RICHARD DAWSON – END OF THE MIDDLE
Richard Dawson è uno dei nostri cantautori preferiti: Nothing Important, Peasant e The Ruby Cord fanno tutti spezzare il cuore, e sono finiti sempre molto in alto nelle nostre classifiche. Non è passato tanto tempo da quando ho scritto un articolo di amore nei confronti della musica stessa ispirato da The Hermit, e il copione dei dischi che ho citato – il cuore pulsante della discografia del musicista – ha sempre contato su una manciata di ingredienti e su un processo di preparazione maniacale e allo stesso tempo disinvolto. Dawson, da più di dieci anni, è il punto di riferimento dell’avanguardia folk, capace di generare storie venate da un sentimento profondissimo tramite una struttura musicale prorompente, che sorge sulle radici del freak folk americano, della psichedelia più spinta e dell’outsider music in purezza – una commistione che fa della stonatura naturista una parte attiva della propria semantica.
End of the Middle, titolo a mio avviso molto descrittivo, costringe questo spirito a una versione più silenziosa e meno interessante. Le grandi epopee hanno tutte bisogno di capitoli di transizione, e il racconto di Dawson, nella sua grottesca magnitudine, non è esente da queste necessità. Quest’anno quello che ci capita, purtroppo, è un disco come da titolo interlocutorio e niente più che passabile. La motivazione ufficiale della pubblicazione è la ricerca di uno spazio privato e tenue, per esprimere la poetica del cantautore in assoluto, ma basta un’analisi un po’ approfondita per dare un giudizio di direzione opposta.
Il problema principale dell’album è una mancanza di ambizione ben distribuita tra le tracce, che si susseguono con una cadenza ordinata e poco ispirata. Una caratteristica che è possibile trovare in tanti altri dischi folk (a casaccio: Sometimes I Wish We Were an Eagle di Bill Callahan o Benji di Sun Kil Moon), ma che qui si schianta a tutta velocità in un vicolo cieco espressivo a causa del procedere incerto di Dawson e dell’osservazione banale che tutto questo è già stato fatto da lui stesso, e molto meglio.
Il primo campanello d’allarme, in questa prova, suona quando ci si accorge che la verve musicale e l’architettura modernista tipica degli album principali di Dawson sono coscientemente depressi in questo progetto intimista e cauto. Esempi eclatanti di questa scelta di scrittura sono Bolt e Polytunnel, entrambi pezzi in cui ad un intenzionale disegno di ampio respiro viene preferito un lavoro alla battuta prefabbricato e molto trattenuto, messo a terra tramite uno scheletro unplugged che procede a tentoni, di stacco in stacco.
La tattica di esprimersi in crudité è poco efficace per un paio di motivi molto evidenti: innanzitutto, il vociare angoloso di Dawson e il suo contrappunto cordato à la Jandek si prestano molto male ad aleggiare nel vuoto, soprattutto quando mancano a supporto sia gli arrangiamenti sia quel genio melodico vulcanico che siamo abituati a vedere negli album principali. Più importante ancora: le epopee descritte dalle pietre angolari della discografia del cantautore sono già estremamente crude, emotive, e – a modo loro – nude. Il punto di forza di Dawson è sempre stato quello di tranciare a metà il cuore barocco del suo folk d’avanguardia per arrivare in cuffia con la sua voce piana e troppo umana. Eliminare il lavoro in composizione per favorire la semplicità distrugge questa dialettica, e toglie forza al brano. Provate a confrontare lo sconvolgente percorso armonico della title-track di Nothing Important con il singolone Gondola, più orientato sulla falsariga del John Frusciante di Niandra LaDes. L’idea in piene forze contro l’impressione di un’impressione di quella stessa idea.
A completare il quadro statico descritto da queste poche linee di matita c’è un ritmo della registrazione monotono e piatto, che già si percepisce guardando il minutaggio coeso dei vari passaggi (cinque brani di 3-4 minuti, quattro brani di 6-7 minuti). Questo dettaglio, in un’altra raccolta, passerebbe inosservato; qui, unito alla scrittura piatta di cui sopra, amplifica invece l’impressione di sameness, che cresce ogni volta che si passa da una canzone all’altra. Chiusi in questo loop, senza una particolare direzione, l’unica cosa che resta da fare è aggrapparsi all’occasionale svolazzo alla chitarra o all’interplay voce-strumento, che provvede quel brivido dettato dalla tensione armonica delle loro micro-stonature.
Detto questo, se per noi la sensazione è quella di respirare poco, dalla prospettiva dell’artista questa sembra al contrario una raccolta sviluppata per prendere fiato, una pausa sigaretta sonora che gioca tutta su dei trucchi ben collaudati dal suo fumatore: l’acustica leggermente scordata, la componente percussiva legnosa e calda, l’occasionale sintetizzatore di epoca 64 bit. La fuga momentanea al di là della forma canzone, un altro must. Dawson è da anni al primo posto di questo campionato, e vedere in filigrana la pigrizia della registrazione confuta qualsiasi interpretazione intimistica. Dawson fa Dawson, lo fa piano, lo fa poco, niente di più.
Però alcuni punti positivi possiamo osservarli. In primo luogo, lo sviluppo orizzontale ed eccessivamente cauto concede a Dawson, che pure ha un profilo profondamente outsider, di rimanere al di qua della linea del cringe anche quando il gioco si fa un bel po’ più emotivo (e.g. in More Than Real e Bullies). Poi, la scrittura abbozzata alla chitarra dà l’occasione di brillare agli occasionali comprimari: il clarinetto della jazzista Faye MacCalman e gli interventi alla voce e al synth di Sally Pilkington si esprimono senza troppi freni, con uno spirito da vera jam session, laddove nei grandi dischi è la regia di Dawson a rubare la scena. MacCalman, in particolare, nelle prove di Boxing Day Sales e soprattutto Knot riesce a modulare i suoi assoli bilanciando attentamente l’estro del free folk e la dolcezza dawsoniana più cameristica – succedendo nel difficile compito di specchiare la chitarra del frontman con il suo legno.
Tolto questo prezioso contributo esterno, d’altra parte, cosa ci lascia End of the Middle? Prima di provare a fornire la risposta proviamo a guardare allo stesso press kit dell’album:
The title of Richard Dawson’s new album End of the Middle is a suitably slippery contradiction, one that invites multiple interpretations: Middle-aging? Middle-class? The middle-point of Dawson’s career? The centre of a record? Centrism in general? Polarisation? The possibility of having a balanced discussion about anything? Stuck in the middle with you? Middle England? Middling songwriting?
Lungi dall’avere un profondo taglio aporetico, porsi questa domanda è lecito per un motivo ben preciso: l’autore stesso di questa contraddizione non è particolarmente a suo agio con il suo significato più concreto, che probabilmente non esiste. Weird World ha tutti gli interessi a vendere l’album come “very domestic”, “stark” e “naked” (parole di Dawson), ma le ragioni che ho elencato sono sufficienti per decidere l’aggettivo chiave a coda di queste descrizioni: “half-baked”.
Per noi fan può essere anche bello avere lo spioncino sul cantiere di Richard Dawson, ma, tolto questo punto, rimane il fatto che End of the Middle racconta solo di un cantautore che è capace di fare molto più di così e che per questa volta ha deciso di mettere in standby il cervello e limitarsi a documentare un dietro le quinte. Non è la prima volta che succede: basti pensare a The Glass Trunk o ad Henki. Ma un conto è riscaldarsi prima di fare il botto, un conto è rallentare dopo aver raggiunto una velocità di crociera di un certo tipo. Auguriamo a Richard Dawson di proseguire con il suo meritato riposo e rimaniamo in attesa, fiduciosi di assistere in un futuro a nuove vampate del folksinger più talentuoso della nostra epoca.