CONTAINER BELLO

AGGIORNAMENTO ANNUALE SULLA DISCOGRAFIA DI MATT MITCHELL

Un anno fa, il pianista Matt Mitchell aveva dato alle stampe Oblong Aplomb: era il primo vero passo falso nella sua – altrimenti quasi impeccabile – discografia da leader, ma avevo comunque temuto che quel lavoro avesse segnato un’incrinatura nel mio rapporto con lui. E questo timore si era fatto solo più concreto dopo la pubblicazione di Find Letter X, l’esordio omonimo del gruppo diretto da Kate Gentile. Era l’altro album importante del 2023 cui Mitchell avesse prestato le proprie doti di pianista, e come Oblong Aplomb era viziato da una cerebralità solipsistica esasperante e da un minutaggio eccessivo (nel caso di Find Letter X, oltre tre ore). Entrambi i dischi sembravano ostinatamente arroccati in puzzle musicali inutilmente arzigogolati, impegnati costantemente a sondare sovrapposizioni di metri irregolari, ritmi circolari, linee melodiche asincrone, perdendo di vista l’obiettivo espressivo della musica. Per la prima volta, la musica composta e/o suonata da Mitchell appariva svuotata di ogni carattere se non della sua complessità, priva della policromaticità, della frenesia e dell’eccitazione che avevano reso album come A Pouting Grimace e Phalanx Ambassadors dei piccoli cult dell’avant-jazz contemporaneo. (Va anche detto che, al contrario di Oblong Aplomb, Find Letter X era comunque un lavoro complessivamente interessante.)

Soltanto un anno dopo, invece, Mitchell sembra essere tornato nuovamente ai ragguardevoli livelli creativi cui ci aveva abituato fino a poco tempo fa. Non tutto ciò su cui ha suonato in questo 2024 è oro, sia chiaro: per dire, il simpletrio2000 pubblicato recentemente da Anna Webber che vede la sua presenza come sideman è purtroppo deludente; ma per la prima volta da Snark Horse – correva l’anno 2021 – il suo catalogo si è arricchito di (almeno) due lavori di spessore che lo riportano alla ribalta nel panorama jazz attuale.


MATT MITCHELL – ZEALOUS ANGLES

Pi

2024

Avant-Jazz

Zealous Angles è il disco più recente, ma anche il meno impattante della coppia, quindi partiamo da qui. È l’album che ha segnato il ritorno di Mitchell in qualità di leader alla Pi Recordings, in un anno in cui anche la prestigiosa etichetta di New York ha manifestato una leggera flessione qualitativa, non riuscendo ad ammaliarci come nel recente passato. Dopo Levs di Kim Cass e The Susceptible Now di Tyshawn Sorey, questo è il terzo disco Pi pubblicato quest’anno che appare legato a espressioni più ortodosse del piano trio acustico; tant’è che per l’occasione Mitchell rinuncia al suo solito armamentario di sintetizzatori che in passato ha spesso adoperato per arricchire la palette di timbri e colori a sua disposizione. In Zealous Angles, Mitchell prosegue la ricerca concettuale attuata sui suoi ultimi lavori, ma in un formato e in un minutaggio sostanzialmente ridotti che rendono finalmente digeribili e intelligibili i suoi schemi compositivi. Dal punto di vista di suoni e dinamiche, la musica di questo lavoro manca delle asperità più macroscopiche che caratterizzano altre manifestazioni del piano trio contemporaneo: il pianismo di Mitchell su questo disco è poco interessato a sfruttare cluster, volumi elevati e fraseggi impetuosi alla maniera di Cecil Taylor e di tutta la tradizione pianistica da lui inaugurata, preferendo strategie di eloquio più subliminali e storte – e, per questo, anche meno abusate e banali. L’utilizzo di armonie dissonanti e di metri incespicanti richiama piuttosto la scuola improvvisativa di Thelonious Monk e di Andrew Hill, mentre il chiaro influsso della musica classica occidentale (romantica e post-moderna specialmente) contribuisce notevolmente a dare all’articolazione pianistica di Mitchell una pulizia e un senso accademico che lo può accomunare a Keith Jarrett. Quest’ultimo aspetto è particolarmente evidente su gauzy, dove se non fosse per la pulsione sotterranea data dalle spazzole sulla batteria e per il profondo tono del contrabbasso dal gusto inconfondibilmente jazz si potrebbe quasi pensare di essere alle prese con la registrazione di un gruppo di musica classica contemporanea. 
Sotto la leadership di Mitchell c’è però la base ritmica a opera di Christopher Tordini e di Dan Weiss a sparigliare un po’ le carte in tavola. Il primo è noto alle cronache per essere stato membro dei gruppi di Sorey che, tra il 2011 e il 2017, ne hanno consacrato la statura innovatrice nel panorama improvvisativo americano: su Zealous Angles, Tordini manifesta la sua solita notevole capacità nel leggere il momento della musica stabilendo sempre con lucidità quando optare per un supporto ritmico più solido e quadrato al flusso melodico delle note del pianoforte, e quando invece contrappuntarne la voce con evoluzioni pirotecniche che di fatto lo rivestono del ruolo di secondo solista nel trio. Weiss, invece, qui su Livore non ha bisogno di molte presentazioni viste la nostra monografia dedicata alle uscite Pi degli anni Dieci e la nostra recensione degli Starebaby: su Zealous Angles è lui che asseconda maggiormente la sensibilità più astratta delle composizioni e dell’esecuzione di Mitchell. È proprio la batteria di Weiss ad accentuare maggiormente i momenti in cui il metro di Zealous Angles si perturba e si sfalda (come su angled languour, apical gropes o synch, solo per fare alcuni esempi), ed è ancora lui ad adottare dinamiche più estreme quando il pianismo di Mitchell si sposta verso territori armonici e ritmici più accidentati: sul finale di rapacious e di grail automating il suo batterismo si fa spietato e implacabile, rendendo chiaro ancora una volta quanto il suo stile non possa prescindere tanto da Elvin Jones quanto da Tomas Haake. Non è certamente l’album più imperdibile della discografia di Mitchell né una pietra angolare del piano trio moderno; ma il suo approccio a questo genere – pur perdendo la ricchezza di timbri e caratteri che contraddistingue i suoi lavori maggiori – mantiene la stessa visione lungimirante e ambiziosa. Il che basta perlomeno a renderlo l’album per piano trio migliore tra quelli licenziati dalla Pi nel 2024.


MATT MITCHELL – ILLIMITABLE

Obliquity

2024

Avant-Jazz, Classica contemporanea

Illimitable, registrato nel dicembre 2023 e pubblicato lo scorso maggio dalla Obliquity Records, rappresenta invece il culmine della ricerca in solo di Mitchell – ambito in cui, a dire il vero, l’avevamo potuto apprezzare poche volte in passato. Si tratta ancora una volta di uno sforzo erculeo per una durata proibitiva: quasi due ore di elucubrazioni in solitaria del pianoforte, che – la pagina Bandcamp ci tiene a precisare con un certo orgoglio – sono «100% improvised», registrate in una singola sessione senza alcun edit in fase di post-produzione.

Illimitable consta di sole quattro tracce, ma ognuna di queste è un flusso di coscienza torrenziale capace di attraversare un’incredibile varietà di umori e idiomi – non solo afferenti all’ambito improvvisativo – offrendo così un eccellente compendio della poetica di Mitchell come strumentista e di tutte le anime che hanno formato il suo stile pianistico. L’atto improvvisativo impedisce a Mitchell di indulgere nelle astrusità cervellotiche che ama adottare in qualità di compositore e che appesantivano l’ascolto di Oblong Aplomb; allo stesso tempo, però, tutti i brani si snodano lungo strutture sinuose e labirintiche, seguendo un filo straordinariamente logico e coerente che in più di un’occasione ne cela la dimensione completamente spontanea e insieme conferisce a ogni improvvisazione un carattere unico e indistinguibile.

I quasi quattordici minuti della title track che inaugurano il primo disco si aprono con poche note centellinate dalla mano destra, seguendo uno schema ritmico piuttosto sghembo, contrappuntate da un torbido mulinello eseguito dalla mano sinistra sul registro più grave. Sembra il preludio una rilettura post-moderna della Descent into the Maelstrom di Lennie Tristano, ma con il passare dei minuti Illimitable acquisisce sempre più la forma definita di una sonata tardoromantica dal pronunciato afflato lirico, fluttuando tra lo stile sinestetico di Aleksandr Skrjabin e l’ipervirtuosismo di Charles-Valentin Alkan. Lo sviluppo della successiva unwonted procede su binari simili, ma dilatando la durata fino a raggiungere quasi quarantatré minuti di viaggio attraverso tutte le possibili manifestazioni del Mitchell-pensiero. All’inizio, l’improvvisazione suona angolare e arcigna, con le due mani che si muovono indipendentemente per tutta la lunghezza della tastiera – ora contrappuntandosi con linee melodiche autonome, ora invece offrendo una il sostegno cordale per il tema delineato dall’altra. L’irruenza e le dinamiche del pianismo di Mitchell ricordano qui una versione meno deflagrante di quelle del Cecil Taylor di album come Silent Tongues o Air Above Mountains; ma il brano cambia improvvisamente passo dopo i primi dieci minuti, quando la musica si fa più sparsa. Il riferimento lampante, a questo punto, sono le pagine per pianoforte firmate da Morton Feldman (cfr. il Piano Piece dedicato a Philip Guston).
Lentamente l’esecuzione riprende vigore, aprendosi a uno scorcio di luminoso impressionismo che fa collidere le Images di Claude Debussy con i Sun Bear Concerts di Keith Jarrett; fino a quando – intorno al ventesimo minuto – la ragnatela ritmica del brano si fa più increspata e contorta, traghettando il pezzo verso la conclusione che recupera l’approccio percussivo e più fragoroso dei primi dieci minuti. I tenui temi imbastiti dalla mano destra sul registro più acuto indulgono in trilli e ostinati che suonano ancora più esili quando vengono contrapposti alle onde di puro suono generate dalla mano sinistra che si infrangono burrascose su di essi. unwonted si spegne così in un lento ritirarsi della mareggiata sonora, con acquerelli pianistici che rievocano pure l’Anthony Davis di Lady of the Mirrors

Il secondo disco si apre invece con gli oltre ventotto minuti di abstruse admixtures, che offrono il numero più fragoroso di tutto Illimitable. È qui che Mitchell sfoga più intensamente la componente dissonante, violenta e percussiva della sua estetica: ancora una volta i riferimenti classici (Béla Bartók, Olivier Messiaen) e jazz (Andrew Hill, Cecil Taylor, Matthew Shipp) sono evidenti, ma nel gusto così estremo esibito su questo brano non è improbabile che un ruolo lo giochi anche il noto amore di Mitchell per il death metal. Su tutt’altri binari, il finale di for oona offre un’interpretazione della musica contemporanea più astratta e contemplativa di derivazione post-feldmaniana: il fraseggio del pianoforte, fino a questo punto così ricco e dinamico, si sfalda e si disintegra; le figure melodiche si disperdono nel vuoto pneumatico; le note vengono centellinate facendo risuonare nell’aere la loro eco, in spasmodica attesa della successiva che però sembra non arrivare mai. È un brano dominato da una tensione beckettiana che non accenna a risolversi, sfidando per quasi ventiquattro minuti ogni concetto di tempo – musicale e non: anche qui, se i capolavori maggiori di Feldman sono il precedente più ovvio, non è da sottovalutare l’influsso concettuale di operazioni analoghe e più recenti attuate in ambito improvvisato da Tyshawn Sorey sui suoi splendidi Verisimilitude e Pillars.

Illimitable è un disco impressionante da molti punti di vista. I quattro brani non solo sono eseguiti in maniera semplicemente eccezionale, ma sembrano anche perseguire un filo logico e narrativo degni di una composizione vera e propria (esempio eclatante: for oona), gestendo con intelligenza la varietà degli idiomi da cui attingere durante la performance (per questo è invece emblematica unwonted). A questo va aggiunto che l’abilità strumentale di Mitchell fa apparire i suoi arrangiamenti per solo piano più densi e stratificati di quanto in realtà non siano, restituendo l’idea di una musica pensata per una strumentazione più ampia: a parte l’ovvia eccezione di for oona, per tutta la durata del disco la densità e il volume di suono fanno pensare alla presenza di almeno due pianisti, mentre in vari passaggi l’interazione tra le parti della mano destra e quelle della mano sinistra ricorda il dialogo tra il violino di Mat Maneri e il pianoforte di Matthew Shipp su Gravitational Systems. Tutte queste caratteristiche rendono Illimitable un ascolto stimolante e sorprendente per l’intera sua durata, il che, visto che si parla di quasi due ore di pianoforte è già un achievement di per sé. In altre parole: Illimitable è una delle più belle pagine di composizione spontanea per solo piano che abbia avuto il piacere di ascoltare negli ultimi anni.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia