A. G. COOK – BRITPOP
C’è stato un tempo in cui era sostanzialmente impossibile affacciarsi sulla scena elettronica contemporanea senza trovarsi davanti termini come “PC Music”, “bubblegum bass”, “deconstructed club” o “hyperpop” – parola maledetta che specialmente nel nostro bel paese sarebbe diventata un grosso ombrello per definire tutto e il contrario di tutto, dal rapperino alt r&b più insignificante a gente che non sa usare i compressori di dinamica, ma questa è un’altra storia. Quel tempo è forse più lontano di quanto non sembri, complice il grande vuoto lasciato dal COVID nel cervello di parecchi di noi, eppure niente sembra averci messo una pietra sopra come la tragica morte di SOPHIE, avvenuta nel 2021. Era naturale che una fatalità così grande lasciasse i suoi strascichi: veniva a mancare una delle producer contemporanee più affermate, figura chiave proprio di quell’elettronica metallica e abrasiva che seppe ricavarsi uno spazio notevole tra le tendenze di fine decennio (alzi la mano chi non ricorda quell’articolo lì), e che sembrava essere sulla bocca di tutti gli appassionati, tra critiche ed elogi. Quando due anni dopo venne annunciato che l’etichetta PC Music avrebbe cessato la sua attività, accolsi personalmente la notizia con l’indifferenza di chi è ormai fuori da una bolla ed è in grado di guardarla dall’esterno con maggiore obiettività. Eppure, non fu la scomparsa di SOPHIE a farmi riprendere dallo stordimento. Quel “merito” va piuttosto attribuito ad una doppietta di dischi che da soli mi fecero capire che era il momento di dire basta: entrambi erano a firma A.G. Cook.
In una surreale fine estate di pandemia, il produttore inglese, fondatore della PC Music, amico intimo di Sophie ed artefice della più acclamata produzione di Charli XCX, rilasciava finalmente un album da solista, accontentando una schiera di fan che fino ad allora aveva rosicchiato le croste di singoli scialbi, remix sparsi ed improbabili colonne sonore per altrettanto improbabili film. 7G fa capolino il 12 agosto 2020: SETTE dischi, quasi centosessanta minuti, poche tracce veramente interessanti, spaventosa quantità di filler. Appena un mese dopo arriva Apple, un lavoro sì più compatto, ma a tutti gli effetti brutto e pacchiano, in cui certi esperimenti chitarristici di 7G vengono incollati posticciamente ad un’elettronica modesta. Insomma, da un lato quella che in realtà era una grande raccolta di bozze, dall’altro un esperimento “intimista” mal riuscito ed in certi casi snervante, se non imbarazzante. Sebbene di tempo ne sia passato, è inevitabile riportare alla luce queste uscite, in primis perché Cook non ha perso il vizietto di rilasciare troppa musica tutta assieme.
Sono infatti passati quattro anni, ma i problemi che affliggevano la produzione solista del musicista britannico sono ancora più vivi che mai in questo Britpop, sua ultima fatica. I minuti questa volta sono circa cento, e se 7G era diviso in sette parti, qui ci si accontenta di tre: Past, Present e Future, rispettivamente equivalenti ad un lato bubblegum bass, un lato che riprende direttamente Apple ed una conclusione che a conti fatti mescola le due cose assieme. Già da questa descrizione si può intuire una parte dei grossi problemi di questa uscita, ma cerchiamo di andare con ordine.
L’introduzione di Britpop è affidata al territorio più familiare dell’elettronica lucidissima e danzereccia che ha caratterizzato la stragrande maggioranza della produzione di Cook, il quale sembra effettivamente muoversi a suo agio in Past. A scanso di equivoci, non siamo comunque di fronte a niente di nuovo – ed è anche comprensibile, visto che questo primo disco vuole essere una ripresa ed al tempo stesso un omaggio al “vecchio” suono che ha reso famoso il producer – eppure il risultato in certi casi è godibile. Da segnalare sono specialmente episodi come i frammenti vocali schizofrenici e i synth dal gusto trance di Silver Thread Golden Needle, l’IDM distorta di You Know Me e Luddite Factory Operator, o gli accenni drill & bass di Prismatic, arricchiti dalla voce di Cecile Believe. Purtroppo, questi momenti si accompagnano a cali di stile più o meno evidenti, che spesso coincidono con l’ingombrante presenza di Charli XCX, come nel pigro revival house della title track, dove una melodia inoffensiva nasconde una costruzione stentata e senza idee, o in Television, una sorta di omaggio mal riuscito a certa 2-step di inizio millennio che non sa dove andare a parare. Un altro esempio negativo è poi Crescent Sun, poco più di una vacua canzonetta estiva basata sulla stessa, inesorabile e ormai snervante progressione armonica di IDL, alla quale evidentemente Cook è particolarmente affezionato, ma che negli anni ha infilato ovunque come il prezzemolo (e sì, la ritroveremo anche più in là). Ciò che in sostanza rimane di Past è il sound design notevole, e poco altro. Ma è da qui in avanti che le cose precipitano.
Present, come accennato prima, si getta a capofitto nel cantautorato da cameretta dalle vene alternative/slacker di Apple, e già questo è un controsenso: davvero le (brutte) sonorità di un album di quattro anni fa sono il presente di A.G. Cook? Se sì, dispiace sinceramente, perché se nel disco precedente il risultato era passabile, qui si toccano nuove vette di cattivo gusto. Tra gli episodi chiave: l’orrendo “solo” di chitarra distorta che chiude Nice to Meet You, le dinamiche fuori controllo di Green Man, l’insensata coda di Greatly (qui qualcuno non si è mai ripreso dall’ascolto di Animals), e soprattutto le percussioni oscene di Bewitched, che da sole costituiscono probabilmente il punto più basso dell’intero lavoro (come può la stessa persona che pochi minuti prima ostentava il suo talento da sound designer macchiarsi di questo insulto gratuito al concetto stesso di sound design?). Il resto dei brani si aggira tra l’impressione di stare a sentire un cantautore alle prime armi che si diletta con la prova gratuita di Ableton Live (Serenade, Without) e poche cose salvabili, tra cui il valzer elettronico di Crone e un rarissimo esempio di intimismo ben riuscito in The Weave. Viene quindi fuori una produzione che sembra rinnegare quanto di buono era stato buttato giù in Past, e che mi spinge a pregare qualche santo sconosciuto per non far prendere mai più in mano una chitarra a Cook.
Future si apre senza che ci si accorga di trovarsi nel futuro: Soulbreaker è infatti poco più di una canzoncina synthpop che privata di qualche sintetizzatore non avrebbe sfigurato nel disco precedente. La voce di Cook, ormai sempre più Ecco2k de’ noantri, viene finalmente zittita, ma solo dal ricomparire di Charli XCX nella successiva Lucifer, disarmante nella sua assoluta impalpabilità. Non vale la pena continuare per ordine: qui regna ormai una generale anarchia, in cui galleggiano pezzi che potevano tranquillamente essere inseriti in Past, come Emerald o Equine (di nuovo basata sulla progressione di IDL, cristo!), tracce senza forma come Pink Mask, un intermezzo dark ambient di cui si sentiva assolutamente bisogno (Butterfly Craft) e giusto due brani che provano, sforzandosi, a dire qualcosa di diverso: WWW e Out of Time. Quest’ultimo chiude definitivamente Britpop in una nebulosa che oscilla tra l’hardcore di stampo UK e la trance più hard, in un’operazione simile alla chiusura di Visions in How I’m Feeling Now.
Per tirare le somme serve riposo, e dopo un’ora e quaranta di musica che oscilla quasi sempre tra il mediocre e lo sgradevole ce n’è bisogno. Dopo un po’ di riflessione, viene da dire che la vera delusione di Britpop non sta tanto nel non dire nulla di veramente nuovo sul sound di A.G. Cook, ma piuttosto nel reiterare continuamente gli errori del passato. Il contesto di una community che sembra ancora composta da fan accecati dai loro idoli, e che mai prova veramente a mettere questi in discussione, è forse stato complice di questo stallo. Le capacità del musicista britannico sono visibili, ma l’impressione è quella di una figura artistica impantanata nel proprio lascito, che maldestramente tenta di uscirne con esperimenti fallimentari evidentemente non nelle sue corde, e che sembra incapace di produrre un disco compatto senza strafare. La speranza è l’ultima a morire: ci auguriamo che A.G. Cook riesca trovare una quadra in futuro, ma soprattutto che si decida a smaltire in un’isola ecologica quella fottuta chitarra.