MARY HALVORSON – CLOUDWARD
A più riprese in redazione ci siamo sperticati le mani per applaudire qualsiasi cosa Mary Halvorson decidesse di pubblicare; siamo così innamorati della poetica di una delle jazziste più intriganti della nostra generazione che persino quando i suoi dischi non fanno centro troviamo qualcosa di positivo da portare a casa, perché sulla sua musica c’è sempre qualcosa da dire.
Come se avesse letto la recensione di Emanuele dell’anno scorso, questo Cloudward, pubblicato dalla Nonesuch, vede il ritorno in studio della chitarrista con il suo sestetto Amaryllis: si tratta di un ambiente congeniale a Halvorson, in cui non solo risplendono le linee oblique delle sue composizioni, ma dove ogni musicista riesce a emergere organicamente dalle complicate figure armoniche e ritmiche che insidiano anche il più orecchiabile dei temi all’interno del disco.
L’aspetto più interessante di Cloudward, però, è quanto sfuggente sia diventata la figura di Halvorson chitarrista nella costruzione lirica e armonica dei propri brani: basti ascoltare il modo in cui la opener The Gate sembra muovere il proprio occhio di bue prima al di sopra del batterismo pirotecnico di Tomas Fujiwara e poi sul solo di tromba di Adam O’Farrill (un altro di quei nomi che aspettiamo al varco per un nuovo, grande disco jazz), per notare come gli interventi della chitarra si riducano a frasi scheletriche che occupano le quinte dello spazio sonoro del brano. Il tutto si fa ancora più straniante nella delicata ballata The Tower, che si apre con un minuto di freak-out interamente chitarristico in puro stile frippertronics; nonostante sia ora al centro della scena, Halvorson fa effettivamente “iniziare” il brano solamente quando la chitarra si adagia su un giro armonico rigidamente cadenzato e che funge da metronomo a tutti gli altri strumenti, tra cui il vibrafono di Patricia Brennan che qui, come in molti brani dell’album, coniuga con successo un gusto melodico di ascendenza hutchersoniana e la complessità ritmica del nuovo jazz di scuola Pi. Arrivati alla bellissima Unscrolling, lo straniamento è totale: il ritmo glaciale della composizione incatena la chitarra di Halvorson a poche note che dettano il colore del brano in combinazione col vibrafono, con i fiati a fare da sparuto contraltare armonico. È addirittura il contrabbasso di Nick Dunston questa volta a prendere il ruolo di solista con un solo di archetto che, lo confesso, a un primo distratto ascolto mi aveva fatto dubitare si trattasse proprio della chitarra, tale è la maniera assolutamente inusuale in cui affronta il tono dello strumento e si pone all’interno della composizione. Quando il solo si conclude, l’andamento del brano è squarciato a metà: dove prima la batteria di Fujiwara riempiva lo spazio vuoto con rullate atmosferiche sui tom e controtempi sui piatti, adesso il ruolo delle percussioni è quello di sottolineare l’andante arioso del tema ricamando in maniera delicata sui piccoli momenti tra un battito e l’altro. Anche Desiderata sembra muoversi sulla strada dell’offuscamento, o almeno nella sua prima parte: una serie di intervalli di semitono pronunciati con un suono pulito e marcatamente jazzistico sono l’unico intervento della chitarra all’interno di un brano uptempo… almeno fino a quando il solo di Halvorson non discende come un fulmine. Distorsione, delay, cluster atonali: un hapax legomenon di funambolismo che pesca a piene mani dall’alt-rock novantiano di cui Halvorson è notoriamente appassionata che si spegne in un mare di rumore trasformando completamente il passo e l’intento del pezzo. Desiderata è, in tutto il suo splendore e nell’attesa che genera nel contesto del disco, un buco nero che rischia di far collassare il grande gioco di specchi di Cloudward: fortunatamente, le tracce successive ritornano a nascondere il comando di Halvorson dietro a un’inventiva capace di muoversi in più direzioni del linguaggio jazzistico senza alcuna difficoltà. Tra il post-bop irregolare di Tailhead, con un magnifico solo in sordina del trombone di Jacob Garchik, e le pennellate astratte di Incarnadine, su cui fa una tanto imprevista quanto gradita comparsata niente meno che Laurie Anderson (!) in veste di violinista, anche gli ultimi momenti dell’album sfoderano una competenza e un gusto nell’uso di colori e idiomi del genere da far girare la testa. La coda lirica di Ultramarine, un brano estremamente complesso in cui tutti gli strumenti dialogano gioiosamente tra di loro, riesce a ondeggiare tra umori umbratili e aperture solari con una facilità disarmante prima di chiudersi con la chitarra nel ruolo, per un’ultima volta, di direttrice d’orchestra.
Cloudward, quindi, gioca su tutti i punti di forza della scrittura di Mary Halvorson, ma fa scattare una inaspettata scintilla che non ricordo di aver trovato in tutti i suoi dischi precedenti: quella che riesce a far percepire la firma di una grande musicista anche quando la sua voce è limitata al minimo indispensabile. Sicuramente, gli altri dischi jazz di quest’anno dovranno puntare in alto per superare una prova del genere.