AMARO FREITAS – Y’Y
Il pianista brasiliano Amaro Freitas è attivo già da qualche anno sulla scena jazz – il suo esordio risale al 2016 – ma è stato soltanto nel 2021, all’altezza del terzo disco, che ha conquistato definitivamente le luci dei riflettori. Sankofa proponeva un’interpretazione del piano trio fortemente influenzata nel concreto da quella di Robert Glasper; sul piano del concetto, però, il riferimento più proprio era quel tipo di operazione di recupero delle proprie radici culturali in un contesto jazz come quella attuata da Vijay Iyer con la musica indiana. Si tratta di un lavoro che rimugina profondamente sull’eredità della tradizione musicale brasiliana, richiamata tanto nei titoli (Sankofa, Baquaqua, Vila Bela, Cazumbá) ma anche nel modo di rileggere la percussività di samba, batucada, baião, coco in un contesto di post-bop evoluto e moderno. Come nel trio di Glasper, la musica di Sankofa suona molto ricca armonicamente e ritmicamente (con evidenti richiami anche alle sovrapposizioni metriche dei Bad Plus, anche se il senso dello swing lo avvicina di più ai nuovi campioni del jazz latino e cubano come David Virelles), ma comunque misurata e morbida dal punto di vista melodico – qua e là, arrivando pure pericolosamente vicino alla melassa dell’Esbjörn Svensson Trio. Soltanto occasionalmente, come su Batucada o su Malakoff, l’approccio di Freitas si è fatto più irruento e nerboruto, accompagnando dinamiche più forti e armonie più aspre, a tratti dissonanti, alla cornucopia di ritmi e all’accumulo di temi iterati ostinatamente. E confesso che, per mio gusto, al tempo dell’ascolto di Sankofa ho sperato fortemente che la sua evoluzione artistica lo portasse a perseguire precisamente quest’ultima direzione, piuttosto che quella più flemmatica e legata al mainstream di – per esempio – una Vila Bela.
Invece, per il suo ultimo Y’Y, Freitas ha deciso di imboccare un’ulteriore terza via all’insegna di un minimalismo mistico e arioso, che esplora quasi in punta di piedi il suo rapporto intimo con il territorio brasiliano, i suoi paesaggi, la sua natura. Per la quasi totalità del suo minutaggio, Y’Y è votato a elucubrazioni in solitaria di Freitas – o al massimo a intime conversazioni sussurrate tra lui e un qualche ospite – venate di una sensibilità ascetica e sparsa, che suggerisce in maniera impressionista il flusso dei corsi d’acqua, il suono delle fronde della vegetazione, il movimento imprevedibile della fauna, e che simultaneamente ripesca l’eredità ritmica, melodica e timbrica delle culture pre-coloniali, rifuggendo le eredità americane e portoghesi per abbeverarsi direttamente alla tradizione musicale della diaspora africana. Il pianoforte viene preparato utilizzando mollette da bucato, nastro adesivo ed ebow in modo da alterarne il suono, che qua e là può essere scambiato per un sintetizzatore o addirittura per un toy piano, e allo stesso tempo per esaltarne la componente percussiva di ascendenza africana: sulla splendida Dança dos martelos il flusso di coscienza si fa torrenziale mentre l’esecuzione oscilla ondivaga tra l’ECM più estatica e gli aspri ostinati di cluster dissonanti di un Cecil Taylor abbandonato nel cuore della foresta amazzonica.
Per la prima metà del disco, quella eseguita in solo, Freitas si avvale semplicemente di una m’bira (su Sonho ancestral), e di qualche canto rituale con percussioni assortite (sul tributo al percussionista Naná Vasconcelos di Viva Naná) per accompagnare il suo strumento, che continua a suonare con una grazia e una delicatezza che tradiscono gli insegnamenti di Ahmad Jamal. Nella seconda metà, che nelle intenzioni di Freitas rappresenta una manifestazione di vicinanza culturale e spirituale all’attuale scena jazz afro-americana, si possono invece ascoltare Shabaka Hutchings (che presta la propria voce e le piroette del suo flauto alla title track), Jeff Parker (che contrappunta con la sua chitarra il suono scintillante del Fender Rhodes su Mar de Cirandeiras) e Brandee Younger (che invece riempie con l’arpa i vuoti lasciati dal pianoforte nel morbido soul jazz di Gloriosa); ma l’umore ascetico è quello dei brani precedenti.
Soltanto nella conclusiva Encantados ci si trova nuovamente di fronte a un numero che richiama l’approccio ritmico esuberante di Sankofa – ed è infatti l’unico brano orchestrato per un vero ensemble jazz, con un trio composto da Freitas, da Aniel Someillan al contrabbasso e da Hamid Drake alla batteria a cui si aggiunge nuovamente il flauto di Hutchings. Ma anche se gli incastri ritmici latini adottati dal piano trio portano un’eccitazione tarantolata diversa dal resto del lavoro, lo spirito che li anima è ancora quello della celebrazione animista della tradizione e della terra brasiliana, con il flauto di Hutchings che enuncia temi dal sapore afro-cubano imitando lo stile usato per la charanga.
Secondo le stesse parole dell’autore, il peculiare carattere della musica di Y’Y si deve al fatto che Freitas ha recentemente abbandonato la sua città d’origine, Recife, per trasferirsi nell’entroterra brasiliano – e più precisamente a Manaus, dove il Rio Negro confluisce nel Rio delle Amazzoni. Il press-kit si dilunga verbosamente su quanto la vicinanza a un contesto più naturale abbia portato il germoglio di una nuova creatività che vuole celebrare la foresta amazzonica e i suoi corsi d’acqua come portatori di vita: la scelta del titolo, preso da un vocabolo della cultura Sateré-Mawé che significa “acqua”, è emblematico in tal senso.
Più prosaicamente, non è difficile scorgere in questa nuova estetica – così più sparsa, a tratti new age-y – un’influenza esplicita di Shabaka Hutchings e dei suoi esperimenti più spiritualeggianti iniziati due anni fa su Afrikan Culture e proseguiti quest’anno con quella palla insostenibile di Perceive Its Beauty, Acknowledge Its Grace, soprattutto considerando che Hutchings stesso è ospite su un paio di tracce. Eppure – nonostante una certa dose di melassa che emerge nella seconda metà, quando il Brasile di Freitas incontra pericolosamente il gusto melodico un po’ cheesy di certe uscite International Anthem – Y’Y sembra dimostrare proprio che nel 2024 è ancora possibile, se forti di una poetica ben definita e di un’ispirazione solida, suonare musica jazz dall’afflato più minimalista e contemplativo senza doversi per forza ridurre all’esotismo da cartolina e alla dimensione da muzak in cui Hutchings si è infrattato nell’ultimo periodo. Bravo Amaro.