GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR – NO TITLE AS OF 13 FEBRUARY 2024 28,340 DEAD
Avete presente le cotolette AIA? Le cotolette AIA sono commestibili, hanno un sapore, una consistenza, e all’occorrenza ce le si può fare andare bene per una cena d’emergenza. Certo è che a pochi verrebbe in mente di desiderare queste cotolette, perché in fondo non sono altro che un riempitivo in un mondo di alimenti decisamente più buoni e gustosi – e tutto sommato ci sono pure tanti altri modi di cucinare velocemente qualcosa di migliore in mancanza di tempo, vero? Ecco, l’impressione è che la musica dei Godspeed You! Black Emperor sia ultimamente diventata l’equivalente delle cotolette AIA: innocua, prevedibile, banale, musica che di sicuro non ti uccide, ma che non sembra poi così necessaria in questo mondo. Se questo paragone può apparire forte è anche un po’ per la voglia di provocare, cosa che non faremmo se il plauso dedicato all’ultima fatica della band canadese non fosse stato pressoché universale nella critica di settore, e questo anche quando nei fatti c’è ben poco da elogiare.
Dodici anni e cinque album sono passati dalla reunion dei GYBE, inizialmente accolta con comprensibile entusiasmo. Se ‘Allelujah! Don’t Bend! Ascend! si poteva invero considerare un lavoro interessante, i due dischi successivi ci hanno mostrato abissi di vuoto che non avremmo pensato essere raggiungibili da un gruppo di questo calibro: le sonorità trite e ritrite di ‘Asunder, Sweet and Other Distress’ e “Luciferian Towers”, con la loro povertà timbrica e strutturale, ricordavano la messa in piedi di una cena con gli avanzi riscaldati del giorno prima – e sempre alle cotolette ritorniamo. E anche se per fortuna il pubblico se n’era accorto, era prontamente tornato a celebrare tra i detriti della pandemia G_d’s Pee AT STATE’S END!, un album che simulava un ritorno alle origini imbellettando la sua facciata con qualche sporadico field recording e la ricomparsa in pompa magna delle tracce-da-venti-minuti-coi-titoli-lunghi. Nella realtà dei fatti in questa uscita si nascondeva solo un esercizio di stile e poco più, celato da una mera assonanza formale con i lavori pre-iato della band per renderlo facilmente acclamabile. Avremmo potuto interrogarci su quale potesse essere il destino di un gruppo che riusciva ormai ad esprimere il suo meglio solo recitando il cosplay di se stesso, ma la verità è che qui in redazione ci eravamo pacificamente dimenticati dell’esistenza dei Godspeed You! Black Emperor fino a quest’ultimo mese.
E poi eccolo spuntare, nei comunicati stampa, nei siti dedicati, nei profili della gente: “No Title as of 13 February 2024 28,340 Dead”, la nuova fatica dei canadesi in uscita questo ottobre, un titolo che non ha bisogno di commenti. O forse sì, perché questa cosa merita una digressione. Il filone ideologico sul quale la band si muove fin dalla sua fondazione è sempre apparso chiaro come il sole, eppure era per certi versi intrigante che la maniera di estrinsecarlo non fosse mai totalmente diretta, ma piuttosto gestita per metafore, allegorie, immagini, dialoghi campionati, prose ricche di perifrasi e aggettivi. Non c’è mai stato bisogno di chiedersi che cosa fossero le torri di Lucifero o la macchina a fuoco senza guidatore, così come non abbiamo mai avuto bisogno di interpretare il significato delle bombe sulla copertina di Yanqui U.X.O.: eravamo coscienti che la musica dei Godspeed You! Black Emperor fosse, all’osso, solo il frammento più notevole del grande collage estetico del gruppo, poggiato sulla critica al capitale e alla guerra imperialista; la simbiosi tra la componente sonora e tutto il resto veniva semplicemente naturale. Quindi permetteteci ora di storcere il naso davanti all’utilizzo così esplicito della tragedia in corso a Gaza per un titolo che si traveste, ipocritamente, da non-titolo, visto che ad essere maliziosi si potrebbe persino vedere tale scelta come un modo per far parlare del disco stesso (magari tra l’emoji di un’anguria e un “from the river to the sea…”), un grande polverone alzato per ragionare il meno possibile sul suo effettivo contenuto.
Se d’altronde sull’aspetto estetico possiamo (a fatica) glissare, qua subentra la vera criticità per chi come noi è dotato di orecchie: la musica di No Title è priva di mordente, di vitalità, di originalità. Che la sola struttura dei pezzi conosciuta dalla band sembri ormai essere relegata al crescendo, o al massimo al crescendo-calma-ricrescendo, in fondo lo sapevamo già. Quello che però si spera(va?) ad ogni disco dei GYBE è che nonostante tutto, l’inevitabile climax pieno di pathos con sviolinate e distorsioni appaia dandoci prima qualcosa, un’innovazione timbrica, un qualche collage a inframmezzare, insomma qualsiasi cosa possa diluire l’ineluttabilità ingoiata forzatamente in quasi trent’anni di crescendo-core. Ciò che invece No Title ci restituisce è un’accozzaglia di pezzi che vanno avanti col pilota automatico, una musica ben eseguita e ben missata, ma che esala un odore di plastica fin troppo evidente.
È faticoso trovare parole per valorizzare la generale povertà di idee che affligge la prima metà del disco. Se già l’introduzione vapida e svogliata di Sun is a Hole Sun is Vapors lascia intuire qualcosa, l’accoppiata delle due tracce successive mette in luce tutta la miseria degli impianti strutturali. Babys in a Thundercloud e Raindrops Cast in Lead sono sostanzialmente lo stesso brano, cavalcate al contempo malinconiche e gloriose in cui si cresce, c’è una pausa, si cresce di nuovo, grande commozione, tutti piangono. Nello specifico, in Raindrops il crescendo CRESCE di più (!), il sole splende, e nel mezzo viene sommariamente offerto come fanservice un monologo in spagnolo – non c’è altro da aggiungere. A volersi sforzare si riesce invece a intravedere in Babys un’ombra di She Dreamt She Was a Bulldozer, She Dreamt She Was Alone in an Empty Field, un pezzo di ventiquattro anni fa, più bello, inserito in un contesto non comparabile con la monodimensionalità che si respira qua dentro. Nel concreto abbiamo trentadue minuti letteralmente dominati dalla scala maggiore, portante con sé una pomposità che stona veramente troppo con la tragedia che questo album vuole far finta di trattare. Ciò che abbiamo appena ascoltato simboleggerebbe il coraggio degli innocenti morti a Gaza? Il fasto sospinto di queste composizioni riflette un orgoglio nel martirio? Azzardiamo: la speranza di un futuro migliore per il pianeta intero? Nessuno lo sa, forse neanche la band stessa, ma tanto basta per lasciare disorientati – o, nei casi peggiori, urlare al capolavoro emotivo.
La seconda parte di No Title tenta se non altro di correre ai ripari, risultando più cupa e variegata, e facendoci segnalare i primi veri punti di interesse. Arriva finalmente il tentativo di innestare una qualche varietà timbrica, insistendo in questo caso su tremolo e vibrato: è questo a rendere accattivanti i primi minuti di Pale Spectator Takes Photographs, che prima di sfocare nel solito crescendo rimanda alla mente certi fantasmi che infestavano East Hastings. Abbiamo anche le mescolanze armoniche nella melodia portante di Grey Rubble – Green Shoots in chiusura, degne di nota nella loro insistenza ossessiva, ma l’episodio probabilmente più interessante del disco pare piuttosto essere Broken Spires at Dead Kapital. Qui, un drone incerto si dirama tra archi e chitarre in una litania che ha effettivamente il sapore della disperazione; il problema è che quando il brano che più ha da dire è un intermezzo, forse qualcosa è andato storto. Disquisire ulteriormente sulla qualità intrinseca di questi pezzi, o tentare di scomporli minuziosamente per meglio delinearli non avrebbe senso. A livello strutturale non c’è mai un momento in cui qualcosa sorprenda, mai un momento in cui la band esca fuori dal copione che si è autoimposta. Rimane solo da scavare nei dettagli e nelle singole istanze per raccogliere quanto di buono No Title ha da offrire, pietruzze in un ben più grande ciottolato.
Arriva un momento in cui persino chi come me ha amato alla follia la musica dei canadesi, consumando F#A#∞ e piangendo su Antennas to Heaven, deve fare i conti con la realtà. Abbiamo davvero bisogno di questi Godspeed You! Black Emperor in una platea come quella del post-rock contemporaneo, che già solo quest’anno ci ha offerto uscite genuinamente interessanti come Center e If I Don’t Make It, I Love U? La stessa platea in cui persino l’esperimento solista non esaltante di Alexander Gregory Kent (paradossalmente ispirato dai GYBE stessi) risulta essere più attraente del loro ultimo disco? E voi, la cotoletta AIA la preferite davvero a un sottofiletto?