AEVITERNE – THE AILING FACADE
In cima a una delle schede più celebri di Mark Prindle, quella dedicata agli Slint, troneggia una line riassuntiva dell’opera del quartetto del Kentucky che, nel suo mix di sfrontatezza senza fronzoli ed entusiasmo giovanile, è sempre stata una delle mie preferite della critica musicale indie.
Start godawful, suddenly become the greatest band ever, break up immediately.
Con un’eguale dose di sfrontatezza ed entusiasmo, potremmo descrivere la parabola musicale dei Flourishing con le stesse esatte parole. Ovviamente sarebbe un’esagerazione in entrambi i sensi: i Flourishing non sono mai stati tremendi, pure nei loro inizi un po’ più acerbi, né sono mai stati vicini a essere la migliore band di sempre – ma c’è da dire che questo medesimo discorso si potrebbe fare verbatim pure per gli Slint. In entrambi i casi, tuttavia, in questo slogan vi sarebbe più di qualche germe di verità. Il primo EP dei Flourishing, A Momentary Sense of the Immediate World (2010), dava l’impressione di essere semplicemente un prodotto tra i tanti del ribollente panorama estremo East Coast degli anni Duemila, legato a doppio filo con la gloriosa tradizione death/grind più brutale e pirotecnico della zona di New York e del New Jersey (dai Suffocation, agli Human Remains, fino ai coevi Humanity Falls). Il loro unico album The Sum of All Fossils (2011) e infine l’ultimo EP Intersubjectivity (2012) sembravano invece il parto di un gruppo completamente diverso. Il suono di quei brani era catastrofico come quello dei Neurosis, sghembo come quello dei Gorguts, struggente come quello dei Death; eppure si mostrava consapevole anche di un altro lato di New York – quello di Glenn Branca, dei Sonic Youth, degli Swans. Un’interpretazione dell’idioma death metal davvero senza precedenti.
Ufficialmente, i Flourishing si sono sciolti nel 2014, nella quasi indifferenza generale di critica e appassionati – pur lavorando in un periodo in cui suonare death metal strano ti rendeva giusto di default, dopo che il mondo era definitivamente salito sul carro dei vincitori del metal estremo con i vari Deathspell Omega e Ulcerate. E forse proprio questa asimmetria tra la loro proposta così intensa, innovativa e originale, e il così misero seguito che sono riusciti a conquistarsi durante il loro breve periodo di attività, ha contribuito a cementare un legame particolare tra i Flourishing e i pochissimi che li hanno vissuti e apprezzati in diretta. Un legame insolitamente solido e intimo per un gruppo che, di fatto, rimane una nota a pie’ di pagina della storia di un genere che di note a pie’ di pagina ha pieni i margini. Probabilmente, si potrebbe addirittura partizionare il pubblico death metal tra chi – la quasi totalità, a onor del vero – non ha mai sentito nominare i Flourishing e chi invece considera il loro unico album The Sum of All Fossils uno dei momenti più alti del death metal moderno. Noi siamo tra i secondi, notoriamente.
Per questo, gli Aeviterne sono stati sempre degli osservati speciali – fin da quando, tra il 2015 e il 2016, erano soltanto un semplice rumor che serpeggiava nell’etere, una fievole voce di corridoio riguardante un non meglio identificato nuovo progetto in trio di Garrett Bussanick ed Eric Rizk – che dei Flourishing erano il cantante/chitarrista e il bassista rispettivamente – con il batterista Ian Jacyszyn, ex-Castevet.
La loro missione si è delineata sempre più nitidamente con il passare degli anni. Nel 2018, un EP di una decina di minuti (Sireless) aveva confermato il loro dichiarato intento di voler proseguire nell’esplorazione di alcune delle idee più visionarie dei Flourishing. Poi, la formazione si era consolidata con l’arrivo di un secondo chitarrista (Samuel Smith, più noto alle cronache come membro degli Artificial Brain e che aveva già collaborato con Jacyszyn nei fugaci Gath Šmânê) in supporto per le performance live; quindi, è arrivata la firma per Profound Lore, che a gennaio annunciava con orgoglio l’imminente pubblicazione del primo full-length degli Aeviterne. The Ailing Facade, infine, ha visto la luce questo marzo, a dieci anni precisi dalla fine dell’avventura dei Flourishing.
Nonostante tutto, il tempo non sembra aver intaccato particolarmente le idee di Bussanick. Certamente, c’entra il fatto che questo album fosse quasi completamente pronto già prima della pandemia: in un’intervista concessa a Invisible Oranges, Bussanick ha affermato che un primo mix fosse stato ultimato addirittura prima della pubblicazione di Sireless, e che l’ultima manciata di anni sia stata dedicata quasi esclusivamente a cercare un suono che convincesse definitivamente il gruppo. (Alla fine, è stato lo stesso Jacyszyn a trovare la quadra, mettendo al servizio degli Aeviterne le sue esperienze come ingegnere del suono, come già aveva fatto su Sireless.) Ma soprattutto, c’entra il fatto che The Ailing Facade prosegue con caparbietà su un sentiero – quello tracciato tempo fa da The Sum of All Fossils e Intersubjectivity – che non è mai stato davvero esplorato da nessun altro gruppo death metal del nuovo millennio, fatta eccezione forse per gli Emptiness di Nothing but the Whole.
Perché chiariamoci: il missaggio asfissiante (che tradisce la mano esterna del solito Colin Marston, ormai nume tutelare di tutto il metal avant d’oltreoceano) potrà pure portare a derubricare superficialmente la fonte d’ispirazione degli Aeviterne nei maelstrom lovecraftiani di Portal e Abyssal, e gli squarci più atmosferici potranno pure suggerire facili paragoni con gli Isis e i momenti più esposti verso il post-metal degli Ulcerate. E, complice l’ingegnerizzazione di Marston, il suono e lo stile della batteria di Jacyszyn contribuiscono a tracciare un filo di continuità con la musica dei moderni campioni del death metal tecnico e brutale – ben più di quanto non facesse il ben più bizzarro e sui generis Brian Corcoran nei Flourishing. Tuttavia, pur non potendo prescindere da diverse di queste esperienze precedenti, l’universo sonoro cui The Ailing Facade attinge è ben più vasto e peculiare, un universo instabile in cui la matrice death metal di partenza viene dissestata in continuazione da storture che non possono essere ricondotte soltanto alla scuola inaugurata dai Gorguts con Obscura.
La musica degli Aeviterne, così arcigna e rovinosa, deve infatti tanto concettualmente quanto tecnicamente al post-hardcore, al noise rock, e all’industrial in ogni sua manifestazione. Le parti di chitarra di Bussanick e Smith disegnano riff intricati e vorticosi degni di Robert Vigna (Immolation), per poi sfilarsi improvvisamente dal materiale tematico descritto e dialogare in contrappunti dissonanti sfruttando armonici e feedback alla maniera di Justin Broadrick. In questi momenti, il basso di Rizk si riappropria quindi delle frequenze più gravi, mostrando uno stile non troppo distante da quello di G.C. Green su album come Streetcleaner e soprattutto Pure nel battere sul quarto con linee minimali e ossessive: è quello che accade, per esempio, sulla strofa di The Gaunt Sky. Altre volte, The Ailing Facade sfodera un lato lirico alieno, espresso tramite la dissonanza tra il tetro panorama post-sludge eretto dalla base ritmica e dai rumori in secondo piano, e le esaltanti melodie delle parti di chitarra dal sapore indie/post-hardcore (nei riff di Penitent non si fatica a scorgere la dichiarata influenza degli Hüsker Dü). Sono attimi di sollievo nel caos generale, sporadici momenti in cui gli Aeviterne sembrano voler concedere una tregua fugace al senso di tragedia che opprime tutto il disco, e per questo suonano insieme necessari e ancora più dolorosi.
In più vi è, ovviamente, l’apporto sostanziale dell’elettronica di Bussanick e Jacyszyn, che serpeggia sinistra tra il marasma di distorsioni e percosse sulle pelli per poi sopraffare la performance del quartetto. È un utilizzo che ha molto a che vedere con il mondo powerviolence, dove l’elettronica di derivazione industriale e noise non solo fa da sottofondo, ma imprime un’impronta profonda sulla struttura stessa dei brani, plasmandoli e dettandone la direzione: vengono in mente i Full of Hell, ma anche esempi più lontani nel tempo come i Fear Factory di Soul of a New Machine e Demanufacture. Un modus operandi che caratterizza tutti i brani di The Ailing Facade, ma che viene scandagliato fino alle sue più peculiari possibilità specialmente in Stilled the Hollows’ Sway e in The Reeking Suns, non a caso tra i momenti più alti di tutto l’album. In questi pezzi, al desolante soundscape elettronico vengono concessi interi minuti da protagonista, mentre sullo sfondo la batteria marziale di Jacyszyn e il growl di Bussanick esaltano l’umore apocalittico del disco.
Ogni brano di The Ailing Facade, pur da prospettive e con mezzi diversi, converge sempre verso la stessa poetica esistenzialista e disperata: la musica degli Aeviterne abita gli stessi paesaggi brulli, decadenti, eppure maestosi dei primi Godflesh e degli Swans più nichilisti. Sul devastante finale The Ailing Facade/Dream in Lies, l’album si apre pure alla magniloquenza delle sinfonie per chitarra atonale di Glenn Branca, ma tutto è visto sotto una lente pessimista e misantropa – è un cielo plumbeo che sovrasta le rovine della civiltà umana, piuttosto che una cattedrale di rumore innalzata al sublime. A giudicare dalle dichiarazioni di Bussanick, è un aspetto che si può riscontrare anche nei testi, seppur in questo caso noi possiamo solo limitarci a un atto di fede. Per quanto la sua voce sia infatti una delle più belle che il death metal del nuovo millennio possa vantare, ascrivendosi alla gloriosa tradizione schuldineriana di growl intensi ma a loro modo ben scanditi (tradizione che è poi stata quella di Martin van Drunen degli Asphyx e di Paul Miller degli Human Remains, che sono forse i ruggiti più affini a quello di Bussanick), visti i volumi della musica degli Aeviterne è difficile discernere bene le parole che pronuncia. Perciò, possiamo solo fidarci di lui quando sostiene che
Lyrics directly ponder ideas of futility, extinction, madness—concepts that exemplify, for instance, that utopia is likely impossible, as a positive can’t exist without its corresponding negative, or that the further we remove ourselves from nature, the more we create problems societally, culturally, etc.
Anche se, visto come suonano gli Aeviterne, non viene difficile credergli.