VIJAY IYER / LINDA MAY HAN OH / TYSHAWN SOREY – COMPASSION

ECM

2024

Post-Bop

Vijay Iyer è ormai più che affermato nel mondo jazz – uno dei nomi più rispettati ed eclettici del nuovo millennio. Negli ultimi 25 anni, la sua visione artistica ha abbracciato di tutto: dalla commistione di nu jazz e hip hop dei progetti con Mike Ladd al post-bop esplosivo di Accelerando (uno dei suoi picchi assoluti, secondo noi); dalle sperimentazioni tonali con Hafez Modirzadeh al jazz calmo e contemplativo dietro al ghazal di Arooj Aftab nel raffinato Love in Exile. Partito dalla Pi Recordings, passato per la tedesca ACT fino ad approdare in pianta più o meno stabile alla storica etichetta discografica ECM, Iyer ha saputo mettere a punto un pianismo poliedrico, che alterna angolarità impetuose a una delicatezza melodica a cui dà spazio in ogni sua release. Come già esternato altre volte in questa sede, la ECM è pericolosa; alterna uscite raffinatissime a numerosi lavori ammuffiti e soporiferi, in cui l’estro dei musicisti e la vitalità delle composizioni sono fiaccate da una produzione eccessivamente rileccata, nonché da un’idea troppo eurocentrica e sbiancata di cosa dovrebbe essere una registrazione jazz. Neanche Vijay Iyer è potuto sfuggire a questa dicotomia: tra i suoi numerosi progetti con l’etichetta, se da una parte si ha l’interessantissimo Far From Over, dove guida un sestetto (con, tra gli altri, Tyshawn Sorey alla batteria e Steve Lehman all’alto sax) verso un post-bop dinamico e sfuggente, dall’altra troviamo la deludente collaborazione con Wadada Leo Smith su A Cosmic Rhythm in Each Stroke, in cui la ricercatezza armonica dei due non riesce purtroppo a tenere a bada la noia. 
Sempre per ECM arriviamo dunque a Compassion, uscito questo febbraio, secondo lavoro del suo trio con Linda May Han Oh al contrabbasso e sempre Tyshawn Sorey alla batteria. Per molti versi, il disco continua l’esplorazione della precedente uscita del gruppo, Uneasy – jazz algido ed elaborato in cui Iyer sembra voler trovare una quadra al suo linguaggio pianistico, arrivare a un vantage point dal quale orchestrare efficacemente il dialogo col basso strutturato di Han Oh e l’incredibile mole di input offerti dalla batteria di Sorey. Entrambi i lavori, perciò, si concentrano principalmente sul raffinato interplay di tre maestri del proprio strumento, senza avventurarsi troppo nel reame del concettuale a livello timbrico e compositivo. La differenza chiave sta nel fatto che Compassion sembra riuscire meglio di Uneasy sotto molti aspetti: il pianismo di Iyer è più vivace e multiforme, spaziando da calde interpretazioni di Stevie Wonder (Overjoyed, suonata lungo i binari tracciati da Chick Corea nella sua ultima performance, ed eseguita proprio sul suo pianoforte) a veloci fughe nel turbinio avant-garde di Roscoe Mitchell (Noonah, in cui Iyer traspone il sassofono di Mitchell attaccando il pianoforte con foga degna di Cecil Taylor). La produzione è qua asciutta e impeccabilmente pulita, con dinamiche gestite il più nitidamente possibile, così da far risaltare il contributo di ciascun musicista. Le composizioni originali di Iyer regalano poi alcuni dei momenti migliori del disco, come la tagliente Arch, caratterizzata da incessanti costruzioni attorno a un tema molto semplice e da un bel dialogo up-tempo tra piano e contrabbasso, o l’incedere frammentato di Maelstrom, dove Sorey gioca tra controtempi, cambi ritmici improvvisi, cavalcate sui rullanti e aperture floreali su tutto il kit. Nel suo insieme, Compassion è pervaso da straordinaria naturalezza: le soluzioni armoniche scelte dal trio suonano sempre come l’ovvia, appropriata conclusione delle loro idee, eppure non risultano mai banali o semplicistiche – una corrente comunicativa sembra trascinare i tre, e la musica di ciascun brano avanza e recede come onde sulla spiaggia. Tra i numerosi volti offerti da Iyer su questo disco, il meno riuscito è forse quello fortemente emotivo proposto su Prelude: Orison, dove sembra scadere un po’ nella melassa vagamente kitsch del Keith Jarrett più piacione. Tra composizioni originali e interpretazioni di alcuni brani di personalità storiche (oltre alle sopracitate spicca anche il medley tra Free Spirits di John Stubblefield e Drummer’s Song di Geri Allen), Compassion è dunque un lavoro in cui i musicisti navigano la sottile linea tra la volontà di creare un neo-bop compito ed elegante e il rischio di produrre invece una musica poco memorabile, priva della freschezza espressiva a cui soprattutto Sorey ed Iyer ci hanno ormai abituato. Anche il prolifico batterista di Newark, autore negli anni passati di uno dei dischi più sbalorditivi della contemporaneità (Pillars, di cui abbiamo scritto un’appassionata disamina), aveva dopotutto contrapposto a questa magnifica libertà espressiva una sorta di “ritorno all’ordine” con risultati alterni (prove convincenti come The Off-Off Broadway Guide to Synergism e momenti meno brillanti come Mesmerism, più tradizionale e privo di brio). Ne consegue che, nell’ennesimo disco uscito per un’etichetta spesso quasi ostile a qualsiasi elemento possa destabilizzare il rigore di un’esecuzione jazz, non era affatto scontato che Iyer riuscisse a trovare adeguato spazio per quel suo pianismo creativo e duttile memore di Andrew Hill – fortunatamente, le cose sono andate per il meglio. Il gruppo riesce infatti a bilanciare ottimamente il piglio più classico dei brani, che a livello compositivo si collocano in una tradizione molto navigata di post-bop per piano trio, con un’esecuzione moderna ed elastica, saggiamente sottolineata dalla produzione. Compassion spicca a livello tecnico e timbrico, presentando un jazz capace di soddisfare tanto chi cerchi un solido scheletro compositivo come supporto all’improvvisazione quanto chi sia più interessato alle intuizioni estemporanee dei musicisti.

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David Cappuccini
David Cappuccini