Il 2022 è sembrato essere l’anno in cui la consapevolezza ha abbracciato la possibilità del collasso. Dopo anni in cui la nostra attenzione è stata catalizzata dagli effetti domino che la diffusione di un virus poteva avere su ogni aspetto della quotidianità – e pazienza se ci veniva detto che anche la pandemia è una conseguenza dello sfruttamento degli ecosistemi –, le nostre vite sono tornate faticosamente ad assumere contorni simili a quelli precedenti all’impatto del SARS-CoV-2. Con il ritorno di una certa sensazione di normalità, è tornata anche la normalità della crisi climatica. Abbiamo assistito a ondate di caldo mai viste prima, un aumento vertiginoso della superficie di foreste ridotta in cenere, siccità prolungate che hanno riportato alla mente cataclismi secolari; all’altro polo della devastazione abbiamo dovuto familiarizzare con alluvioni, allagamenti e gelate mortifere che hanno fatto sembrare le infrastrutture dei giocattoli di cartapesta. Mentre giravamo in maniche corte a ottobre e i nostri nonni vedevano gli orti seccarsi, abbiamo avuto la sensazione che non fosse una situazione eccezionale; che dovremo farci i conti, se non l’abitudine. Abbiamo visto che anche quando il mondo si è fermato questi processi non si sono arrestati e che non esistono soluzioni semplici a problemi drammaticamente complessi. Questa pervasiva inquietudine verso il prossimo futuro non può non riversarsi sull’espressione artistica. Sono stati aperti svariati dibattiti sulle forme in cui la crisi climatica sta venendo raccontata nella letteratura e nei film, ma è impossibile credere che questo stato instabile non lasci un’impronta profonda anche nella musica che viene creata oggi. Proviamo allora a dare uno sguardo all’anno appena trascorso utilizzando questa lente impolverata di CO2: qual è la colonna sonora di una realtà al collasso? Come si esprime in musica la moltitudine di sentimenti di fronte a una crisi di proporzioni oltreumane? Prendete questo excursus come un esercizio mentale, un atto di divinazione retroattiva o una manifestazione di pensiero magico: anche nel caso di artiste ed artisti che non hanno dato nessun esplicito connotato ecologico alla propria opera, vogliamo cercare di individuare l’influenza di una modernità in bilico sulle espressioni e sui linguaggi della musica contemporanea, un ecosistema incredibilmente sensibile a ciò che gli capita attorno.
Un tema portante di quest’anno è stato l’incontro tra tradizione ed innovazione. Ne abbiamo parlato a più riprese, guardando all’Italia e al mondo: c’è un grande movimento di producer che mantengono la multidimensionalità dell’elettronica cercando strutture di significato negli strumenti, nelle pratiche, nelle sonorità della tradizione. Abbiamo vissuto la sbornia hi-tech nella musica e non solo, abbiamo accettato l’ingegnerizzazione pesante ad ogni livello con la promessa – l’illusione – di una progressione illimitata verso un’esistenza in modalità frictionless; ci siamo ritrovatə con la friction presente in mille crepe del quotidiano, tra burnout interiore ed outburn ambientale, a cercare un senso di appartenenza. Se tutto intorno a te sembra franare, avere delle forti radici è importante. Ecco allora che l’afflato di cambiamento passa per un recupero consapevole di quanto il passato ha da offrirci, combinato con le possibilità e la sensibilità dell’oggi per creare nuovi linguaggi in cui il futuro si manifesta in potenza. Abbiamo assistito in Italia allo sviluppo del progetto Mai Mai Mai, che in Rimorso ha incanalato la ricchezza culturale del Mediterraneo in nuove forme di ritualità post-industriale dove si manifestano sia le inquietudini del presente che i loro esorcismi; ma anche a un’anomalia come Cuadra dei Domestic Arapaima, un esemplare di elettronica rivendicata alla monocultura del software attraverso voci e parti strumentali analogiche composte ed eseguite ad hoc, una breakcore “suonata” e collaborativa che riumanizza i contorni del possibile mantenendo la natura schizoide in pieno stile ibrido Sonic Belligeranza. Allargando l’orizzonte di ascolto, ci sono interi progetti discografici che hanno assunto le caratteristiche di una volontà collettiva di ridefinire l’orientamento della tecnologia in musica. Se ci avete seguito nel 2022, sapete già che le uscite delle ugandesi Nyege Nyege Tapes e Hakuna Kulala e della messicana Naafi tracciano un percorso eccitante ed inclusivo nelle modalità in cui le valenze di identità culturali e musicali vengono amplificate dalle possibilità di diffrazione e metamorfosi dell’elettronica. In particolare ci hanno colpito: la digital cumbia spettrale in Cruda di Siete Catorce, che nel suo riutilizzo minimale di parti ritmiche e scorie glitchate ci invita a fare tanto con meno e a concepire le potenzialità del recupero per una creatività (un’economia?) circolare e autosufficiente; l’orgogliosa autoaffermazione di Afrorack, nome dell’ artista e dello splendido macchinario di sintesi modulare che lo assiste, oltre che dell’album omonimo, in cui si riappropria di forme espressiva sdoganate in Occidente modellandole sull’originalità della propria visione e per farlo diventa esempio di come sovvertire la pesantezza delle dinamiche commerciali piramidali in maniera attiva e dal basso.
Partire dal basso per arrivare a toccare la sensibilità collettiva parrebbe proprio nelle corde di un linguaggio fortemente comunicativo come quello hip hop. Tuttavia, se nel 2022 si è riconfermato il genere musicale capace di parlare a più fasce della popolazione, è impressionante (o meglio: purtroppo è coerente) riscontrare una quasi totale assenza della crisi climatica nelle tematiche portate avanti nel macrocosmo di questa scena. Più in generale nell’hip hop assistiamo da anni ad una stagnazione evidente sia a livello di proposta musicale che di impostazione comunicativa, tanto nel mainstream quanto nel midstream e anche qualche strato più sotto, che non fa che acuire la sensazione di una realtà bloccata con il futuro costantemente di là da venire. Allora l’attualità la ritroviamo sublimata in un disco colossale come Xaybu: The Unseen, dove il tema è proprio la contemplazione dell’ignoto: l’alternanza di inglese e wolof nei flow crea ritmo e significato con una ricchezza di soluzioni che inchioda all’ascolto, mentre la musica si espande in una profondità fantasmatica dove convivono la fisicità del groove e l’algidità degli scenari digitali. Il risultato è una dichiarazione potente che risuona nel qui e ora e non rinuncia alle ombre che si celano oltre i confini della comfort zone, anzi le guarda in faccia per poter trovare il luccichio del nuovo oltre il buio. E quando proprio la parola non riesce a contenere l’enormità della sfida, allora tanto vale dissolverla per alimentare un humus più fervido, più fertile: questo accade tra le spire di Baby With a Halo di Ura, dove i beat caratteristici della trap vengono trasfigurati e portati lontanissimo dai fuochi fatui di dissing e bragging, dissolti nella densità mutante di una dub techno popolata di glitch. È materiale corposo e allucinato che sembra rimestare dentro di sé le rovine di un ordine superfluo, come il fango di un fiume in piena.
Abbiamo capito che la tecnologia da sola non ci salverà, ma la sua potenza rivoluzionaria non va sottovalutata. Ci servono rivoluzioni che creano legami e gettano ponti verso direzioni nuove, come i chiaroscuri tratteggiati da Florent Ghys che in un sol colpo ci propone il lavorìo dell’esplorare le possibilità di uno strumento e la sua trasformazione in linguaggi elettroacustici coraggiosi e gentili, togliendo giri di chiave a tante porte dell’immaginario; ma ci servono anche atti rivoluzionari senza compromessi, sonorizzati ad esempio dalla lucidissima follia di Nwando Ebizie e del suo The Swan che travolge strutture e deflagra convenzioni con furore sciamanico, uno scenario violentemente godurioso come quello di una fabbrica di cemento devastata dalla folla. Certo, immaginare il reindirizzamento tecnologico mentre si è ancora dentro la distopia della sorveglianza costante genera angoscia, rabbia montante. La temperatura dell’inquietudine si può misurare nell’anima scura che quest’anno ha pervaso la musica electro: la componente espressiva più tradizionalmente legata alla meraviglia degli scenari spaziali e alla fiducia tecnologica, sempre ben rappresentata da molti producer della scena (ascoltatevi per gradire le ultime uscite di Nemo Vachez), non è mai sembrata così anacronistica come nel 2022. Abbiamo invece assistito all’incarnazione più cupa e ossessiva del pioniere Galaxian, un incubo senza apparente via di uscita tra loop e stridori industriali dall’appropriato titolo Destroy Your Future, mentre sui lidi più vicini al dancefloor hanno marcato il territorio uscite come Nightmare at 20.000 Feet, che trascinano il tradizionale beat sincopato a rimbombare nel cuore della macchina tra tossine acidissime e presse meccaniche in cui aleggia lo spirito della digital hardcore. Ma la speranza non muore, anzi si rinnova: sempre Galaxian, nell’album We Are Power e in particolare nella title-track, mostra come la voce umana (questa voce) può ergersi insieme alle altre viventi al di sopra dell’oppressione della tecnostruttura e guidare consapevolmente la massa di circuiti anziché lasciarsi travolgere.
Queste sono suggestioni nate da alcuni degli ascolti fatti quest’anno e dal particolare momento storico in cui sono avvenuti. Valgono anche come consigli relativamente alle artiste e agli artisti citati, per cui è certamente un merito aver suscitato sensazioni e riflessioni più ampie a partire dalla propria arte. Va da sé però che questo sentiero tematico è troppo stretto per contenere tutta la multiforme meraviglia della musica che è arrivata alle nostre orecchie nel corso del 2022: per questo, qui sotto trovate una manciata di listoni per segnalarvi i dischi che più mi hanno colpito nell’anno appena passato. Buona immersione, forza e coraggio.
Classifica Album
1) Extra Life – Secular Works, Vol. 2
2) Sélébéyone – Xaybu: The Unseen
3) The Afrorack – The Afrorack
4) Nwando Ebizie – The Swan
5) Jonathan Berger – Mỹ Lai
6) Congotronics International – Where’s the One?
7) Aeviterne – The Ailing Facade
8) Danilo Pérez feat. the Global Messengers – Crisàlida
9) Kirk Knuffke Trio – Gravity Without Airs
10) Florent Ghys – Mosaïques/Ritournelles
11) Vladislav Delay – Isoviha
12) Richard Dawson – The Ruby Cord
13) Show Me the Body – Trouble the Water
14) Balungan – Kudu Bisa Kudu
15) John Escreet – Seismic Shift
16) Imperial Triumphant – Spirit of Ecstasy
17) Piotr Kurek – World Speaks
18) Perfume Genius – Ugly Season
19) David Liptak – Brightening Air
20) Malin Bång – Works for Orchestra
Classifica EP
1) Azu Tiwaline & Al Wootton – Alandazu
2) Springtime – Night Raver
3) Le Dom – Caesura
4) Rhyw – Honey Badger
5) Dwarde & Tim Reaper – Aquatics / Holding On / Realisation / Ghost Mutt
6) Cleyra – Soft Bloom
7) Acidulant / Voiron – Acid Avengers 020
8) Sharda – Unreality
9) Front 242 – <<Rewind<<
10) Carmel Smickersgill – We Get What We Get & We Don’t Get Upset
Menzioni d’onore
- Joan Gómez Alemany – 7 Works for Chamber Music and Ensemble
- Laura Cocks – field anatomies
- Sam Dunscombe / Rebecca Lane / Horațiu Rădulescu – Plasmatic Music, Vol. 1
- Francisco Guerrero / Juan de Triana / Hurtado de Xerés / Hernando de Cabezón – Cancioneros del Siglo de Oro 1451-1595
- Anna von Hausswolff – Live at Montreux Jazz Festival
- Reinier van Houdt – drift nowhere past / the adventure of sleep
- Mingus – The Lost Album From Ronnie Scott’s
- Jesper Nordin – Emerging From Currents and Waves
- Pongo – Sakidila
- Marek Pospieszalski – Polish Composers of the 20th Century
- RSS B0Y 1 – MYTH0L0GY
- Horace Tapscott Quintet – The Quintet
- Cecil Taylor – The Complete, Legendary, Live Return Concert
- Cecil Taylor – Respiration
- TSHA – fabric Presents
- Ura – Baby with a Halo
- VOX Populi! – Psyko Tropix
- Various Artists – Rare SSR Electronica 1989-91 (Crammed Archives 0)
- Various Artists – Songs of Slavery and Emancipation
- Various Artists – Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised)
Playlist
Fuori da Spotify:
Eliott Blaise-Lassire – Music Under Sand & Mud
Galaxian – We Are Power (The Final Assault)
Sam Dunscombe / Rebecca Lane / Horațiu Rădulescu – Small Infinities’ Togetherness, Op. 15