KAATAYRA – INPARIQUIPÊ
Kaatayra è uno dei numerosi alias di Caio Lemos, giovane brasiliano che da qualche anno si sta distinguendo per l’assidua partecipazione alla scena metal underground brasiliana. In realtà, quest’ultima frase è più che un eufemismo: Lemos si ascrive a quella nicchia di artisti, per qualche motivo non meglio precisato sovrarappresentata nell’ambito black metal cui egli appartiene, che hanno all’attivo decine e decine di progetti (spesso, one-man band) che producono due-tre dischi l’anno, quasi sempre non esattamente imperdibili. Tra Kaatayra (quattro album tra 2019 e 2020), Bríi (due tra 2020 e 2021), Vauruvã (che hanno esordito quest’anno, e unico progetto tra quelli menzionati che veda la partecipazione di terzi), è impossibile non nutrire una sana dose di pregiudizi a fronte di una tale mole di registrazioni, specie se poi la si ascolta pure.
Non che siano mai mancati spunti intriganti nei capitoli precedenti. Lavori come Entre tudo que é visto e oculto, Só quem viu o relâmpago à sua direita sabe o Toda história pela frente hanno sempre manifestato una certa cura per l’estetica musicale di Lemos, a partire dagli artwork e passando per la proposta musicale che cannibalizza, su un tessuto principalmente di derivazione black metal, suggestioni della psichedelia in senso lato, della musica ambientale, finanche della musica brasiliana locale o della musica elettronica, spesso anche con una visione ben chiara di fondo. Per esempio, nell’ultimo album a nome Bríi, Sem propósito, la componente trance e techno dovrebbe rappresentare il mondo urbano che emerge in maniera quasi incoerente dal tessuto black metal, che sarebbe di contro il correlativo oggettivo della natura. Tuttavia, nonostante un’evidente crescita di consapevolezza tra i lavori usciti nel 2019 e quelli via via più recenti, a Lemos è sempre mancata la maturità di scrittura, la capacità di dare un carattere peculiare alle sezioni metal (essenzialmente interscambiabili l’una con l’altra, e ciascuna di fatto indistinguibile da un qualsiasi emule di Wolves in the Throne Room e Alda), e in generale la combinazione di suoni e umori è sempre parsa più dichiarata che non compiuta con maturità ed efficacia – complice anche, soprattutto agli inizi, una qualità di missaggio e registrazione degni di uno studio collocato direttamente in fondo al Rio delle Amazzoni, che ha spesso e volentieri impedito di apprezzare tutti i vari strati sonori della sua proposta musicale. Il tutto con buona pace dei vari critici e ascoltatori che hanno espresso parole entusiaste sul, pur curioso, lavoro di Lemos finora dato alle stampe.
Quest’anno il progetto Kaatayra ha dato un seguito ai due album del 2020 con Inpariquipê, pubblicato verso la fine di novembre come al solito in maniera squisitamente indipendente e che, sorprendentemente se non inspiegabilmente, è un piccolo miracolo all’interno del panorama metal. Espandendo un’idea che Kaatayra aveva già esplorato – la compenetrazione di materiale acustico e tessuto musicale estremo –, Inpariquipê compie una scelta radicale bandendo definitivamente amplificatori e distorsioni: a parte qualche suono di quella che sembrerebbe essere una tastiera, la strumentazione di Inpariquipê è totalmente acustica, il che risolve in maniera originale il problema dell’inintelligibilità di alcuni momenti dei lavori precedenti e, incidentalmente, conferisce alla musica di Lemos un taglio e un colore completamente inedito (e non solo rispetto al resto della sua discografia).
Non è la prima volta che il progetto Kaatayra decide di trasporre il materiale metal interamente su strumentazione non amplificata – Só quem viu o relâmpago à sua direita sabe del 2020 aveva già tentato questa strada –, ma dove tutti gli esperimenti precedenti si riducevano semplicemente a suonare black metal con strumentazione acustica per dargli un taglio esotico, Inpariquipê mette in discussione la stessa componente estrema del sound del progetto. Non che questa scompaia del tutto: Lemos si diverte ancora molto a sfruttare diversi dei topòi del black metal più atmosferico, specie della zona della Cascadia (riffing serrato in tremolo picking, blast beat, voce in scream, strutture dilatate, squarci atmosferici). Tuttavia, questa volta l’utilizzo di un impianto sonoro così meno tagliente e voluminoso lo porta a ripensare il suo processo di scrittura, ampliando lo spazio concesso alle sezioni più apertamente influenzate dalla musica locale e, in particolare, da quella che più risente della percussività ritmica africana (quest’ultima, secondo Lemos, riletta anche attraverso la lente del minimalismo di Steve Reich – riferimento che però emerge nitidamente solo nel riconoscibilissimo utilizzo delle marimba sulla conclusiva Iasá). Così facendo, Kaatayra conia un nuovo linguaggio in cui l’ispirazione black metal, pur rimanendo riconoscibile in più o meno minoritari dettagli strutturali e tecnici, viene completamente trasfigurata da un impianto timbrico e strutturale completamente innovativo – un linguaggio che, una volta tanto, legittima effettivamente la locuzione folk metal.
Ãráiãsaiê, per esempio, utilizza liberamente gli intrecci ritmici e i tessuti armonici della musica brasiliana, ma i pattern di batteria, con il suono secco del rullante, richiamano quelli di certo metal più atmosferico se non gotico degli anni Novanta. Quella che sembra solo una vaga impressione viene poi confermata quando, poco prima dei 3 minuti, il pezzo si apre su uno scorcio black metal, con la batteria tipica del genere sormontata dalle tastiere e dallo stillicidio delle chitarre acustiche, e ancor di più quando l’incantevole tema dal sapore vagamente orientale della tastiera cede il passo, quasi inavvertitamente, alla successiva Dundararaiê, che si apre ex abrupto con blast beat e lo scream più disperato che si possa udire in tutto il disco. Nei dieci minuti e rotti della title track, a questo impasto inclassificabile di folk/black metal acustico si aggiungono via via theremin, marimbe, flauti e occasionali campionamenti di canti di uccelli, in un’improbabile eppure pittoresca interpretazione brasiliana degli In the Woods di HEart of the Ages.
Quel che rende Inpariquipê una delle uscite più imperdibili dell’anno in ambito metal (in senso lato) non è però soltanto il crossover stilistico ardito, o la complessità strutturale, o ancora l’originale e riuscito connubio di stili, timbri e culture differenti. Come dichiarato dallo stesso Lemos, Inpariquipê è stato realizzato durante il lockdown in un momento particolarmente difficile per la sua salute mentale, provata già da varie difficoltà personali e sfiancata ulteriormente dalla tragica situazione sociopolitica del Brasile dovuta alla presidenza Bolsonaro ed esacerbata dalla sua pessima gestione dell’emergenza pandemica (in questa intervista Lemos va ancora oltre, suggerendo le ripercussioni della pandemia sulla gestione del potere economico nel paese in un sistema capitalista, e quindi le ripercussioni di quest’ultimo aspetto sulla sua salute mentale). A fronte di tali avversità, Lemos ha trovato una cura spirituale nell’immersione e nella profonda connessione con la natura (non a caso, il moniker kaatayra è una parola in una lingua inventata che vuole significare circa figli* dei boschi): Inpariquipê rappresenta proprio una gloriosa celebrazione di quel mondo selvatico, ma luminoso e raggiante, che ha offerto un rifugio alla sua psiche nel momento del bisogno.
Per questo, Inpariquipê possiede una rara sensibilità impressionista, che sembra descrivere senza sforzo – quasi accidentalmente – un fumoso acquerello dei paesaggi naturali del Brasile. Per spiegarne appieno la potenza evocativa, probabilmente, nulla è più esaustivo di Tiquindê, furbescamente posta in apertura. L’ostinato intreccio tra chitarre acustiche e varie percussioni che giungono all’orecchio (alternativamente) come marimbe, pandeiro e chocalho suggerisce l’ondeggiare delle fronde degli alberi sotto la pioggia scrosciante dell’Amazzonia; le tastiere che fanno capolino qua e là suonano come versi di animali lontani; le voci non distorte, quasi celate dal denso tessuto strumentale, vengono recepite come se si origliassero rituali ancestrali compiuti all’ombra dei cespugli. Quella di Inpariquipê è una musica rigogliosa, che scaturisce dalle profondità della terra e canta di foreste pluviali: è in questa poetica suggestiva che risiede il più importante punto di forza di uno degli album più particolari che la scena metal abbia partorito negli ultimi anni.