questa produzione si rivela per quello che è: sempre la stessa roba. Sempre la stessa roba che passava da almeno il 2014, quando fuori dall’Inghilterra spopolavano gli Iceage e gli Ought: una musica funzionale a captare le sensibilità di un pubblico troppo giovane per ricordarsi del post-punk serio e contemporaneamente di quel pubblico che non ha mai conosciuto il post-punk serio, si è fatto friggere nei noughties dagli Interpol, e adesso rimane nella sua comfort zone con qualcosa che sembra non troppo nuovo. Ma basta ascoltare decentemente per comprendere che dietro al velo della Crank Wave si nasconde sempre quel Britpunk di cui vi stiamo parlando dall’inizio dell’articolo: il baraccone di dischi spinti da quelle etichette che ci hanno provato con gli Eagulls, poi con gli Algiers, poi con gli Idles, poi con i Fontaines D.C., oggi con gli Yard Act e le Wet Leg e così via.
Siamo nel 2022 e siamo costretti a farci passare in cuffia sempre-la-stessa-roba. Non basta parlottare invece di cantare per fare i Fall. Non basta effettare le chitarre come i Wire per fare i Wire. Riascoltatevi Live at the Witch Trials, riascoltatevi Pink Flag e vi ricorderete perché.
Vi ricordate perché?
Chiedo, perché la seconda, grave conseguenza di un’operazione del genere, al di là dell’appiattimento dell’offerta del rock britannico, è il rammollimento totale del senso critico di chi si butta di faccia su tutta questa roba. E il pubblico, rincretinito dal battage mediatico che fa diventare questi dischi e queste band l’unica cosa possibile che ti possa piacere in questo periodo, beve tutto senza farsi troppe domande; tanto l’importante è, come al solito, darsi una colonna sonora coerente con l’epoca che viviamo – in fondo sono in classifica, passano in radio, ne parlano tutti. È un fenomeno normale: c’è qualcosa di vagamente nuovo, ci si affeziona alla formula, si cercano conferme nei dischi successivi. Ma quanto ancora deve durare questa boiata? Se lo chiede Mick McStarkey in un bel pezzo per Far Out e se l’è chiesto anche TheQuietus nel suo rant sullo Sprechgesang: stiamo ascoltando britpunk da quasi dieci anni oramai, con più o meno consapevolezza – e tutto quello che esce dal regno unito e non è britpunk ne conserva comunque una fastidiosa eco. A che prezzo dobbiamo sucarci questo eterno ritorno in delle caricature revivaliste di scene che il loro impatto lo hanno sudato in tutt’altro modo?
Perché la cosa più oscena di tutte che avviene con questa corrente, come ho anticipato prima, non è tanto l’autofagia della musica inglese o il terreno guadagnato dalla noia di vivere grazie ad ogni nuova uscita inglesona. La cosa peggiore è che si perde traccia di cosa sia il post-punk.
Perché è così grave?
Non c’è bisogno di rispolverare Rip It Up and Start Again per capire l’entità e la differenziazione dell’ombrello che tra gli anni ’70 e ’80 è stato ribattezzato come post-punk: basta fare un elenco di nomi per capire cosa non sia il post-punk: Pop Group. DNA. Pere Ubu. Devo. Tuxedomoon. The Ex. The Feelies. Joy Division. The Fall. Rip Rig + Panic. This Heat. Wire. Young Marble Giants. Half Japanese. E sono solo i primi che mi sono venuti in mente.
Il miasma di esperimenti, concetti, situazionismi, rabbia, creatività dei protagonisti del post-punk è così incontrollabile che l’unica cosa semplice da raccontare del genere è come non ci sia stato un filo conduttore unico da seguire: il post-punk non fu uno stile, bensì un Geist. Uno spirito molto distante dalla sua versione coccolosa Cure/Smiths che l’ha poi fatto diventare una regola per descrivere il genere nel mainstream del XXI secolo, uno spirito che a quanto pare viene tirato su a sproposito ogni volta che una corrente si affilia a un gruppo specifico del genere. Ma il problema è che la grandezza storica del post-punk non sta nell’aver cacciato solamente i Pop Group e aver vomitato a seguire una marea di uscite punk-funk-dub-free-cazz. Non è stato far germinare un’ondata di musica dark in seguito alla morte di Ian Curtis, così come non è stata quella pregressa rave culture che è nata in quello che viene affettuosamente chiamato Madchester. Il post-punk è stato queste tre cose insieme e altre decine e decine di cose con esse, che non sto a citare per amor di brevità ma che potete incontrare guardando la storia delle band nello specifico e la storia della musica nel generico.
Nessuno qui crede al reato di lesa maestà quando si parla di arte, quindi non siamo mica offesi per il fatto che il britpunk non calcoli la maggior parte delle frange del genere di cui si fa esplicitamente revival. Il problema è che quel moto centripeto-commerciale che mette in embargo tutti i gruppi di questa scena contemporanea dentro a degli specifici stilemi fa perdere una gigantesca mole di possibili evoluzioni musicali. E queste sono evoluzioni che un revival post-punk fatto bene potrebbe far emergere, facendo uso di quella tipica creatività incontrollata che solo i gruppi meno blasonati possono imbrigliare in canzoni e dischi senza scendere a compromessi. Oggi parlare di post-punk inglese vuol dire parlare di britpunk. E tutto quel troncone di possibili influenze che verrebbero da gruppi che hanno fatto la storia del genere adesso viaggia sotto traccia, è coperto dal rumore che la nuova piccola frazione di post-punk porta avanti. È successo ai tempi degli Interpol, sta succedendo di nuovo. I black midi probabilmente avrebbero avuto molto di più da imparare dai Pere Ubu e dai This Heat che non dai Fall e dai Talking Heads. I Black Country, New Road avrebbero preso una piega troppo più affascinante se il loro recente ammorbidirsi avesse studiato alla scuola dei Feelies o dei Young Marble Giants. Ogni singolo nuovo gruppo che viene affogato nel britpunk perde l’occasione di inondarsi di dischi rivoluzionari e potentissimi che avrebbero aiutato a risolvere un problema di composizione.
Il post-punk così ritorna un qualcosa di museale, appendice morta da cui andare a recuperare qualche trucchetto se è necessario dare una spinta alle vendite e affascinare gli ascoltatori leggermente più esigenti. Questa è la dimostrazione plastica di quella adorazione delle ceneri di cui parlava lo pseudo-Mahler, anzi, è peggio: diventa spaccio delle ceneri in botteghe che non si fanno troppe domande sulla provenienza della loro merce. Ed è un peccato: esistono tuttora tantissime scene nel pianeta Terra che hanno la stessa spinta e la stessa storia fascinosa che più di quarant’anni fa hanno avuto i vari post-punk dell’emisfero settentrionale. Ma quella ruvida connivenza di natura, cultura e arte che fu il genere oggi è parcellizzata più che altro nelle singole individualità e nei gruppi che si muovono con quella passione. Il post-punk ha più casa lì che nelle Londre che si appropriano del termine per accattivare il mercato vestendo tutti i gruppi della zona d’influenza con queste bretelle.
Per quanto ci riguarda: il filone minerario è estinto da ben prima che Carey mettesse mano ai dischi nel 2019, il britpunk sarà chiaramente un’altra nota a margine della storia evolutiva della musica contemporanea e non vediamo l’ora che Beggars decida che il prossimo bastimento di dischi sia una hauntology di qualcos’altro. Magari, se il mainstream togliesse le mani da questa roba, nel tempo e con calma il post-punk storico potrebbe davvero adempiere alla sua funzione esemplare, stavolta tout court e senza scorciatoie.
Per quanto riguarda i gruppi che sono in scia nel britpunk: basta. È da tempo che non siamo più interessati all’argomento. Altrove ci sono lidi molto più ameni e noi, impenitenti, andiamo sempre a spiaggarci lì: ultimamente, nello specifico, ci trovate tra il grime ugandese e il RIO giavanese. Ma ogni giorno ci spostiamo un po’.
Altrimenti che cazzo viviamo a fare?