CONTAINER BELLO

IL DISCO PIÙ GROSSO DEL 2018

NIÑO DE ELCHE – ANTOLOGÍA DEL CANTE FLAMENCO HETERODOXO

Sony

2018

Flamenco

Siamo nella perenne e disperata ricerca, navigando in un mare di musica, di quello per cui riteniamo che valga la pena di ricordare i nostri anni: non chiediamo e non ci aspettiamo mai nulla, ma ci proviamo in continuazione. Il più delle volte rimediamo solo buchi nell’acqua, o la percezione di essere distanti dalla contemporaneità e insensibili ai suoi manifesti; raramente, invece, incappiamo in quei dischi grandiosi che ci convincono che il tempo speso a cercarli e ad aspettarli non è stato vano. Oggi vi parliamo di cosa succede quando troviamo nella neve una pepita d’oro grossa come un uovo d’anatra.

Classe 1985, Niño de Elche (pseudonimo di Francisco Contreras Molina) va annoverato come uno dei massimi innovatori e interpreti della tradizione del flamenco e del nuovo cante jondo. Di formazione classicissima, grazie anche al padre che ha sostenuto il suo interesse per la musica flamenco coltivando per lui sogni di gloria (schiantatisi inesorabilmente contro un’attitudine iconoclasta che aveva portato un Molina appena diciottenne a presentarsi a un concorso con un testo scritto da un rapper), Elche ha costruito una carriera che, senza mai rinnegare la sua provenienza dalla tradizione andalusa, è riuscita sempre nel tentativo di recuperarne i caratteri essenziali per aggiornarli con le tecnologie e le estetiche dello scenario musicale contemporaneo.

Esordisce su disco nel 2007, con Mis Primeros Llantos, un buon album di Cante Flamenco tradizionale che si impegna in placide interpretazioni di alcuni palos dell’ordinamento classico di un cantaor. La prova discografica sarà destinata a rimanere sotto polvere per sette anni, coerentemente con la più alta ambizione di Molina di recuperare un discorso molto più tagliente su una scuola composita come quella del Flamenco. Nel 2014, infatti, Niño de Elche trova il suo spazio in maniera definitivamente più compita con un disco di recitazioni struggenti in cante flamenco intervallate da frammenti di poesia spoken provenienti dagli scritti di Miguel Hernandéz, uno dei poeti – vittime – operanti sotto il regime franchista; il successo di questa prova, profondamente reverente verso la storia della lirica spagnola viene bissato con l’album del tutto speculare uscito l’anno dopo, una ben più moderna raccolta di brani più progressivi, in territorio spesso identificato con i paesaggi del krautrock e dell’art rock, che porta il titolo di Voces del Extremo.

La proposta innovativa di questi album, che offrono una visione obliqua (eppure sempre profondamente acuta) della tradizione flamenco, viene accolta calorosamente da mezza stampa spagnola: da El Mundo a El País, fino a media più specializzati come El Independiente, l’operazione di Elche sembra riscuotere un successo sia di critica che di pubblico – sorprendentemente, vista la non eccessiva accessibilità del suo operato.

Oggi, con un lavoro di fino (Molina aveva registrato 99 brani, la pubblicazione ne conta solo 27), il progetto di Niño de Elche si è trasfigurato in quella che fin dall’inizio sembrava dover essere la dimensione più naturale, ma anche quella più grandiosa e ambiziosa, della sua musica e del suo canto: una Gran magna Antología, Historia, Memoria, Rito y Geografia del Canto Flamenco-Andaluz, Mundo y Forma del Cante Gitano y Archivo y Tesoro del Flamenco Original, Antiguo, Jondo y Heterodoxo. Determinare cosa distingua questo colosso del cante flamenco da una enciclopedia flamenco – da un lato – e da un esperimento di ibridazione stile flamenco nuevo – dall’altro – è una via privilegiata per comprendere l’enorme portata storica e artistica del nuovo disco di Molina.

Come ci si aspetta da una qualsiasi raccolta, anche Antología del cante flamenco heterodoxo è composto da soli brani non originali: per scegliere la scaletta, Niño de Elche recupera ciò che per lui sono le eterodossie dimenticate dalla storia – tutti quei brani che, non essendo stati tramandati dagli archivi e dalle storiografie mainstream del flamenco, presentano anomalie armoniche, ritmiche e concettuali rispetto a ciò che la tradizione ha imparato a chiamare classicamente “flamenco”. A tutti questi brani, Molina attribuisce un titolo che ne esplicita lo stile (saeta, petenera, fandango, rumba…) e, nel caso non si tratti di composizioni anonime e tradizionali, l’autore. La conoscenza della storia e del canone, per quanto esotico, del flamenco traspare fin da questa scelta, seppur sia proprio la sua personale reinterpretazione che manifesta completamente la sua passione e comprensione dell’evoluzione del genere attraverso i secoli.

L’opera genetica di Molina ricalca con stilemi rinnovati e consapevoli tutta la complessa tradizione del cante flamenco, che nasce come urlo di dolore e si evolve come una delle tipologie di cantato più studiate del mondo, evolvendo in un percorso che ha il suo inizio nell’etnomusicologia e la sua fine in una strettissima voluttà accademica che divide con precisione e – appunto – ortodossia tutti i vari palos del cante, del toque, del baile. Laddove un cantaor di flamenco possa dover fare i conti con il dilemma dell’adattamento del proprio timbro e della propria estensione a un Palo seco, a un’Alegría, o a un Tanguillo, Niño de Elche decide di mantenere lo spirito enciclopedico con un ribaltamento necessario per donare ossigeno al suo cante: Molina è un cantaor, ma non ha interesse a tagliare il proprio canto per rientrare pedissequamente in un sottogenere – al contrario – sono la musica e gli sviluppi dei brani che ascoltiamo nell’antologia a ruotare intorno alle sue corde vocali, mutando e trasfigurandosi a seconda di quale sia la riflessione sonora su cui il protagonista vuole accendere l’occhio di bue. Il mistico di quest’operazione non intacca l’autorità della musica flamenco (ogni brano è effettivamente nella forma in cui il Niño lo presenta: la tradizionale genealogia è rispettata) ma permette al cantaor di mostrare senza alcun limite di forma la virtù pura e prorompente del suo cante.

La stessa operazione di sperimentazione con forme altre dal flamenco viene interpretata dallo stesso Elche come un evento in continuità con la storia della musica spagnola, che come gran parte delle musiche regionali ha sempre subito il fascino della letteratura, della danza, delle altre forme di musica popolare e della musica colta, al contempo influenzandole in un arricchimento culturale reciproco. Non è forse così sbagliato ritrovare nell’Antología del cante flamenco heterodoxo un intento condiviso con il Concurso de Cante Jondo organizzato da Manuel de Falla e Federico García Lorca nel 1922: al contempo una celebrazione e uno studio sulle possibilità dell’arte flamenco.

Già solo per questo, Antología del cante flamenco heterodoxo andrebbe ritenuto un momento miliare per la storia della musica flamenco.

Il materiale musicale dell’Antología, però, non si limita a descrivere un momento fondante della storia del cante flamenco: la sola qualità dei brani è così alta e il pensiero sonoro che li circonda così attuale e geniale che il prodotto di Molina finisce per sconfinare dai territori iberici e pesare addirittura sulla storia della musica contemporanea tout court. Non è una rottura della tradizione né un suo aggiornamento, ma una proposta molto più complessa: esplorare in totale libertà le declinazioni più fisiche o impalpabili della voce del suo protagonista che, per fortuna, al momento delle registrazioni, è un eclettico, struggente, immenso cantaor di flamenco. La musica di Niño de Elche vive quindi degli aspri contrasti tra l’anima dello storico filologo e quella dell’interprete d’avanguardia contemporanea. Raramente queste due riescono a coesistere in armonia: ognuna tenta in continuazione di cannibalizzare l’altra, in un assurdo processo che nel suo ciclo raggiunge un equilibrio proprio per via di questa continua tensione.

Che sia una fedele riproposizione del brano originale, o uno stravolgimento dell’accompagnamento strumentale, dell’interpretazione vocale, del tempo o dell’arrangiamento, ogni brano dell’Antología è innanzitutto un banco di prova per il Niño e per la sua drammatica performance vocale. Esemplare per il suo angoscioso cante è il quarto pezzo dell’antologia: El Prefacio a la Malagueña de El Mellizo, una lunga e dannata Prefazio di messa basata sul Vere Dignum. Al testo e al cante straziante del Niño si affianca una partitura scritta da Juan de la Rubia, l’attuale organista della Sagrada Familia. Il brano, grazie anche all’intervento drammatico di de la Rubia trasmuta una malagueña di uno dei più famosi cantaores della storia in una soffocante e severa preghiera che naviga in toni più simili alla tragedia totale ed esistenziale di Desertshore che allo struggimento ai limiti del manieristico di alcuni palos del flamenco. Il sorprendente lavoro di interplay che permette a Juan de la Rubia di definire nella sua luttuosa musicalità i confini della vocalità di Molina rende il componimento il primo momento veramente devastante dell’antologia, e la magnifica chiusura in bordoni è un hook per i successivi angoli più cerebrali del disco. Il discorso del flamenco, comunque, non accetta mai di venir messo in secondo piano e in molte canzoni seguenti mostra le zanne: Martinete y debla de Vicente Escudero, ad esempio, è un coraggiosissimo blend di cante e baile flamenco, durante il quale Niño de Elche decide di riproporre l’esperimento di Escudero con  una venerazione della sua estensione e del suo timbro, manipolandolo con mezzi memori della musica concreta (ma anche della poesia audiovisiva di Val del Omar, che omaggia più avanti con il suo Mensaje diafónico) e aggredendolo con percussioni roboanti e diegetiche, che nel corso del brano demoliscono il ritmo flamenco e assumono il compito di raccontare quando la voce si perde in petali con un più globale lavoro di missaggio.

Quando le parole del Niño non sono occupate a farsi decostruire da un richiamo alla tape music, il cantaor si esibisce in momenti di estrema passione e di grande scuola con un cante de Levante reminescente della vocalità dello stesso Antonio Mairena (da non confondere con l’omonimo Juan, professore partorito dalla fantasia di Antonio Machado, i cui testi vengono scomposti in Coplas Mecánicas). Con dei fandango scritti dal poeta Helios Gómez e musicati da Molina a da suoi collaboratori – appunto, i Fandangos de Helios Gómez – de Elche riesce a raggiungere dei picchi lirici che ai tempi di Mis Primeros Llantos gli erano del tutto sconosciuti: qui tanto la chitarra flamenco quanto la voce si spogliano dell’ansia della misura, del cante a compás e si cimentano in un esperimento quasi-primitivista e liquido, permettendo allo stile percussivo della chitarra di Diego de Morón di dissociarsi dai suoi vincoli ritmici e alla drammaturgia di Molina di emergere, forte del suo canto e del suo impegno con i testi di Gómez. La magia del Fandango eterodosso viene replicata in altri punti del disco che hanno una fattura di eguale pregevolezza, come nel Fandango Cubista de Pepe Marchena e nei Fandangos y canciones del exilio. Anche quando Elche appare interpretare più fedelmente i temi originali dell’antologia vi è l’occasione per spostare l’inquadratura su un elemento che il compositore originale non aveva considerato: sulla Polo de Manuel de Falla (dalle Siete canciones populares españolas del compositore spagnolo), la parte di pianoforte di Alejandro Rojas-Marcos è praticamente coincidente con quella originale, ma Molina approccia il cantato in maniera più prossima a quella del cante jondo – la cui poetica, secondo lui, Falla non era riuscito a riproporre in dei pezzi che avevano in ultimo un’intenzione meramente folkloristica. Perfino un’icona del Flamenco più sboccato come Lola Flores non viene risparmiata dall’opera enciclopedica di Molina: con Rumba y Bomba de Dolores Flores il suo cante poderoso si cimenta in una strana impresa disco-pop al limite del ballo di gruppo uscendo vincitore dal baratro dell’orecchiabile e del ballabile nel contesto di un disco all’insegna del maestoso, del sublime e del misterioso anche grazie a intuizioni fantastiche piuttosto vicine all’elettronica progressiva.

La Rumba Flamenca comunque non è l’unica scuola musicale distante dal flamenco ortodosso con cui Nino de Elche si confronta. Anzi, proprio quando Molina recupera il proprio materiale da fonti aliene alla tradizione musicale andalusa la Gran Magna Antología raggiunge vette di lirismo con pochissimi eguali, proiettando quest’album nell’empireo dei dischi di questo decennio.

Ovviamente, i brani non vengono scelti a caso – anche quando la provenienza va ricercata nella musica colta europea o americana del Novecento, l’Antología del cante flamenco heterodoxo offre comunque una chiave di lettura per cogliere i legami delle varie opere con il flamenco e con la cultura spagnola in generale. Su Pregón, lema y consigna de Nono, Elche mette in luce il profondo filo che intercorre tra il flamenco e la poetica di Luigi Nono, non tanto per il suo interesse alle forme del flamenco (che lo portarono a suggerirne l’approfondimento al compositore contemporaneo spagnolo Mauricio Sotelo) quanto per l’estensivo utilizzo della lingua e degli slogan comunisti della guerra civile spagnola. Il ¡No pasarán! che si può sentire su Intolleranza 1960 è il punto di partenza per un pregón in cui le spettrali voci dei rivoluzionari e la chitarra in toque di Raül Refree vengono sommerse da tape loop e da tempeste di nastri magnetici, omaggiando in tal modo la produzione elettronica del compositore veneziano.

Su Petenera de Shostakóvich (De profundis) e su Canción de cuna de Crumb (El Niño busca su voz), invece, il contatto con la cultura spagnola è dato dal tema della poesia di Federico García Lorca – e, di conseguenza, dal suo impegno nella valorizzazione dell’arte flamenco negli anni Venti. La prima, basata sul De profundis – il primo movimento della Sinfonia No. 14 di Dmitri Shostakovich -, sommerge la già funerea aria della composizione originale in una coltre ambientale di dissonanze e distorsioni, vagamente imparentate con la musica industriale primigenia, nuovamente ad opera di Raül Refree, mentre il soprano viene sostituito da una sofferta nenia nei registri più bassi che si disperde quindi tra le texture scheletriche di tastiere. L’altra, ispirata da Ancient Voices of Children di George Crumb (nonostante il titolo ripreso dal primo movimento, a essere ripreso è in realtà il terzo ¿De dónde vienes, amor, mi niño?) è invece vagamente più fedele all’originale. Viene mantenuto l’impianto dialogico del brano (a Niño de Elche la parte che originariamente era del soprano, mentre la voce bianca viene sostituita dalla voce ferma, per quanto chiaramente infantile, di Teo Fernández Girona), così come il passo portato avanti dalle percussioni e i vari orpelli di piano e di clarinetti esotici che coronano la performance. Ancora una volta, però, è la voce di Molina l’assoluta protagonista: qui si dimostra completamente a suo agio con gli esperimenti e le tecniche oblique pensate per il brano originale, in una performance degna della maniacalità di Cathy Berberian.

Quasi tutti i brani del disco sono a un livello simile – e parlarne in modo estensivo sarebbe una violenza nei confronti di chi legge – ma a tutti i profondi momenti citati si affiancano grandissimi stralci di musica, tutt’altro che minori. Il manifesto spettrale di Soledades de la Pereza, il terrorizzante conflitto tra palo seco e orchestra di Saeta del Mochuelo con la Mariana Seguido de Plazoleta de Sevilla en la Noche del Jueves Santo, la marcia para-noise-rock di Seguiriyas del Silogismo e il cabaret di urla, scat e clapping dei Tanguillos de Cadiz sono tutte – tutte effusioni annientatrici del vulcano che è la testa di Molina e che rende il disco un effettivo “Archivo y Tesoro” del flamenco. Perfino in quella che sembrerebbe un’angelica e dolce chiacchiera finale – Caracoles y malagueñas, granaína y cartagenera de Varcárcel Medina – si nasconde il tarlo dello splendore.

Non siamo davanti a un lavoro semplicemente bello né semplicemente giusto: l’Antología del cante flamenco heterodoxo getta il cuore oltre l’ostacolo. I toni usati finora non nascondono la nostra eccitazione a riguardo: abbiamo avuto il piacere di assistere al dipanarsi della storia della musica, senza mezze parole. Perché Niño de Elche non è solo un grande cantaor di Flamenco – e non è nemmeno solo un grande musicista sperimentale, non è la somma delle due cose e nemmeno la cifra in più oltre la somma: la sua musica è tutt’altro e il suo cante lo dimostra. Si può parlare di trasfigurazione e ibridazione come di un canto flamenco «trafitto da ogni tipo di rumore» (citando Federico Romagnoli e la sua recensione per Ondarock – stavolta piuttosto sul pezzo), e non si andrebbe troppo lontani dalla comprensione della grandezza di questo disco. Le nostre parole al riguardo cercheranno di essere un po’ più chiare, sperando di instillare lo stesso sentimento epocale provato in chi sta scrivendo. Il cante flamenco, misura di questa Antología, non è una particolarità – da un lato, né un obiettivo auditivo – dall’altro; il cante flamenco, in tutta la sua maestria e bellezza, è semplicemente il modo in cui Niño de Elche canta e fa musica, è lo specchio attraverso cui passare per entrare in qualsiasi mondo e paesaggio musicale: l’abbiamo visto con l’art rock di Voces del Extremo, con la free improv di Karate Press, perfino con l’antipatico post-metal degli Exquirla. Molina canta flamenco, ma il fatto stesso che il cante flamenco sia una tradizione così complessa e rilevante rende la normalità musicale del Niño regina e star di ogni suo esperimento più eclettico, portando a un gioco di echi e richiami concettuali di cui è incomprensibile l’origine e la fine. La portata storica di questo progetto è grande, molto grande. Molina, con il suo continuo dialogo tra la lunga tradizione da cantaor e la profonda cultura musicale indica la via a tantissime occorrenze di musica etnica, tradizionale, topica: prendete la vostra normalità e scoprite quali terribili e sublimi deformazioni del mondo e della storia possono interpolarsi, quando la affronterete con gli occhi di un musicista di un’altra tradizione, sostituite la riflessione e il gioco all’ossessione per il tradi-modern, la rinascita e il paragone consapevole all’amore per l’enciclopedia, il rispetto e la metabolizzazione all’ibridazione sciatta e frettolosa – c’è un universo di potenzialità ed è stato necessario un genere così rigido e complesso come il cante flamenco unito a una sensibilità per la musica così sottile e diabolica per comprenderlo. Questo è il grande messaggio per chi ha già l’onere di creare arte. E per chi ascolta?

La profonda e radicale innovazione operata al materiale flamenco originale non deve trarre in inganno, facendo pensare che sia un disco completamente impenetrabile a chiunque sia a digiuno di musica andalusa: proprio per via di tutti gli strumenti e i riferimenti musicali che Molina adopera lungo questi ventisette brani, Antología del cante flamenco heterodoxo si pone come eccellente porta d’ingresso per tutti gli ascoltatori meno avvezzi alle sonorità del flamenco (numerosissimi, vista la poca importanza che in Italia è stata data al genere da quando esiste la critica musicale).  Forse un disco così ambizioso e indecifrabile, conteso tra musica colta, concreta, elettronica e sperimentale di sorta, ma sempre così pervaso dall’emotività e dalle tecniche della musica spagnola, è ciò che serve per addentrarsi nei meandri di una tradizione così ricca.

Ma questa Antología è anche più generosa di quanto già non appaia: oltre a regalare le chiavi per approcciare l’ignoto, fornisce nuove lenti con cui scrutare da una nuova prospettiva ciò che già si conosce e si ama. Non si potrebbe spiegare altrimenti il successo di Deep Song de Tim Buckley (Lorca), niente meno che una reinterpretazione della title track di Lorca di Tim Buckley, dove non solo Elche si cimenta in una prova vocale perfettamente all’altezza dell’originale, ma rivela inediti e impensabili legami tra la poetica di Buckley e il cante jondo: dopo Bessie Smith, Billie Holiday, Frank Sinatra, Leon Thomas e Cathy Berberian, anche Antonio Mairena appare, ora, come un lecito riferimento per inquadrare la sua arte.

È davvero molto, troppo di più rispetto a quanto avremmo mai chiesto da un disco del 2018.
Ma è esattamente quello che cerchiamo.

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Livore Redazione
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